A futura memoria / Sciascia politico. Fra le palme dell’antimafia

9 Maggio 2017

S’è discusso molto, negli scorsi mesi, delle palme a piazza Duomo di Milano. Botanici e climatologi, esperti di marketing territoriale e testeduovo di marche planetarie, amministratori locali e politici nazionali, paesaggisti e giardinieri, fancazzisti su Facebook e cittadini comuni: tutti a dire la loro, ché sembrava quasi di stare al bar dello sport durante un mundial prima dei fatidici rigori della semifinale. In pochi hanno però notato che, per ironia della storia, con quel curioso impiantamento nelle brume meneghine s’è avverata, alla lettera, la nota profezia di Leonardo Sciascia. La palma va a Nord, recitava il titolo d’un suo prezioso libro di trent’anni e passa fa – chissà perché mai più ristampato. E adesso sappiamo che c’è proprio arrivata, da quelle parti, sistemandosi benissimo, comodamente e orgogliosamente, a dispetto dei soliti detrattori sbraitanti in nome di un etnocentrismo deteriore che, per ulteriore ironia, oggi emana da tutti i pori tristi vampate di esoticità. Il monito di Sciascia, in quell’immagine delle palme viaggiatrici, era chiaro: non solo la più infida meridionalità, quella del malaffare sedicente politico e della criminalità organizzata, si espande verso il settentrione del Paese, ma lo fa con grande scaltrezza e celerità, ribaltando di fatto gli ideali di quel Risorgimento ottocentesco che avrebbero voluto unire il Paese in nome del migliore illuminismo padano. 

 

 

È, come al solito, il pensiero strategico dei brand ad aver capito la sottile comicità della faccenda, affondando, come si dice, il dito nella piaga. Starbucks, tanto vale fare nomi, è una marca che ha fatto la sua enorme fortuna esportando nel mondo il modello conviviale dei caffè italiani: ci si accomoda, si sorseggia una tazza fumante e odorosa, ci si rilassa, si legge, si chiacchiera, magari si discute. Insomma: il modello gastronomico-filosofico-politico che, fra l’altro, ha dato il nome a quel Caffè dei Beccaria e dei Verri che Sciascia, e Manzoni prima di lui, tanto adoravano. Habermas ci ha ben spiegato che l’Opinione Pubblica è nata là. E adesso che il mondo l’ha conquistato per intero, Starbucks ha deciso di fare il doppio salto mortale e aprire i suoi locali proprio dove era partito, ossia appunto da noi, e nella piazza più ricca e nota d’Italia. Quel caffè sotto la Madonnina è insomma uno schiaffo morale e civile, economico e sociale. Ce lo siamo meritati: sapremo porgere l’altra guancia? 

 

 

 

 

L’immagine sciasciana della linea della palma che sale impietosamente verso Nord acquista così, passando per la via larga della società dei consumi, una sua ulteriore verità, senza peraltro perdere quella che già aveva. Anzi rafforzandola: dovremo farcene una ragione. E in attesa di rileggere – si spera – il libro da cui tutto ciò che ha preso forma e sostanza, e soprattutto di darlo in lettura a chi da trent’anni viene praticamente secretato, possiamo provare a consolarci un po’ grazie alla ripubblicazione del suo più giovane compare d’anello, A futura memoria (se la memoria ha un futuro), mandato in libreria da Adelphi per l’amorosa cura di Paolo Squillacioti (pp. 205, € 24). I due libri infatti, come si ricorda nella postfazione, si susseguono e in parte si sovrappongono cronologicamente: la Palma raccoglie testi, articoli e interviste di Sciascia fra il 1977 e il 1980; la Futura Memoria mette insieme quelli dal 1979 al 1988.

 

È lo Sciascia più schiettamente politico, quello che usa intelligenza letteraria e sensibilità poetica per leggere, e provare a interpretare, gli eventi d’attualità, che in quegli anni erano d’estrema importanza e gravità: il dramma del compromesso storico, l’emergere del terrorismo, l’ambiguità dei servizi segreti, la lotta alla mafia, le prime diatribe sull’antimafia. Il tutto condito da quella che lui stesso soleva chiamare, e in buona compagnia (si legga Settanta di Marco Belpoliti, Einaudi), “retorica nazionale”. 

Sta qui, se la memoria ha un presente, il famigerato articolo del 10 gennaio 1987 sul Corriere della sera dove, recensendo un libro di Christopher Duggan, con prefazione di Denis Mack Smith, sulla mafia durante il fascismo, viene fuori l’idea epocale dei cosiddetti professionisti dell’antimafia. Ricordiamo l’analogia che la genera: così come nel corso del Ventennio “l’antimafia è stata allora strumento di una fazione, internamente al fascismo, per il raggiungimento di un potere incontrastato e incontrastabile” (pagina 124), allo stesso modo oggi si usa l’“antimafia come strumento di potere” (stessa pagina).

 

E si fa l’esempio di “un sindaco che per sentimento o per calcolo cominci a esibirsi […] come antimafioso” (pagina 125) e di un magistrato – che poi era il giovane Paolo Borsellino – che “per specifica e particolarissima competenza professionale nel settore della delinquenza organizzata in generale e di quella di stampo mafioso in particolare” viene nominato procuratore della Repubblica a Marsala a dispetto di colleghi più anziani e con altri genere di titoli preferenziali. Solo che quest’ultima citazione (sempre a pagina 125) è alla seconda: è la citazione di Sciascia che cita fra virgolette il “Notiziario straordinario” del Consiglio superiore della magistratura del 10 settembre 1986. L’idea, e la relativa terminologia, di una competenza professionale nella lotta alla mafia non è dunque di Sciascia ma del più alto organo della magistratura italiana, che ne fa, come si direbbe oggi in burocratichese, criterio principale per l’assegnazione di posti di prestigio nelle Procure dove la lotta alla mafia è pane quotidiano. Riprendendola, e sottolineandone l’analogia con alcuni fatti accaduti ai tempi del fascismo (il prefetto Mori che taccia di mafioso chiunque si opponga al Duce), Sciascia certamente la amplifica, aprendo un dibattito, per essere eufemistici, che dura ancor oggi, e che ha esasperato ed esacerbato gli animi di politici e studiosi, opinionisti, attivisti e, ovviamente, magistrati. 

 

Sarebbe troppo facile (e difatti lo si è fatto) dire che Sciascia aveva torto perché, fra l’altro, il povero Borsellino ha fatto la fine che ha fatto. Come si capisce bene rileggendo i successivi articoli presenti in A futura memoria, che entrano nel vivo della polemica con illustri giornalisti nazionali, Sciascia usava il caso Borsellino come puro esempio di una regola astratta e ben più generale. E sarebbe facile, allo stesso modo ma dalla parte opposta, additare il gran numero di sedicenti antimafiosi che, usando quest’etichetta (brand?), hanno fatto il gioco della mafia, direttamente o indirettamente, replicandone i modi aggressivi, gli obiettivi criminali, i mezzi delinquenziali. Basta ricordare un pungente libretto dello scorso anno di Gianpiero Caldarella, Frammenti di un discorso antimafioso (Navarra editore), per mettersi a ridere fino alla lacrime. 

 

Quel che a distanza di trent’anni, senza per questo voler chiudere un discorso che è ancora – ahinoi – più attuale che mai, possiamo ricavare da tutto questo è una lezione di metodo. Nel senso più alto e più urgente del termine. Al di là del fanatismo, della violenza, della brutalità politica, della disonestà intellettuale, dell’ingiustizia, quel che Sciascia combatte – qui come altrove – è soprattutto la bestia nera della stupidità. Da cui una tragica considerazione: se la retorica antimafiosa, alla fine, riesce a imporsi, a vincere e a dominare, è perché essa opera in modo solo parzialmente consapevole. Per molti versi essa è infatti – a rileggere il libro ci accorgiamo che viene ripetuto ogni due pagine – frutto di cretineria, dell’incapacità di capire, ma soprattutto della mancata comprensione delle differenze. Giudicare è distinguere, distinguere è capire, capire è esercitare l’intelligenza. Così, saper differenziare – come direbbe il sempreverde quadrato semiotico – tra l’essere antimafioso e l’essere non mafioso è estremamente difficile per uno stupido. Ma non impossibile. I miei studenti, e non solo i miei, lo colgono immediatamente. Gli altri, per usare una nuova immagine di un autore assai caro a Sciascia, preferiscono andare a coltivare il loro giardino. Magari quello delle palme a piazza Duomo, sotto la protezione della sirena che sta nel logo di Starbucks. A fare e disfare quel che resta dell’Opinione pubblica. 

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