Conversazione con Federica Sasso / Anoressia, fotografia e cura
Quest’anno a Lodi, dal 7 al 29 ottobre, si è tenuto, come di consueto, il Festival della Fotografia Etica. È un appuntamento unico nel panorama italiano e l’obbiettivo è raggiungere la coscienza della gente raccontando il presente. Un presente che Calasso chiamerebbe “l’innominabile attuale”. Un tempo caratterizzato dalle scissioni, geopolitiche e spirituali; caratterizzato dalla transitorietà delle cose. Ecco che, all’interno di questo paradigma, la fotografia, forse, più di altre arti-tecniche, riesce a cogliere l’intima essenza di alcuni eventi del mondo. Da una parte le guerre che dilaniano la quotidianità, la morte, il massacro, la tensione di carne e ferro; dall’altra, invece, per alcuni fotografi, c’è il desiderio e il tentativo, decisamente non scontato, di raccontare le piccole realtà, gli uomini e le donne che se ne stanno fuori dal cono d’ombra mediatico. Persone che, infine, si portano sulle spalle problematiche, esigenze e desideri che, probabilmente, sono anche simili a quelle di tutti noi. Federica Sasso, fotografa di Fabrica, quest’anno era la special guest del Festival. Reduce dalla vittoria del “Premio Voglino” per Sick Sad Blue, le ho fatto qualche domanda a proposito del suo lavoro: un racconto visuale di Chiara e della sua malattia, l’anoressia e la fotografia come possibilità di guarigione.
Com’è iniziato il tuo lavoro/passione di fotografa.
Ho iniziato fotografando mia sorella, poi mi sono iscritta all’Istituto Italiano di Fotografia e da lì ho vinto un anno di scholarship a Fabrica in cui ho lavorato sia a Sick Sad Blue che ad un progetto sulla post-adolescenza.
Perché Chiara? Come mai Sick Sad Blue come titolo?
Fin dall’inizio ho sentito un canale aperto con Chiara, un canale profondo che è anche la sua sofferenza. Ho sentito che fosse bella, inteso non solo fisicamente. Ciò che mi ha attratto è la sua incredibile sensibilità. L’anoressia stessa è risultato, in parte, di questa iper-sensibilità. La fragilità e la dolcezza. È la descrizione del profilo Instagram di Chiara (@clairenough).
Come/quando ti sei avvicinata all’idea del progetto? Eri a conoscenza di lavori di altri fotografi in merito agli stessi temi?
Devo essere sincera, ahimè, non ero a conoscenza di altri progetti quando ho iniziato Sick Sad Blue, che mi sento di considerare il mio primo avvicinamento alla fotografia documentaria. Stavo editando un altro lavoro sui post-adolescenti la settimana prima. Ci sono finita dentro senza volerlo, sono andata a trovare Chiara in psichiatria per vedere come stava, non avrei mai pensato che sarebbe diventato un progetto. Dallo psichiatra al Centro di Disturbi alimentari sono passati solo 3 giorni, ho fatto semplicemente quello che sentivo. Dopo aver scattato ho guardato altri progetti, e posso dirti con sicurezza che ho davvero amato il lavoro di Laia Abril. L’intenzione non è stata quella di farne un progetto ma di seguire Chiara in un percorso, di starle accanto insomma.
Com’è stato rapportarsi con Chiara, come donna e essere umano, sapendo che il rapporto trascendeva la semplice reciprocità intersoggettiva? Voglio dire, al di là del rapporto umano avevi un lavoro da costruire, una narrazione, un’immagine del mondo particolare tutta incentrata su quella che, credo, alla lunga, sia diventata molto più che una semplice conoscente.
Complesso, ovviamente. Non è semplice trovarsi di fronte a quel genere di corpo femminile. In più, ho sempre temuto di essere vista e percepita come mezzo di conferma della sua immagine ideale, per via delle mie fotografie di moda. Ma non potevo andarmene, lasciarla sola. E la fotografia è stato un mezzo per intessere una forma di comunicazione alternativa. Interagire e sentire.
Sick Sad Blue è un progetto ambizioso, meraviglioso e, a mio modo di vedere, ben riuscito. Il libro è sold out, il progetto estetico ha un inizio e una fine coerente. Ne sono rimasto estasiato e va bene così, per una parte di me. C’è però un altro me che vorrebbe vedere questo lavoro prendere nuove forme e dimensioni, forse è solo ubris e finirò per pagarne le conseguenze, ma la domanda devo farla: hai intenzione di ampliarlo/tornare a lavorarci in seguito?
Sick Sad Blue come dicevo non è solo un progetto fotografico, si tratta di un percorso umano che lega me e Chiara, che ci ha fatte crescere entrambe. E come percorso non ha fine.
Qual è stata la parte più difficile della costruzione progettuale del lavoro? Qual è stata invece la parte più ardua, emotivamente parlando, da sostenere? Come sentivi lo sguardo di Chiara su di te, come reagiva alla macchina, come ti sentivi durante e dopo?
È stato difficile sostenere emotivamente la situazione, ma soprattutto cercare di non diventare, attraverso le fotografie, una celebrazione della bellezza che lei credeva di possedere in quel momento. È stato faticoso confrontarsi con ciò che lei avrebbe potuto pensare. Di me, delle fotografie, di tutto.
Lo sguardo di Chiara molte volte era assente. Come racconta l’immagine di lei stesa sul divano, era la malattia a guardarmi. Non so spiegarti come io sentissi lo sguardo di Chiara, eravamo complici, lo siamo sempre state. C’era una parte di lei che si fidava totalmente di me. Ho scattato poco, davvero poco e in quei momenti eravamo totalmente sincronizzate, come se quel rapporto, quel diventare, potesse aiutare altre vite. Non è stato semplice per me e credo nemmeno per lei.
In tutto questo Chiara come si è posta nei tuoi confronti (come persona) e nei confronti del tuo ruolo di fotografa?
Aperta, e libera di essere sé stessa, nel bene e nel male.
Per quanto mi riguarda è molto interessante, per non dire decisivo, il ruolo che svolgono le altre immagini (oltre alle fotografie): screenshot etc. Com’è nata l’idea di lavorare su più piani estetici e prospettici differenti?
È nato tutto così. Per poter capire pensieri e sensazioni che accompagnavano Chiara in quel periodo non potevo basarmi soltanto sul mio punto di vista, parziale. Dovevo cercare di comprendere il suo. Ogni immagine da lei pubblicata era un grido. Una richiesta di aiuto. Mi sono interrogata sulla reazione delle persone a queste immagini, ai post su Instagram e Facebook. Non riuscivo a capire se i like messi fossero dovuti ad una incomprensione dovuta alla sovrabbondanza di immagini o a sentimenti comuni.
In questo gioco di specchi – un luogo narrativo/fotografico in cui la realtà viene frammentata e scomposta per essere poi ri-compresa all’interno di un quadro più ampio e florido –, un gioco di specchi in cui Chiara si manifesta come una sorta di Giano bifronte, sembra esserci un tentativo di passare attraverso di lei per mostrare, de facto, un senso dell’Umano che trascende la singolarità di Chiara come oggetto e la tua prospettiva di soggetto indagatore, come fotografa che si rapporta al mondo. È come se si spezzasse il binomio ontologico “Io” (il trascendentale ineludibile nello scatto) e “Mondo” (il contingente da redimere attraverso la testimonianza), fotografo e oggetto fotografato, così che possa prendere forma qualcosa di totalmente differente. Cosa ne pensi?
Posso parlare del mio modo di rapportarmi al soggetto e al mondo. È il mio modo di vedere. Spontaneo e sincero. Cerco di trasmettere quello che sento, sempre. Quello che ho percepito in quel momento. Senza maschere.
In alcune tue fotografie Chiara sembra assottigliarsi, trasfigurarsi in una linea di un piano geometrico e, nonostante ciò, c’è una titanica potenza espressiva della sua persona. Mi chiedo allora: è Chiara che si nasconde, inconsciamente, davanti a ciò che è “altro da sé”, mostrando così le vesti che indossiamo tutti, chi più chi meno, di fronte al Mondo, oppure è una tua, forse inconsapevole, operazione ritrattistica? Voglio dire, per quanto Chiara, nella sua danza di carne, si porti sulle spalle una croce non indifferente, tutto questo sembra finire sullo sfondo. Come se, in fin dei conti, non fosse importante. Forse, anche giustamente. Come se, in ultima analisi, ciò che risalta, in realtà, è una prorompente dignità.
Giusto, in linea di massima. Ma dipende molto dalle fotografie. Credo si rifletta proprio in alcuni casi la fragilità di Chiara come persona, in altri la forza e la grandezza della sua malattia. È come se fosse nata l’inconsapevole rappresentazione del dolore che stava dentro Chiara. E sono contenta ed orgogliosa che, in parte, grazie al nostro rapporto, sia in atto un processo di guarigione.
Il tuo tentativo era quello di cogliere, attraverso l’immagine, la malattia in sé, la malattia e di come si manifesta in Chiara oppure Chiara tout court, come essa si manifestava ai tuoi occhi di fotografa?
All’inizio il mio tentativo è stato sicuramente raccontare Chiara, la persona nella sua interezza. Ma la malattia in molti casi si è posta davanti, è come se in lei convivessero due entità vere e proprie. Riflettendo, durante tutto il progetto poche volte ho parlato con Chiara, tanto con la malattia. C’è una sua frase che mi è rimasta particolarmente impressa, mentre era ricoverata in psichiatria: “so di avere occhi malati”. In quel momento è stata Chiara a parlarmi.
All’interno della narrazione è presente anche dell’oggettistica. Sono oggetti a cui Chiara è legata per via della malattia? Se no, a cosa si collegano?
In realtà non ci sono molti oggetti, sono più legami che mi rimandano a Chiara. Il telefono di alcune foto è sicuramente il suo legame più assiduo. Il fiore sul tavolo è un regalo di un’amica, per me una similitudine. In quel periodo, Chiara non era legata a molto se non alla sua immagine.
C’è una foto, la numero 11, che mi ha particolarmente colpito. Mi ha fatto tornare alla mente un certo tipo di ramo della Filosofia Etica che, occupandosi di quelle che vengono definite “malattie del desiderio”, individua come uno dei fondamenti dell’anoressia la ricerca del “sé”. In questo senso si fa spesso riferimento alla figura dell’albero in autunno che, avendo perso le foglie, appesantito dalla gravità del freddo, si ritorce su sé stesso. In questa foto c’è Chiara che si chiude a riccio e che però lascia scorgere qualcosa: il suo tatuaggio, nero, delle rondini. Questo mi rimanda automaticamente alle farfalle, bianche, sulla parete. Anche da un punto di vista antropologico siamo un desiderio infinito che può saturarsi soltanto attraverso l’incontro con altre soggettività, anch’esse infinite; se questa saturazione del desiderio manca perché le relazioni che intrecciamo con gli altri sono in-autentiche, allora, giocoforza, ci ammaliamo. Da una parte le farfalle che cercano quell’infinito e possono ancora essere appagate. Dall’altra quelle rondini, corrose dalla bassura della gente, che avvolgono il corpo di Chiara.
Hai ragione, bellissimo pensiero. Credo che le farfalle, insieme alle rondini, possano far parte di una ricerca di voler volare verso un mondo altro, nuovo, diverso. La ricerca di relazioni autentiche che soddisfino questo desiderio infinito. Ma questo percorso – mi riferisco a quello di rondini e farfalle – finisce senza riuscita. Bisogna ricordare infatti che le farfalle sono di plastica, le rondini un tatuaggio ed è incredibile come questi animali leggeri appaiano pensanti.
Fabiola de Clerq una volta ha scritto: “l’anoressia è paradossale fin dal nome. Vorrebbe dire assenza di appetito, di fame, di desiderio. Non conosco invece persone più affamate, bisognose e avide delle persone anoressiche, e più terrorizzate dalla loro avidità. È proprio perché hanno un disperato desiderio di tutto che rinunciano a tutto. È perché non possono avere tutto, che scelgono di non avere niente. È perché sono divorate da un’assoluta fame d’amore che non accettano il cibo come surrogato materiale dell’amore”. Partiamo dalle parole della De Clerq, come inserisci questa considerazione all’interno del tuo tentativo di raccontare Chiara attraverso le immagini?
È perché non possono avere tutto, che scelgono di non avere niente. È perché sono divorate da un’assoluta fame d’amore che non accettano il cibo come surrogato materiale dell’amore. È così. Tutti i selfie di Chiara, tutte le frasi scritte su Facebook erano un chiaro urlo di attenzione. Non c’è fame di cibo, ma di affetto, di relazioni, e questa mancanza è in primo luogo con loro stessi.