Gli arabi, Israele e il terrorismo

Nella situazione di tensione che si è creata nel Mediterraneo, come percepisci tu il problema dei rapporti tra i paesi della sponda nord del Mediterraneo e i paesi della sponda sud, tra paesi come l’Italia e paesi di cultura islamica come la Libia, ma anche come l’Egitto, come la Tunisia, come l’Algeria e che cosa ti sembra che si debba fare, pensare, scrivere, per evitare che si creino tensioni senza uscita come quelle che qualche volta si sono create? Non c’è anche una mancanza di conoscenza da parte nostra?

 

La conoscenza è certamente una buona cosa e la conoscenza che noi abbiamo del mondo arabo è scarsa, obiettivamente. Ma direi che è scarsa in parte per colpa nostra e in parte anche per colpa loro, perché veramente da secoli, dal mondo arabo e dall’Islam più un generale, è uscito pochissimo di buono. Sono utenti della civiltà tecnologica a cui non hanno contribuito, sono utenti del marxismo senza averlo rinnovato, insomma stanno in qualche modo ai margini della civiltà occidentale e di quella comunista. La mia impressione è piuttosto negativa, non mi fiderei di nessun governante, né di Mubarak, né tanto meno di Khomeini, né di Gheddafi. Sono poco affidabili, pronti a salire su un treno o sull’altro a seconda delle convenienze. Più che cinici o spregiudicati mi sembrano insicuri, malcerti.

Per quanto riguarda Gheddafi in specie, non mi piace proprio niente di lui come persona. Ciò non toglie che ho provato una repulsione profonda alla notizia del bombardamento di Tripoli. Non si fa. Mi è sembrato assurdo, come cercare di uccidere una mosca con una mazza ferrata. Poi nel modo come è stato fatto, nel modo come è stato giustificato. Gli americani hanno detto apertamente che volevano proprio uccidere lui. Gheddafi non mi piace, però non mi pare che si debbano ammazzare le persone che non ci piacciono. Eliminarlo politicamente è un conto, eliminarlo fisicamente è un altro conto. Poi in questo modo così brutale e senza interpellare, se non a cose fatte, gli alleati europei mi è sembrato un vero delitto politico, non giustificabile neppure sul piano della politica reale. Non serve, non si combatte così il terrorismo. La stampa americana è venuta fuori stamattina con una notizia curiosa, ingenua: faremo cose clandestine. Ma è una contraddizione in termini, se sono clandestine non lo dite.

 

 

C’è stata una reazione positiva dei governi islamici alla visita di Woytila alla sinagoga di Roma?

 

Positiva? Premetto una cosa, ho vissuto questo episodio in Inghilterra, quindi l’ho saputo dai giornali inglesi che ho letto poi molto rapidamente e dalla televisione inglese. Quindi ho mancato molte cose. Ciò che mi dici mi interessa molto, ma non lo sapevo. Ho sentito dell’Iran, di Khomeini, che ha dichiarato che contro la religione mosaica non ha nulla ma contro gli ebrei sì, è vero?

 

Sì qualcosa del genere. Però credo che altri governi abbiano avuto reazioni sostanzialmente di approvazione. È una speranza.

 

Anche l’incontro del papa con il rabbino Toaff l’ho visto da lontano e da un osservatorio che non è il mio consueto. A priori mi lascia vagamente diffidente, certamente è una cosa positiva, però io non ho molto da spartire né con il papa né con il rabbino Toaff; le conseguenze non possono essere che buone a mio parere. Ma ci sono state solo reazioni positive?

 

Che io sappia, se qualcuno non era d’accordo non ha parlato.

 

Anche fuori dal mondo arabo chi non era d’accordo non ha parlato. L’ebraismo ortodosso è tutt’altro che favorevole, lo sai. I rabbini ortodossi americani e islamici hanno alzato gli scudi.

 

 

Usciamo da un lungo periodo in cui dall’altra parte del mare ci è arrivata soltanto l’eco distorta di quello che si pensava di qua. Gli autori arabi, o islamici, che la sinistra ha approvato o con cui si è identificata, per esempio all’epoca della rivolta d’Algeria, erano persone che si erano laureate a Parigi, avevano studiato Sartre ed erano dei Sartre un po’ più scuri. Oggi questi paesi diventano più americani nei consumi e meno europei nella cultura. Pongono problemi nuovi. Può darsi, ma probabilmente diventano un’altra cosa da capire e di fronte a cui atteggiarsi.

 

Conoscere è sempre una buona cosa. Mi piacerebbe moltissimo sentire o leggere qualche opinione sensata, proveniente dal mondo islamico. Il fatto di barricarsi dietro un testo illustre come il Corano, ma vecchio di quattordici secoli, è di grande rigidità. È un integralismo. Forse per questo hanno approvato l’incontro tra due integralisti, il papa e il rabbino Toaff.

 

Non credi che le misure che si prendono per bloccare il terrorismo possono bloccare oltre i terroristi o invece dei terroristi, magari qualche centinaia di migliaia di persone che vorrebbero venire in Italia a lavorare e non trovano un sistema di leggi chiaro, aperto, che gli consenta di farlo?

 

Fino a due mesi fa avrei detto no a qualunque misura discriminatorie. In questa situazione si tratta di un problema pratico. Veramente quando c’è la possibilità che dentro una valigia ci siano dieci chili di tritolo si deve provvedere, anche con danno di molti innocenti. Fino a che è un danno economico, pazienza. È un male necessario. A questo punto i controlli all’aeroporto ci vogliono. È una discriminazione nei riguardi degli immigrati islamici, arabi, di quelli che vengono a cercare lavoro qua. È dolorosa, ma in questo momento occorre accettarla.

 

Alcuni commentatori fanno risalire la tensione fra Stati Uniti e Libia a una causa primaria che è la diaspora palestinese.

 

Questa è una delle cause. Non so se sia la principale. È difficile fare la storia con i se, cioè dire: se non ci fosse stata una diaspora palestinese cosa sarebbe successo? A me pare che sia una causa, forse una fra le più importanti, decisamente non l’unica. Esiste certamente un risveglio del mondo islamico, una ricerca di identità, una presa di coscienza. Noi esistiamo dall’Atlantico fino alla Malesia, siamo cinquecento milioni, quindi un’enorme forza potenziale, almeno numericamente. È un mondo che conosco molto male, che si sia del buono anche nel campo islamico, non posso escluderlo. Se non altro nelle epoche passate, ci sono stati contributi importanti anche alla nostra civiltà. È esistita una civiltà islamica che è fiorita in Spagna, che ha fatto da tramite per tutto il Medioevo fra la filosofia greca e la filosofia moderna. In questo intreccio il problema palestinese è indubbio che va risolto. Mi rincresce molto di trovarmi d’accordo con Andreotti su questo, ci si trova ad avere alleati dove meno te lo aspetti. Fra Spadolini e Andreotti propenderei piuttosto per Andreotti che non per Spadolini. Mi rincresce ma è così. Anche per ragioni puramente concrete. È meglio la prudenza in questi casi, è meglio la reciproca conoscenza. C’erano ottomila italiani in Libia, adesso ne sono rimasti tremilacinquecento, mi pare. È meglio da parte italiana una politica che non li mandi allo sbaraglio. Quanto al problema palestinese è chiaro che va risolto. Dirti come, non lo so. Sono state fatte delle divisioni, delle discriminazioni molto pesanti su indipendenza o autonomia o confederazione o altro, ma ho l’impressione che se si interpellassero veramente i palestinesi, si potrebbero trovare delle soluzioni concordate e accettabili. Da tutti no, ma da buona parte sì. Di Gheddafi ho letto che sta sullo stomaco ai religiosi, perché arma le donne per esempio, perché ammette le donne all’università, tutte cose che all’islamismo non piacciono. È un mondo molto vario. Bisognerebbe conoscere l’arabo per leggere i giornali. Non è escluso che la versione che viene a noi sia manomessa, cioè che forse qualche cosa giusta l’ha detta anche Gheddafi.

 

Cosa pensi della tendenza a violare le regole dei rapporti tra stati, cioè dell’intervenire senza dichiarazione di guerra sul territorio di altri stati in risposta ad atti terroristici singoli?

 

Non c’è dubbio che il rispondere al terrorismo con un intervento massiccio armato, sancito dal governo, non saprei come definirlo, è nazista. L’hanno detto un po’ tutti. Anche gli americani lo dicono. Mi sai dire cosa capiterà domani? Magari domani bombarderanno Damasco. Inutilmente, perché se c’è un cemento per il mondo islamico è questo. Siamo purtroppo condannati a scegliere volta per volta fra la morale e la real politic. Ma questa volta non funzionano né l’una né l’altro. L’intervento americano in Libia non è giustificabile in nessun modo.

 

 

Ti sembra che abbia senso, in democrazia, nel rispetto della separazione del giudizio etico e di quello politico, chiedere che la pratica politica rispetti l’etica prevalente dei cittadini?

 

La mia generazione ha visto il processo di Norimberga. Era illegale ma andava fatto, proprio per stabilire questa distinzione. Alcune cose non vanno in nessun caso. Anche se putativamente sono utili non si devono fare. No, certamente da parte della nostra coscienza profonda, cristiana se vuoi. Il nostro paese può commettere degli errori. In questo caso abbiamo il diritto di distanziarci da quello che fanno i politici. È così anche in America. Ogni americano ha il diritto di disapprovare e la somma delle disapprovazioni dei singoli ha un peso, deve averlo.

 

In «Ex-machina», 1986.

 

 

Post scritto. Le circostanze di un’intervista

di F. Ciafaloni

 

Ci si può chiedere perché «Ex-machina», una rivistina della Cgil piemontese, di breve vita e di modestissimo rilievo, intervistasse Primo Levi, nell'86, un anno prima del suicidio, su un tema poco sindacale come il bombardamento di Tripoli da parte delle forze aeree degli Stati Uniti, e il conflitto Israele/Palestina. E perché Primo Levi accettasse.

Ci sono motivi generali e personali. I motivi generali sono presto detti. Anche se la Cgil di metà degli anni '80 non era un consesso di illuminati che si occupassero di problemi mondiali – i sindacati hanno problemi duri e immediati da affrontare, sempre; non possono dimenticarsene mai; e se lo fanno sono morti – era però molto più di ora percorsa da aspettative e ideali universalistici. Era il sindacato di Bruno Trentin, che ne sarebbe diventato segretario generale nell'88; aveva un ufficio permanente a Johannesburg per tenere i contatti con il COSATU (la confederazione dei sindacati di lì) e l'ANC di Mandela. Non c'erano barriere organizzative. È nell'ufficietto di «Ex-machina» che ho conosciuto Luisa Morgantini, allora della Fim, tuttora spesso presente in luoghi difficili, tra cui la terra tra il Giordano ed il mare. Non c'era bisogno di permessi per occuparsi di etica e di politica.

Primo Levi, da parte sua, aveva lavorato tutta la vita in un'industria; conosceva il mondo del lavoro e i suoi problemi, non aveva diffidenza né alterigia verso una rivistina sindacale. Era un universalista, ma consapevole della necessità di battersi quando è necessario; teso a distinguere il bene dal male, ma profondamente turbato dall'ambiguità delle distinzioni. Se non ora quando è dell'82; I sommersi e i salvati dell'86.

 

I motivi personali sarebbero più lunghi da raccontare, ma si possono sintetizzare. Prima di lavorare per la Cgil ero stato redattore della Einaudi e della Boringhieri; non c'è da stupirsi che fossi interessato ai fatti del mondo. Prima ancora ero stato ingegnere dell'Eni, con un master preso ad Austin, Texas, nell'anno sbagliato, 1962, l'anno della crisi dei missili a Cuba e dell'assassinio di Enrico Mattei. Tra le 34 vittime della prima strage di Fiumicino, quella del dicembre '73, la più sanguinosa, c'era Raffaele Narciso, che era stato mio superiore diretto a Gela ed era un ingegnere motivato, rispettoso dei lavoratori, di ogni credo e colore, che si era trovato a prendere l'aereo per Teheran nel momento sbagliato. Non c'è da stupirsi che anche la seconda strage di Fiumicino, del dicembre '85, e il bombardamento di Tripoli, mi coinvolgessero più della media degli italiani. E, per i casi della vita più che per il lavoro editoriale, non solo ero amico di Primo, ma conoscevo quasi per intero le due famiglie Levi che il Gruppo di studi ebraici, quello di «Ha Keillah», aveva usato come esempi dell'ebraismo piemontese nella mostra omonima: quella di Primo, Carlo, Riccardo, Giovanni, Stefano; e quella di Franco (il Palazzo a vela; il cemento armato precompresso) e di Fabio. Allora ebraismo ed universalismo erano quasi sinonimi, a Torino.

 

Primo ed io avevamo in comune l'amicizia con Bianca Guidetti Serra. Ci piacevano le camminate di mezza montagna, con i boschi e le malghe, anche molto vicino, tra l'Orsiera e il Musinè. A Primo piaceva raccontare, a voce oltre che per iscritto. Anch'io aggiungevo delle storie. Parlavamo, con lui ed altri amici, di chiavi a stella, di storie naturali; qualche volta del passato che ritorna, come non ha mancato di fare. Quasi mai di Lilith, e temi connessi. Mai dei problemi personali suoi.

Negli ultimi tempi le camminate erano diventate rare. Primo assisteva, con la moglie, sua madre e sua suocera, due vecchie signore bellissime, con i capelli perfettamente bianchi, come, alla fine, la  barba di Primo, ma non più autonome. Le trovai, insieme al figlio e genero, nella casa di corso Umberto, con la tromba delle scale quadrata, e la ringhiera troppo bassa, dove andai per l'intervista. Primo, che aveva accettato volentieri, era teso. Aveva altro per la testa. Se l'intervista vi sembra schematica rispetto a I sommersi e i salvati, abbiate pazienza. È colpa dell'intrusione.

 

Insieme a quella a Primo, sullo stesso tema, «Ex-machina» pubblicò  un'intervista a Vanessa Maher, antropologa, col doppio passaporto, britannico ed italiano, autrice di una ricerca importante in Marocco, ma con una vita passata col padre tra Kenia e Medio oriente, oltre che nel Regno Unito e in Italia. Col suo aiuto professionale, la passione di una bravissima ricercatrice di padre astigiano e madre oromò e vari sostegni istituzionali, mettemmo insieme un gruppo di ricerca di una ventina di immigrati provenienti soprattutto dall'Africa, dal Medio Oriente, dall'America latina, che è rimasto coeso a lungo. Nel quarto di secolo passato da allora il mondo è cambiato molto; spesso tragicamente. Nel gruppo c'erano tre ragazze somale, un tutsi, due curdi, un eritreo, un libanese, vari marocchini, un peruviano.

Se sommiamo il numero di morti delle guerre civili e non che hanno coinvolto i miei amici e le loro famiglie, ci avviciniamo a un paio di milioni. Le lunghe chiacchierate nel gruppo, più ricche delle interviste formali, e le letture, mi hanno convinto negli anni a diffidare delle spiegazioni monocausali. Una volta si spiegavano le religioni con l'economia e la società. Oggi tutto ciò che non è economia – che viene presentata come la razionalità, la necessità, l'unica via – viene spiegato con la religione. Anche i protagonisti, una volta, davano giustificazioni sociali alle scelte etiche. Adesso si danno giustificazioni religiose anche alle rivolte sociali. Una volta si vedeva l'Internazionale comunista (prima anche quella socialdemocratica) dietro ogni rivolta. Adesso dietro le rivolte si vede l'Internazionale islamica.

 

Certo, le organizzazioni esistono. Hitler e Stalin ci sono stati, e possono nascere loro emuli.  Come c'è stato e c'è l'imperialismo americano. Ma, nel gran conflitto che ci travolge, i soggetti sono molti. È difficile separare il bene dal male, come siamo tenuti a fare nelle cose che ci coinvolgono direttamente.

Per questo, anche di fronte alle uccisioni recenti, la mia è una reazione di lutto, non di rabbia. Come Joe Sacco sul «Guardian» (e su «Internazionale»). Come è di lutto lo sguardo di Timothy Snyder sulle Bloodlands. Sulle colpe delle guerre lontane, di cui non so abbastanza, come Altan, rivendico la libertà del dubbio.

 

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