Alessandro D'Alatri, “The startup” / Meritocrazia come eugenetica

12 Maggio 2017

Nel film di David Fincher The Social Network (2010), Zuckerberg viene raffigurato nel finale come un uomo solo in cima a un lussuoso cumulo di rovine affettive, come il protagonista di Quarto potere (Orson Welles, 1941) intento a rimpiangere, in punto di morte, la sua “Rosabella”. In The Startup di Alessandro D’Alatri, che racconta la storia (vera) dello “Zuckerberg italiano” Matteo Achilli, il finale è invece riconciliatorio, secondo il canone nazionale. Achilli (interpretato nel film da Andrea Arcangeli), romano del Corviale e maturando al liceo scientifico, aspira a vincere i campionati italiani di nuoto, ma al suo posto viene selezionato il figlio dello sponsor della squadra, proprio nei giorni in cui il padre cinquantenne viene licenziato per una ristrutturazione del personale.

 

Il “vero” Matteo Achilli (a sinistra) con l'attore Andrea Arcangeli.

 

Sembrano gli ingredienti per una presa di coscienza dei meccanismi sociali ed economici di produzione della disuguaglianza. Invece per Matteo è l’occasione per maturare un aspro ressentiment individualistico: asseconda i genitori sulla scelta della Bocconi e congegna un rivoluzionario social network come antidoto meritocratico all’ingiustizia. Chiunque si colleghi al sito Egomnia, esibendo i propri titoli, ottiene una valutazione “oggettiva” del proprio valore, grazie a un apposito algoritmo. In tal modo le aziende potranno assumere i soggetti realmente più dotati. La giustizia, insomma, viene incarnata in una selezione dei soggetti effettuata con parametri calcolati in base a un algoritmo, al riparo da raccomandazioni e favoritismi: la competizione è vinta da un vincitore legittimato dalla Verità scientifica. Ovvio quindi che la natura “teologica” e soggettiva del “merito” – già sottolineata da Michael Young nel distopico The Rise of meritocracy (1958) – venga del tutto ignorata nel corso della narrazione. “Qui non siamo nella Silicon Valley, in Italia l’impresa più fiorente è quella della politica”, dice a Matteo un amico bocconiano di una famiglia di finanzieri legata al governo. Ma Matteo rifiuta di rilanciare Egomnia, afflitta da una prima crisi di crescita, entrando nel partito del Ministro. Come a dire che il problema non è la Silicon Valley: un sistema che, grazie alla rete e alla borsa, promette grande mobilità sociale per poche eccellenze e disoccupazione e sfruttamento per i molti normodotati, vendendo una schiavile precarietà per creativa flessibilità. Cioè il problema – per The Startup – è l’anomalia italiana, in cui la politica impedisce di fare bene impresa.

 

Si tratta dello stesso sottotesto di Smetto quando voglio di Sydney Sibilia (ITA, 2014), in cui la protesta verso un mondo del lavoro universitario caratterizzato da precarietà e sfruttamento si rivolge moralisticamente al tema del baronato, nella convinzione che una gestione onesta dell’Accademia porterebbe giustizia, sostituendo i meritevoli ai raccomandati. Ma poi l’Italia resterebbe comunque in fondo alle classifiche per l’investimento nella ricerca e nel mondo continuerebbero a essere sforbiciate le discipline umanistiche ed estratta gratuitamente o quasi una gran massa di lavoro intellettuale. Si tratta peraltro di un capitolo della più generale storia con cui, da Tangentopoli in poi, si è ritenuto che il problema sociale del paese fosse la “corruzione” e la medicina la “legalità”, senza più disturbare i meccanismi materiali che una certa legalità produce (e, connaturata ad essi, la corruzione).

 

 

Tornando a The Startup, non mancano stoccate al marketing, accenni nostalgici al capitalismo produttivo, ma il risultato qual è? Il film glorifica la Bocconi (e l’abolizione del valore legale del titolo di studio, cara al Movimento 5 Stelle), vista come un vero e proprio tempio del sapere economico e dell’eccellenza accademica e un’idea di azienda digitale che si muove nello stesso quadro dominato dal marketing e dalla finanza.

 

Eppure non mancavano spunti in direzione del pensiero critico. Emma, l’amata fidanzata di Matteo, lo cura dall’iniziale ubriacatura del primo successo; ne denuncia, cioè, gli atteggiamenti da oligarca neo-ricco e spiega perché lei non aspiri a diventare prima ballerina nonostante il suo intenso impegno per la danza: “il senso della fatica è ciò che la fatica fa di me”. L’ingegnere che mette a punto il software è un precario sfruttato e sottopagato, che Matteo a sua volta accenna a sfruttare e ributtare in strada ma che poi riprende con sé, seguendo il consiglio di rilanciare il social network migliorando la sua fattura anziché cercando appoggi politici o economici esterni. Gli amici bocconiani di Matteo, in relax sui laghi lombardi, fantasticano sull’ipotesi di essere gli ultimi sopravvissuti della terra, trasponendo la logica di Egomnia nella selezione naturale necessaria per il miglior ripopolamento della terra (meritocrazia come eugenetica). Ma nessuno di questi spunti mette in crisi l’individualismo meritocratico del giovane imprenditore, che non si trova affatto male in compagnia dei nuovi, vuoti amici (peraltro una specie simile al figlio dello sponsor che gli aveva avvelenato la vita). La psicometria, del resto, discende da quella scienza positivistica che, misurando i crani, legittimava nell’Ottocento l’idea della superiorità della razza bianca. E alla fine Matteo riconquista la sua fidanzata, salva l’amicizia con l’ingegnere precario e rilancia l’impresa senza aiuti politici e finanziari, godendosi con la coscienza a posto l’ex Milano da bere. Insomma un ben lieto fine.

 

 

Renzi, Salvini, Berlusconi, Grillo, Macron, Le Pen, Trump, Hillary Clinton, Obama: probabilmente tutti questi tiferebbero per Matteo, guardando il film. Tutti, cioè, tiferebbero per un’idea di giustizia definita dall’ordoliberalismo tedesco, che fin dal Trattato di Roma del 1957 fonda l’Unione Europea (come hanno sottolineato nel 2013 Pierre Dardot e Christian Laval in La nuova ragione del mondo). Giusta è una società che garantisca una giusta concorrenza: che i forti vincano e i deboli perdano, senza irruzioni abusive (comprese quelle dello Stato a fini redistributivi), con la Sacra Unzione dell’Algoritmo. Il problema non è cambiare la struttura della società che dà tutto il potere agli sponsor, ma far sedere Matteo, giovane superdotato, sul trono prima riservato ad altri privilegiati.

 

The Startup non sfonda, insomma, l’orizzonte della soggettivazione neo-liberale. Il testo è solo apparentemente antagonistico e in qualche misura può aiutare a spiegare come negli ultimi anni la protesta verso il sistema si sia coagulata verso incarnazioni estreme del sistema stesso. Chi più patisce il disagio sociale sceglie per il proprio riscatto paladini responsabili della loro stessa subalternità: questo perché i soggetti, quando protestano, non fuoriescono dai limiti dell’immaginario consumistico e meritocratico a cui quarant’anni di egemonia neo-liberista li ha educati. Ecco perché lo sfruttamento finisce per generare una reazione che proietta l’atomismo individualistico nell’egoismo nazionale, producendo il fascismo lepenista e salviniano e il cripto-fascismo che governa in Polonia e Ungheria.

 

Ha fatto scuola, in Italia, il berlusconismo, che ha capitalizzato le critiche contro i partiti ormai privi di scudo geo-politico e avviati verso la gestione austeritaria del passaggio in Europa (la cui triste eredità avrebbe raccolto il centro-sinistra). L’illusione era che la società civile, intesa come privato economico, rompesse il fronte delle rendite politiche, sindacali, industriali, finanziarie: un turbocapitalismo sano che poi spargesse i suoi effetti benefici su tutta la base sociale. Peccato che invece la disuguaglianza (con la meritocrazia come teodicea) si sia riaperta a forbice in Italia come nel resto dell’Occidente, entrato ormai in una fase che sempre più osservatori definiscono “post-democratica”. La storia italiana si è del resto ripetuta con tratti molto simili negli Stati Uniti di oggi, in cui la denuncia dei danni sociali provocati da Wall Street e da una politica ad essa subalterna, si è canalizzata addirittura in Donald Trump, che nel verticalismo faraonico del suo grattacielo newyorkese sembra incarnare fisicamente il ritorno ad antiche immobilità sociali. La protesta contro la finanza e le multinazionali, insomma, esprimendosi con il linguaggio parlato dalla fantasmagoria delle merci a cui quei poteri hanno improntato sempre più la pedagogia sociale dominante, sfocia nello storytelling populistico, mercatistico o nazionalistico (o in entrambi assieme). 

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