Questa nostra età della giovinezza / Critica della ragione giovanilista

22 Aprile 2017

Sembra che la società, almeno nel mondo cosiddetto occidentale, stia ringiovanendo. O, per essere più precisi, sembra che i suoi tratti giovanili stiano andando ben oltre i consueti limiti di età, che questi tratti vengano conservati più a lungo nei suoi componenti adulti – neotenia, in termini biologici ed evoluzionistici – nonostante aumenti di pari passo la vecchiaia della sua cultura. La scienza recente, infatti, che pure con il suo genio irrequieto mantiene in noi le spinte propulsive della giovinezza, ha enormemente accresciuto l’età del pianeta e della specie umana. Oltre a indagare il fenomeno, Robert Pogue Harrison, nel saggio Juvenescence. A Cultural History of Our Age (2014) tradotto di recente in italiano per Donzelli con il titolo L’era della giovinezza. Una storia culturale del nostro tempo (2016), si interroga sulle condizioni e sulla validità di tale imprevisto ringiovanimento. Sebbene il critico si astenga dall’esprimere giudizi precisi al riguardo, la stessa ampia operazione condotta nel libro del tracciare una teoria della neotenia culturale – e non propriamente una sua storia, come l’autore ci tiene a precisare – sembra muoversi contro l’idea di una giovinezza che si sente tale soltanto nel rifiuto e nell’interruzione di ogni rapporto con il proprio passato.

 

Nelle ultime due decadi almeno, gli studi sulla memoria culturale sono diventati una pratica accademica così consolidata e diffusa da far pensare a una sintomatica reazione, a una sorta di percepita perdita di continuità con la tradizione che affliggerebbe la nostra società. Tali studi non si interrogano tanto sul passato come serie di eventi – questa è competenza della storia – bensì sulle modalità di trasmissione e sopravvivenza del passato nel presente ed eventualmente, attraverso il problematico ponte costituito da quest’ultimo, nel futuro. Per Jan Assmann, in Das kulturelle Gedächtnis (1992; trad. it. La memoria culturale, 1997), si tratta infatti di indagare le “strutture connettive” grazie a cui una certa cultura si mantiene nel tempo, individualmente e collettivamente, creando uno spazio condiviso di esperienze, ricordi e speranze attraverso particolari pratiche istituzionalizzate di “ripetizione”.

 

Ph Bae Bien-U.


In uno splendido saggio del 2003, The Dominion of the Dead (pubblicato in italiano da Fazi nel 2004 con il titolo Il dominio dei morti), Harrison affrontava la questione nei termini del rapporto che lega, o dovrebbe legare, i vivi ai morti. Nel nuovo lavoro invece, attraverso una impressionante varietà di fonti e riferimenti, indaga una dinamica affine e ugualmente complessa nei termini di una doppia dialettica tra giovinezza e vecchiaia e tra genio e saggezza, senza che la seconda coppia di termini in contrapposizione sia facilmente sovrapponibile alla prima. Il genio ha certamente a che fare con le energie propulsive e la curiosità insite nella giovinezza, dopotutto esso “trae origine da una riluttanza a crescere” (p. 25); tuttavia, si sa, si può benissimo essere anagraficamente vecchi senza per questo essere minimamente saggi. La saggezza, allora, è piuttosto la consapevolezza di una vecchiaia culturale. 

 

Quello tra gioventù e vecchiaia è chiaramente uno spazio contestato e di contestazione, come lo è quello tra i vivi e i morti. Se il genio della giovinezza propende e, nelle circostanze migliori, addirittura lotta per produrre il nuovo, compito della saggezza è invece difendere un contatto con la tradizione operando una sintesi, mantenere attivo il passato nel presente se si vuole, cioè collocare le intemperanze creative del genio in una prospettiva temporale di più lunga durata. La sola conservazione della saggezza condurrebbe ben presto la società a una stasi di puro mantenimento, una stagnazione che alla lunga potrebbe diventare mortale; la sola frattura proposta del genio porterebbe a una serie di attività irrelate e quindi, a un certo punto, a una mancanza di contatto con il mondo, con lo spazio che una cultura dovrebbe saper abitare. Un mondo, infatti, è “un contesto di permanenza storicamente fondato in cui si svolgono le nostre vite transitorie e mortali” (p. 118). La cultura umana, per l’umanista vichiano Harrison, incontra le sue epoche di fioritura quando “questi due elementi operano congiuntamente” (p. 25). 

 

Per arrivare al punto di farsi, ormai quasi alla fine del suo lungo viaggio, come “un fante / che bagni ancor la lingua a la mammella” (Paradiso XXXIII, vv. 107-8) perché incapace di dire a parole la novità e l’eccezionalità dell’esperienza del divino a cui è esposto, il pellegrino Dante deve non soltanto essersi purificato spiritualmente, deve anche aver attraversato quei tre regni dell’oltretomba che costituiscono una straordinaria summa della sua storia culturale. Così per Enea non può darsi la fondazione di un nuovo popolo senza portare con sé il padre Anchise e il figlio Ascanio. Enea è l’immagine tradizionale della forza della generazione presente che deve essere ugualmente legata a quel che è stato e tesa verso quel che non è ancora per aprirsi uno spazio effettivo di possibilità. È in questa direzione, spiega Harrison, che l’affermazione di Wordsworth “il bambino è padre dell’uomo” (in Ho un sussulto al cuore, 1802, v. 7), apparentemente paradossale in termini temporali, acquisisce un senso: “la maturità umana ha la sua fonte nella giovinezza che porta a compimento. Più profonda è la fonte, più eccezionale è la crescita, il che è un altro modo per dire che la giovinezza umana, nel suo ritardo neotenico, rende possibile una maturazione spirituale che non ha equivalenti nel regno animale, in quanto apre agli individui umani l’accesso a un’ampia gamma di modi di essere psichici, e non solo organici” (p. 43).

 

Nell’avventura filosofica platonica, così come nell’opera di affermazione del cristianesimo, nella rivoluzionaria impresa illuminista e nel processo di fondazione della Repubblica americana, Harrison indaga l’importanza strutturale del “portare una caratteristica culturale giovane a un livello di maturità più elevato” o del “conferire a un retaggio senile una forma nuova o più giovane” (p. 76). Tutte queste “rivoluzioni neoteniche”, infatti, aderiscono al “principio della continuità nella rottura, o del sovvertimento mediante l’appropriazione” (p. 94). La rivitalizzazione del passato ereditato è fondamentale affinché il nuovo possa (legittimamente) proiettarsi nel futuro. Ma che tipo di giovinezza è quella che caratterizza la società contemporanea? Siamo di fronte a una “rivoluzione neotenica” di straordinarie proporzioni oppure si tratta soltanto di una “giovanilizzazione” appiattita su un presente reso orfano della storia? Nella nostra strenua ricerca del nuovo e del cambiamento, abbiamo perduto quell’amor che dovrebbe tenerci uniti e tener unito il nostro mundus?

 

Naturalmente è troppo presto per emettere un giudizio storico preciso sulla contemporaneità. Tuttavia i segni di una mutazione sono evidenti e la perdita del “senso di appartenenza al mondo” soggettivamente percepita è indistinguibile dalla perdita oggettiva (p. 128). La potenzialità del nuovo, quel che Hannah Arendt chiama “natalità”, dipende dai giovani. È perciò importante aver cura della loro educazione se questi giovani sono chiamati non soltanto a rivitalizzare il mondo, ma anche a prendersene cura nella prospettiva del futuro. È qui che il discorso di Harrison si sposta sul sistema di trasmissione che dovrebbe offrire ai nuovi arrivati quella profondità temporale in cui si colloca il mondo dove sono venuti alla luce e si trovano a vivere in un dato momento. Harrison parla dell’istruzione scolastica nelle forme di una katàbasis, quel fondamentale viaggio tra le ombre più o meno remote della storia che necessita di qualcuno che indichi la strada e dia così avvio al percorso attraverso cui il giovane dovrà singolarmente giungere alla fonte che racchiude in sé anche la possibilità di un futuro. 

 

Per affrontare tale processo di scoperta il giovane ha bisogno di concentrazione solitaria in cui imparare, interrogarsi e riflettere, immaginare e osservare, avviando un dialogo con se stesso e con chi lo ha preceduto. Le tecnologie informatiche, con quella sorta di ipnosi indotta dagli schermi, rischiano di “inibire il processo di maturazione che avviene nel continente profondo” e che fa del giovane un adulto “non solo psicologicamente ma anche a livello culturale e storico” (pp. 135-6). Il nostro mondo rischia di disperdere le energie dell’essere umano non ancora maturo, perché lo espone a un caotico eccesso di stimoli così insistenti da impedire il raccoglimento nel pensiero necessario per il nascere dell’amor mundi. Nei versi di Dopo lungo silenzio di Yeats, Harrison rintraccia un insegnamento fondamentale: se abbiamo acquisito in gioventù le “modalità dell’apprendere”, saremo capaci di affrontare la vecchiaia con saggezza e di mantenere attiva in noi la disponibilità a imparare. Di qui l’importanza che Harrison riconosce alla formazione permanente, anche come possibile “campo di affermazione dell’educazione umanistica”, che richiede già una certa maturità e, nel differimento della maturità a cui assistiamo oggi, è quindi più consona a una fase più avanzata della vita (p. 143). Per diventare giovani davvero, in senso culturale, bisogna imparare a conoscere e riconoscere la propria vecchiaia. 

 

A cosa porterà questa nostra “età della giovinezza” che Harrison collega, nell’epilogo, a una certa “americanizzazione”? Ci evolveremo in una “nuova forma di vita”? La storia culturale precedente – quindi la dinamica di trasmissione culturale teorizzata con chiarezza nel libro – non sembra aiutarci a offrire delle ipotesi precise. Di fronte a questo fenomeno nuovo, anzi immersi in esso, è impossibile formulare profezie. Quel che possiamo sapere, ci dice Harrison, è che in questa nostra età, così profondamente eterocronica, siamo al contempo giovanissimi e vecchissimi, come non lo eravamo mai stati prima. E siamo esposti al rischio concreto di perdere la profondità temporale in cui il genio possa ricomporsi con la saggezza per fornire continuità culturale alle trasformazioni che insegue, per dare sostegno alle innovazioni che avanza. 

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