Il fiume senza sponde / Juan José Saer, per una letteratura fluviale
All’inizio del secondo quarto del XVI secolo, grossomodo mentre in Europa Lutero redige le sue tesi, dall’altra parte dell’Oceano Atlantico una spedizione diretta alle Indie guidata da Juan Pedro Díaz de Solís per conto della corona spagnola, allora sul capo del “Cattolico” Fernando II d’Aragona, porta per la prima volta uomini del vecchio continente a solcare un nuovo mare, dulce, come ebbe subito a battezzarlo proprio Solís dopo averne assaggiato le acque. Lo stesso mare che poi, derubricato a fiume e temporaneamente celebrato come Río de Solís, prese infine la denominazione di Río de la Plata, fiume dell’argento, da cui il nome quanto mai ingannevole della nazione che ne segue la sponda sud, l’Argentina.
Più che un nome, «un flagrante abuso verbale, perché in tutto il territorio nazionale non c’è mai stato un solo grammo di quel metallo». Se, infatti, «la denominazione Mar Dulce corrispondeva a una certa verità empirica, e quella successiva di “río de Solís” aveva una ragione commemorativa, […] il nome definitivo di Río de la Plata non indica altro che una chimera» (Juan José Saer, Il fiume senza sponde, trad. it. di Gina Maneri con gli allievi della scuola di specializzazione in traduzione editoriale Tuttoeuropea di Torino, La nuova frontiera, Roma, 2019, p. 111). Una chimera: un miraggio esotico d’infinite ricchezze che portò alla morte lo stesso Solís, trafitto da una freccia avvelenata durante la prima esplorazione di quelle mutevoli sponde e subito dopo fatto carne sacrificale da banchetto, a segnare l’inizio d’un già cruento rapporto tra popoli e culture.
Perché, come noto, gli spagnoli non trovarono da quelle parti quanto vagheggiato. Trovarono invece soltanto distese d’acqua indocile e fango, fame, un clima piuttosto indecifrabile, spesso avverso, e numerose tribù variamente antropofaghe e nude: umani talmente “indietro” rispetto al tempo lasciato in Europa da far loro evocare alternativamente la creazione, la selvatichezza o la barbarie.
È così che comincia la storia documentata dell’immenso Río de la Plata, corso d’acqua anomalo per la sua specie in cui «manca […] ciò che, nella configurazione di tutti i fiumi, riposa lo sguardo e tranquillizza, completando l’idea, l’archetipo del concetto stesso di fiume: la sponda opposta» (ivi, p. 27). Un fiume che, nascendo dalla confluenza dell’Uruguay e del Paraná (a loro volta generati da innumerevoli confluenze e separazioni), trascina detriti di terra amazzonica e andina fin dentro l’Atlantico e segna con la sua distesa d’acqua «immobile, immemore e vuota» (ivi, p. 13), inscritta nella sconfinata pianura d’attorno, suo sterminato bacino, una «geografia astratta» in cui «certi atti umani, individuali o collettivi, certe presenze fuggevoli, hanno acquisito la massiccia perennità delle piramidi o delle cattedrali» (ivi, p. 22). Un luogo cioè essenzialmente immaginario, ancorché del tutto reale, e incapace di adattarsi al concetto di confine. Perché «per Río de la Plata si intende sia il fiume propriamente detto, sia l’insieme formato dalla regione della pampa e dell’Uruguay, ma a volte diventa addirittura sineddoche per indicare l’Argentina tutta e persino il Paraguay» (ivi, p. 37).
Ed è su questa stessa linea astratta, ingannevole, aleatoria, talvolta iperbolica, sicuramente contraddittoria come le cronache registrate dai primi viaggiatori bianchi, e di certo profondamente letteraria, che se ne può leggere la storia successiva. Una storia fatta di commistioni, abbandoni e appropriazioni, come quelle che in principio hanno visto avvicendarsi colonizzatori umani e non umani nella genesi dell’attuale civiltà fluviale: dagli indios e dai guanachi nativi fino ai primi spagnoli, ai negrieri e ai loro schiavi africani, dalle mucche e dai cavalli – «Si può dire che nella pampa sia stato il bestiame, bovino ed equino, a creare la civiltà, e non viceversa» (ivi, p. 71) – fino agli immigrati europei dei secoli XIX e XX, passando per varie combinazioni tra i mentovati viventi: esempio ne sia il gaucho, essere squisitamente letterario, impensabile senza bovini ed equini, che ha frequentato più le pagine di Hernández e Borges che la realtà storica.
Così, seguendo il corso esteso del Río de la Plata nella storia e nell’immaginario, da quel primo sbarco spagnolo fino alla dittatura argentina del passato recente e oltre, Juan José Saer, incitato dal suo editore, scrive El río sin orillas: tratado imaginario, volume del 1991 oggi edito in Italia come Il fiume senza sponde. Trattato immaginario da La nuova frontiera, editrice romana che da qualche anno sta pubblicando l’opera narrativa di colui che Beatriz Sarlo, e con lei molti, definisce il più grande scrittore argentino della seconda parte del Novecento, collocandolo nello spazio apicale che fino agli anni Sessanta era occupato da Borges (giudizio che Ricardo Piglia considera addirittura riduttivo).
Per questa sua natura di “libro su commissione”, e per il suo posizionarsi al confine tra la prosa romanzesca e il saggio storico – «In questo libro non c’è un solo fatto volutamente fittizio» (ivi, p. 16) –, Il fiume senza sponde occupa senza dubbio un posto peculiare nell’opera di Saer. Anche perché, come potrà avvedersene un lettore già avvezzo al nostro, oltre a tracciare una mappa storico-culturale e letteraria del fiume, del suo esteso bacino e delle innumere acque che lo popolano (ríos, riachos, riachuelos, arroyos, cañadas e così a seguire), racchiude pure una densa serie di riferimenti utili a dare un ordine alla produzione narrativa dell’autore. Ed è di questo che si proverà brevemente a dar conto, restringendo il campo soltanto ai romanzi finora comparsi in traduzione qui in Italia.
Nato nel 1937 a Serodino, nella provincia interamente inscritta nella Cuenca del Plata di Santa Fe, e trasferitosi nel 1968 in Francia, dove insegnerà fino alla morte sopraggiunta nel 2005, a partire da En la zona (prima raccolta di racconti datata 1960) Saer ha infatti costruito, in maniera del tutto atipica, un coerente mondo letterario calato per intero nella pianura rioplatense, tracciandolo sopra vari segmenti storici cruciali nelle vicende argentine. Segmenti che libro dopo libro, in maniera disordinata, cioè non rispettando un ordine cronologico nella sequenza delle pubblicazioni, hanno dato vita a una linea lunga e articolata quanto quella della storia con cui abbiamo qui iniziato (in proposito si legga Florencia Abbate, El espesor del presente: tiempo e historia en las novelas de Juan José Saer, Editorial Universitaria Villa María, Córdoba, 2014).
Così come la storia documentata del Río de la Plata comincia con una nave spagnola che ne solca le acque venendo da Est, allo stesso modo avviene in Saer con El entenado (pubblicato nel 1983 e tradotto in Italia come L’arcano da Laura Pranzetti per Giunti, Firenze, 1993 e poi ristampato da La nuova frontiera, Roma, 2015). Qui un giovane mozzo del XVI secolo racconta, quale unico superstite, l’esito nefasto del primo viaggio spagnolo dentro e oltre la foce del Río de la Plata, quando la sua ciurma percepì «un odore di origine, di formazione umida e travagliata» spandersi in una «pianura di un verde terroso che si estendeva ininterrotta fino all’orizzonte, senza altro contrasto oltre al cielo» (ivi, pp. 22, 30), a preannunciare così il primo incontro con gli indios, veicolato da una e più frecce scoccate dall’ombra per trafiggere il capitano della nave e tutti gli uomini dell’equipaggio, che poco dopo offriranno, debitamente smembrati, materia per un asado orgiastico, cannibalesco eppure innocente.
Il medesimo Río de la Plata che nel tempo aveva ospitato questo e altri simili pasti, con il suo orizzonte circolare, le sue straordinarie distanze e il suo clima altrettanto straordinario e indocile, si fa poi scenario anche del romanzo del 1997 Las nubes (Le nuvole, trad. it. di Gina Maneri, La nuova frontiera, Roma, 2017), in cui Saer ci offre una rivisitazione rivierasca del tema della nave dei pazzi: il viaggio di una composita e splendidamente affrescata carovana di guide indigene, medici, infermieri, pazienti, soldati, commercianti e prostitute diretta a una casa di cura immersa nella selva, a ripercorrere il periodo di stentata e parcellizzata urbanizzazione, il primo tentativo di colmare e antropizzare quegli spazi immensi, in cui all’inizio del XIX secolo si andavano faticosamente formando i nuovi e prodromici aggregati umani lungo le sponde del fiume, dei fiumi, con case e ranchos modellati di «fango, paglia, letame, legno e cuoio» (Il fiume senza sponde, cit., p. 128) per sopperire all’assenza di pietra, e con caratteristici empori, anche mobili, che «dovevano soddisfare una domanda variegata, amplissima, se non addirittura divergente [… e] avere prodotti necessari alla vita in città e alla vita rurale» (ivi, p. 165).
Se con L’arcano e Le nuvole Saer narra due momenti distanti, tra loro e da noi, nella storia rioplatense, due passaggi per essa egualmente fondanti, con gli altri suoi romanzi a nostra disposizione in Italia ha invece portato su carta storie del secondo Novecento, seguendo in un esteso arco temporale lungo alcuni decenni le vicende di un gruppo di personaggi diversamente marginalizzati e ormai posti sul frastagliato contorno della “società civile”, perché segnati dall’esperienza del peronismo e delle dittature. Tale esperienza, tuttavia, resta in Saer sempre profondamente in ellissi, non entrando nella narrazione neppure in accenno. È il caso de La pesquisa (L’indagine, trad. it. di Paola Tomasinelli, Einaudi, Torino, 2006; poi trad. it. di Gina Maneri, La nuova frontiera, Roma, 2014), pubblicato originariamente nel 1994, ma soprattutto di Cicatrices (Cicatrici, trad. it. di Gina Maneri, La nuova frontiera, Roma, 2019) e Glosa (Glossa, trad. it. di Gina Maneri, La nuova frontiera, Roma, 2019), romanzi rispettivamente del 1969 e del 1986.
Nel primo dei tre titoli appena citati, L’indagine, Saer costruisce un poliziesco perfettamente inquadrato nella tradizione argentina, ambientandolo a Parigi ma facendolo riportare, tramite una gustosa sovrapposizione di piani narrativi, da uno dei suoi usuali personaggi di cui sopra abbiamo accennato, di ritorno nell’acquitrinosa provincia di Santa Fe dopo vari anni di residenza in Francia. In Cicatrici, poi, dove resiste una vaga eco poliziesca, quattro differenti storie di marginalità e disagio si costruiscono indipendentemente e vanno infine a convergere attorno a un singolo fatto di sangue, dipanandosi in una struttura narrativa che, sia concesso l’azzardo, ricorda il gioco di quattro affluenti che convogliano le proprie acque in quelle di un unico bacino. In Glossa, infine, una passeggiata lunga ventisette isolati (le cuadras) di Santa Fe vede due amici intenti a ricostruire e a raccontarsi a vicenda, tramite versioni e racconti ascoltati da terzi, riflessioni e congetture personali, una festa a cui nessuno dei due ha partecipato, simulando nella narrazione (almeno a nostro uso) il tragitto irregolare di canali che fuoriescono e rientrano, tra anse, isole mobili, secche improvvise e deviazioni, in un grande corso d’acqua principale.
Ed è proprio in questi romanzi, soprattutto in Glossa e Cicatrici, che è rintracciabile quello che abbiamo imparato a conoscere come il mondo tipicamente saeriano: la «zona Saer», per seguire la già citata Beatriz Sarlo (Zona Saer, Ediciones Universidad Diego Portales, Santiago de Chile, 2016). Una zona decisamente letteraria eppure calata nel reale, popolata da soggetti umani comuni e per nulla ammirevoli che, per varie ragioni, sembra si distanzino profondamente dai modelli generati da due dei grandi e dissimili padri della letteratura argentina della prima metà del Novecento. Essi s’allontanano infatti tanto dai personaggi di Borges, tipi memorabili ed esemplari, nel bene o nel male, quanto da quelli di Roberto Arlt, che, pur marginali anch’essi, raccontano tuttavia un decadimento prettamente urbano, in una ritrattistica spesso caricaturale e portata all’eccesso delle storture e delle ossessioni umane.
Se poi la costruzione di questa zona, di questo mondo in sé coerente e identificabile in cui ambientare le vicende narrate, ci porta, seppure con la dovuta cautela, ad associare Saer ai suoi colleghi Juan Carlos Onetti e Alberto Laiseca, entrambi “costruttori” di un peculiare e distinguibile mondo letterario, e se il profondo ricorso alla dimensione ellittica (generalmente favorita da contesti golpisti, dittatoriali o comunque politicamente “delicati”) ci porta ad accostarlo ad autori argentini suoi contemporanei quali per esempio Rodolfo Walsh e Ricardo Piglia, facendolo rientrare dunque in solchi collettivamente tracciati sul piano letterario rioplatense, è invece soprattutto nella prosa e nello stile che troviamo il vero elemento distintivo del nostro, la vera cifra che lo distanzia dalla gran parte dei suoi corregionali, rendendolo autore unico e indipendente, autonomo e, di fatto, svincolato da qualsiasi gruppo o scuola.
Saer, infatti, fluviale non solo per discendenza geografica e contesto narrato ma anche per ispirazione prosastica (come abbiamo sopra suggerito con i brevi e azzardati riferimenti a Cicatrici e Glossa), si caratterizza con inusuale vigore per un precipuo utilizzo della lingua e della sintassi, programmaticamente convergenti in uno stile in cui si riconosce l’eco dell’oralità e in cui prevale l’adozione di strategie narrative che prediligono la ridondanza, il ricorso descrittivo a varie versioni di un singolo fatto e versioni di versioni, la proliferazione dei punti di vista, la ripetizione. Tutto questo tramite un incedere in cui domina il susseguirsi dubitativo di ipotesi, supposizioni e congetture, riportate nel flusso continuo di un periodare complesso e marcatamente articolato, che tra i testi citati trova in Glossa la sua espressione forse più compiuta.
Elementi, tutti questi appena elencati, che in fin dei conti ci portano a riconoscere un’inclinazione, un’esigenza, che in Saer pare dominante. Parliamo dell’ossessione per i particolari, nel dispiegamento di un mondo letterario ipertroficamente dettagliato e spesso contraddittorio che sembra trarre la sua ragion d’essere dal tentativo di cogliere quanto non può essere colto, ossia la verità nella sua interezza; e qui si ripresenta l’ellissi intesa non solo come strategia narrativa, ma anche come vero e proprio monito procedurale nell’approccio dell’uomo alla conoscenza del mondo.
Ed è così che torniamo al principio del nostro ragionamento, per chiudere tautologicamente con queste note. Perché se soltanto l’atto di nominare il Río del al Plata e l’Argentina rinnova ogni volta il «flagrante abuso verbale» cui abbiamo fatto riferimento sopra, e se la pratica e l’uso hanno ormai fatto carne le chimere ed eternato l’immaginazione facendole acquisire «la massiccia perennità delle piramidi o delle cattedrali», alla letteratura spetta il compito di decostruire questa menzogna, tracciandone la genesi o rimpiazzandola con altre più verosimili e dettagliate. E quale veicolo migliore per supportare una simile impresa se non quel fiume immenso e dissimile, generativo e staminale, che odora «di origine, di formazione umida e travagliata»?