Vedovamazzei / “Unexpected landscapes". Decontestualizzare e disorientare
La storica Galleria de’ Foscherari apre la mostra di Vedovamazzei con un bancale in vetrina, un pallet diviso nella versione funzionale, di legno, e nel suo doppio, fuso in bronzo (Two Half Pallets, 2011). Si tratta di un’opera che dà ai visitatori una prima indicazione sulla mostra, intitolata Unexpected Landscapes, dove il mondo e le cose che lo abitano appaiono rovesciate, messe a soqquadro e riorganizzate con intento sovversivo, problematizzando il reale.
La mostra raccoglie opere eterogenee selezionate in un arco di tempo che va dal 2015 al 2018, un lasso temporale relativamente breve ma che dà un’idea efficace della poetica dei due artisti. Simeone Crispino e Stella Scala formano un sodalizio dal 1991, con una produzione che si potrebbe definire ipertrofica, se non si rischiasse così di attribuirgli un’accezione negativa. Affacciarsi all’universo di Vedovamazzei significa abdicare ai pregiudizi e abbandonarsi a un viaggio sorprendente che ha spesso il ritmo di un film slapstick, con gag e trovate che ricordano il migliore cinema comico delle origini. Dietro il guizzo, il gesto irriverente di matrice postmoderna, si delinea però il desiderio di mettere in luce le contraddizioni di una realtà spesso impietosa, feroce o semplicemente contraddittoria. La pratica di Vedovamazzei, nella sua evidente complessità, sfugge a un atteggiamento moralistico e anche la componente di ironia che la percorre non mira mai a ristabilire la presunta equità di un mondo ideale attraverso la messa alla berlina dell’elemento maligno, il fattore di danno.
In questo senso l’opera, che campeggia sulla parete principale della galleria e che apre la mostra, intitolata Floating human shit (2017), è esemplare: un grande testo incornicia delle piccole tele a olio che rappresentano delle feci umane galleggianti nel mare. Non c’è ambiguità nel soggetto, la pittura è limpidamente figurativa e a tratti naif, nella sua semplicità e leggerezza di esecuzione. Lo scarto avviene attraverso la scelta di un medium nobile, come la pittura a olio e l’apparente levità della figurazione. Potrebbe trattarsi di semplici vedute marine dipinte da un amatore, quel particolare tipo di pittura fatta principalmente per appagare il piacere di chi la esegue, ma la scelta del soggetto scatologico, che di primo acchito può apparire come una classica provocazione épater le bourgeois, racconta invece una storia bene diversa. Nel Mediterraneo, infatti, sono rintracciabili quantità significative di feci umane, un fenomeno legato ai disperati viaggi dei migranti. Le deiezioni appartengono alle vittime dei naufragi, e sono la conseguenza del terrore e dello shock della morte. Una testimonianza terribile di ciò che è l’infinita tragedia dei cosiddetti “viaggi della speranza”, e che evoca con brutale evidenza lo stato di scarto, di rifiuto sgradito che gli stessi migranti rappresentano agli occhi di chi li riduce in schiavitù e di chi, negandone la dignità umanità, li riduce a uno stato primario di cosa, un fastidioso problema di ordine pubblico. Lo scandalo dell’opera non è quindi nella scelta delle feci come soggetto di un’opera – soggetto che peraltro ha ormai una consolidata tradizione nelle provocazioni novecentesche – ma nello sguardo dell’artista che non si distoglie, anzi racconta attraverso una pittura borghese l’indescrivibile.
Si lega idealmente alla prima opera UN united nothing (2015-2016), installata insieme ad Apliance#3 (2000/2017), la celebre sedia con lampadina. La scritta nera, riprodotta sulla parete piastrellata, è una sorta di prelievo risalente alla guerra nei Balcani, come un proiettile che si trasforma in souvenir e viaggia nel tempo. In origine si trattava di una scritta fatta poco prima di morire da un giovane militare olandese della Nato, in un bagno pubblico di Sarajevo. Il meccanismo ludolinguistico, utilizzato anche in Go-Do (2017), e l’installazione al neon confondono lo spettatore, evocando, da un lato, la memoria del fallimento delle Nazioni Unite coinvolte nel teatro tragico della guerra in Bosnia, e, dall’altro, alleggerendo l’impatto critico del messaggio attraverso la deliberata costruzione di una scenografia. Si tratta, infatti, di una parete fittizia, non di un reperto di archeologia di guerra, e la fiction intrinseca all’oggetto lo rende ambiguo, lo sottrae alla dimensione imperativa della denuncia, dal vestire i panni stretti dell’arte sociale. In una certa misura, UN united nothing rappresenta bene l’approccio di Vedovamazzei: Scala e Crispino hanno sempre dichiarato di non voler realizzare opere politiche, ma i cui lavori presentano un evidente, indiscutibile carattere politico. Una dicotomia che è solo in apparenza una contraddizione, ma che si chiarisce se si coglie la prospettiva di sottrazione che i due artisti rivendicano rispetto a ogni tipo di categorizzazione limitante. Vedovamazzei sfugge a ogni tipo di gabbia concettuale e da questa libertà nascono opere che hanno sovente una dimensione politica, che germina però spontaneamente all’interno della ricerca e si dispiega senza precludersi alcun tipo di risultato. Per questo nessun lavoro può essere letto come un’opera-a-tesi, un manifesto o proclama: se la politica c’è, è più consequenziale che intenzionale.
L’ironia, che in questo senso agisce sia da antidoto a quella programmaticità di cui sopra, sia come meccanismo che attua la dinamica interna dell’opera, discende in parte dai cartoon classici e dal cinema comico – pensiamo ad esempio a Buster Keaton, che ispira anche l’opera After Love (2017), in cui i due artisti ricostruiscono la casa storta al centro delle esilaranti e sfortunate vicende del lungometraggio One Week (1920) – in parte dalla storia dell’arte contemporanea, a partire dalla matrice duchampiana, per risalire fino alle incursioni spiazzanti di Maurizio Cattelan. Ecco allora After Mick Jagger (2018), piccola scultura in cera di una lingua rosea, che si riferisce come una divertente sineddoche al leader dei Rolling Stones, ma anche al Goya del celeberrimo Perro semihundido (1820-23). Anche qui, accanto alla dimensione più apertamente comica e citazionista, si inserisce un elemento di disturbo, dato dal materiale; la cera, utilizzata in scultura, evoca sempre un immaginario funereo, sia per le caratteristiche proprie di organicità che rendono il materiale poroso, caduco, soggetto a documentare il trascorrere del tempo, sia per la sua storia, essendo legato in maniera ineludibile alla ceroplastica anatomica e alle antiche maschere dei defunti.
Un’ironia priva di cinismo percorre anche Bin Laden Latest House (2016/2017), per l’occasione installata insieme a A Natural History About Us (2016), dove la casa del cattivo per eccellenza, Osama Bin Laden, viene decontestualizzata e inserita in un paesaggio in technicolor, in calce al quale è visibile la riproduzione di una celebre pubblicità delle sigarette, datata anni ‘70, con un ammiccante Burt Reynolds seminudo. Un vero e proprio “unexpected landscape”, o, se vogliamo, una specie di Colorama, dove il tema della vita e della morte – costantemente presente nel lavoro del duo – emerge in maniera evidente nel contrasto tra la vivacità pittorica del paesaggio idilliaco e la presenza dell’edificio che ha ospitato la figura simbolo di Al Qaeda, casa leggendaria che ha tenuto in scacco i servizi segreti di tutto il mondo e ha alimentato infinite teorie complottistiche. La contaminazione tra fatti reali e immaginari dà vita a dei paesaggi impossibili e rivela l’interesse degli artisti per temi quali la casa intesa come oggetto, il gioco, il fraintendimento, la morte. Nello specifico, l’abitazione diviene qui anche la rappresentazione del potere pervasivo dei media che creano mitologie contemporanee, tanto che il bunker del capo di Al Qaeda diviene meta turistica dopo la morte del terrorista, trasformando il sito in un prodotto culturale equiparabile a qualunque altro.
Nel caso degli “unexpected landscapes” di cui Bin Laden Latest House fa parte, gli artisti mettono in scena non la propria visione soggettiva ma quella della collettività, una percezione sociale che ha trasformato quel bunker e le case di altre figure controverse della cronaca in luoghi comuni e in una certa misura, familiari. Un’operazione che sottrae l’oggetto a una disamina critica, lo svuota di significato lo trasforma in altro, in un’entità che appartiene alla società, all’apparenza innocua. Una specie di meme, si potrebbe azzardare.
Se Crispino e Scala si fanno trasparenti come individui – non a caso si fondono in un’unica entità artistica – è anche per lasciare voce alle opere, rinunciando alla soggettività per dare spazio alle infinite possibilità dell’accadere al di fuori della volontà di determinazione del sé. Vedovamazzei non fa narrazione, né sceglie un punto di vista univoco: i frammenti del quotidiano vengono ricomposti seguendo ipotesi alternative, in un gioco continuo di visioni. Opera proteiforme, il loro lavoro non può scendere a patti con una forma unica, un segno identificativo; la sottrazione della soggettività dei due artisti, che scelgono di agire con una identità terza, riflette un bisogno di resistere al tentativo di organizzare in una ipotesi conclusiva le possibilità dell’esistente. Ne discende che la tecnica non è più lo strumento di riconoscimento, né lo stile, ma entrambi sono funzionali al progetto che viene messo in campo.
La stessa pratica artistica si spalanca e ingloba la pittura della tradizione e le avanguardie, il kitsch e il concettuale, la tv e il design, il cinema e la scultura, la pubblicità e le news, la storia dell’arte e la burla, il tutto incanalato in un flusso di immagini poderoso, che investe lo spettatore e lo lascia talvolta tramortito. Non si tratta però di un lavoro asfittico di assemblaggio del contemporaneo, o un compendio di idee feticizzate e ricomposte con la grossolana sutura di un Frankenstein; si percepisce piuttosto una dialettica continua tra il caos e l’elaborazione, tra un principio organizzato e l’image trouvée, che scaturisce da uno sguardo saldamente ancorato alla realtà, alla cultura e alla storia. Uno sguardo che, come nel cinema e i cartoon, in ultima istanza rivendica la nota poetica, il dettaglio d’incanto, e confessa un amore per la bellezza che è l’altra faccia di quel discorso sulla morte e sui grumi dell’esistenza – sorto da un’atavica radice mediterranea e partenopea – che segna una pratica artistica imprevedibile come quella di Vedovamazzei.