Ghitta Carell, la signora del ritratto 

17 Luglio 2024

Negli archivi dell’Istituto Luce è possibile vedere una breve intervista a Ghitta Carell realizzata il 2 ottobre 1968 nel suo studio romano, pochi mesi prima che si trasferisse in Israele per ritrovarvi la famiglia di origine. La Carell si muove in un ambiente spoglio: tra i pochi oggetti inquadrati vi sono una libreria, i libri, la macchina fotografica, le lampade professionali, il tavolo dove esegue il ritocco delle lastre con quella pazienza certosina che fa dei suoi modelli figure irraggiungibili e che l’aveva resa celebre. I gesti sono misurati: sposta le lampade, aggiusta i capelli alla modella, le dà qualche indicazione di posa. Ghitta indossa un abito scuro su una camicetta, ha i capelli bianchi, è un po’ curva; è diversa dalla donna sicura di sé e sorridente degli autoritratti realizzati tra gli anni Trenta e i Quaranta dove gli occhi cerchiati e un po’ affossati puntati all’obbiettivo sono un tocco di mistero. All’epoca del servizio cinematografico la Carell già pensava di trasferirsi ad Haifa. Vi giunse definitivamente nel 1969, lasciando in Italia lo studio romano con i suoi libri, le macchine e le lastre, le stampe che aveva realizzato nel corso di quarant’anni. Alcuni amici fidatissimi erano stati incaricati di occuparsi del suo libretto di risparmi, della spedizione di libri e strumenti di lavoro in Israele, infine della collocazione dei materiali che non era possibile spedire. Tra gli amici che aiutarono la Carell a organizzare il trasferimento delle sue cose c’è anche Rina Macrelli, tornata da poco dal set statunitense di Zabriskie Point. Le due donne si erano incontrate agli inizi degli anni Sessanta negli studi della Rai, divennero amiche e qualche volta si scrissero: alle lettere la Carell affida l’umore melanconico degli ultimi anni trascorsi tra Italia e Israele. In una cartolina da Haifa scrive: «io qui sono nata, ma tremila anni fa, ed è difficile riclimatizzarsi». Fu Rina a farmi conoscere e apprezzare l’opera della fotografa. Era la metà degli anni Ottanta e pochi si interessavano a lei a causa del passato professionale fiorito durante il ventennio, quando era stata la ritrattista più apprezzata e ricercata dalla classe politica e dalle élites. Dopo le pagine nel catalogo Gli anni trenta: arte e cultura in Italia (1982) e la voce biografica di Marina Miraglia (Dizionario Biografico degli italiani, 1988), solo negli ultimi vent’anni la figura di Carell è tornata a interessare davvero la storia della fotografia. Dopo averle dedicato Un ritratto mondano, fotografie di Ghitta Carell (Johan & Levi, 2013) e Gli architetti di Ghitta Carell (Galleria Prencipe, 2018) nell’ultimo volume curato insieme a Maria Sica (We all think of ourselves as one single person but it's not true: Ghitta Carell's portraits, 5 continents, 2023, in doppia versione inglese ed ebraica), Roberto Dulio coordina testimonianze critiche che disegnano a tutto tondo le fasi della vita e dell’opera di Carell: le origini famigliari, la formazione artistica in Ungheria dove nacque a Szatmár nel 1899 (Norbert Orosz, Marina Trivella), il trasferimento a Firenze a metà degli anni Venti, che le consentì di incrociare Ugo Ojetti e Roberto Papini potenti intellettuali legati al regime (Teresa Sacchi Lodispoto); la problematicità della sua presenza di artista donna in una società guidata da sole figure maschili (Sabrina Spinazzé); i caratteri della personalissima estetica del ritratto fotografico (Alessandra A. Swann; Ugo Volli); infine il passaggio finale in Israele (Nissan N. Perez). 

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Intuite le potenzialità della sua “camera” Ojetti e Papini avevano contribuito a proiettare Carell al centro dell’alta società. Trasferitasi a Roma, dalla fine degli anni Venti la fotografa si afferma velocemente e, con Margherita Sarfatti di cui divenne amica, cura in maniera esteticamente impeccabile l’immagine del regime che piega le sue doti di ritrattista alle necessità della politica: dai ritratti di Benito Mussolini declinati tra un’estetica glamour e un’impronta di plastico decisionismo, alle immagini aureolate di Maria José di Savoia ed Edda Ciano, delle signore della nobiltà e della cultura, ad attori, scrittori (Comisso, Bontempelli, Banti, Vergani), artisti (Mafai, Cascella, Maselli), attori (De Sica, Valli) e star della produzione americana come Walt Disney, sceso in Italia nel 1935, fino a mister e miss dell’alta società internazionale.

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Ghitta Carell, Giuseppe Saragat
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Ghitta Carell, Jolena Baldini.

Lo stile della Carell è semplice ed efficacissimo. Fotografie a mezzo busto, in piano americano, qualche volta a figura intera e di profilo, che concentrano tutta l’attenzione su posa, espressione del ritrattato e dettagli degli abiti. Ghitta esegue anche ritratti di famiglia (quella reale e la famiglia Mussolini soprattutto) e di gruppo. Molti possono essere recuperati nella Fototeca Gilardi e nell’archivio della Fondazione 3M, erede del patrimonio di lastre immagazzinato dalla Ferrania dopo la morte della Carell. Non tutte le lastre e le stampe sono sopravvissute alla dispersione, ma ciò che resta mostra che perseguiva un modello ‘classico’, con rinvii alla cultura figurativa di Quattro e Cinquecento (possedeva un’ampia biblioteca di libri d’arte), come nel profilo di Edda Ciano (1938) ideato tra l’icastica determinazione del Duca di Urbino di Piero della Francesca e la gelida eleganza di corte di Laura Battiferri del Bronzino. Per enfatizzare il soggetto femminile e conformarlo alle richieste di rappresentazione del tempo, Ghitta rende esplicite le allusioni all’iconografia sacra, la vergine e sposa care al regime: esalta i veli che coronano le dame in abito nuziale o di gala, le mandorle di luce e l’aura luminosa attorno a corpi e volti. Tramite un sottile artificio (la sua cifra stilistica) sospeso tra derive alla Boldini e plasticismo sironiano, Carell rimodella in forme eccentriche anche l’iconografia holliwoodiana. Elena Canino, che fu sua assistente negli anni Trenta, raccontava che tra i suoi doveri vi era «quello di prendere in consegna le valigie da cui le signore si fanno precedere. È la signora [la Carell] che deve decidere quale, dei tanti vestiti che vi stanno piegati dentro, è adatto. Niente è lasciato alla loro scelta, né la scollatura, né i ricci, né la posa. Poi in camera oscura le fa smagrire di dieci chili in dieci minuti, raschiando dove bisogna. Ravviva gli occhi con i suoi pennellini, le fa tutte belle: giovani e svelte ninfe» (Clotilde fra due guerre, Longanesi 1956).

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Ghitta Carell, Ruggero Orlando.
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Ghitta Carell, Titina Maselli.

La fortuna del lavoro della Carell, che si considerava la sola “artista” del ritratto in fotografia, fu consacrata nel 1936 alla Galleria Pesaro di Milano, uno spazio di solito riservato agli artisti figurativi di successo. Ma non era solo seduzione quella che lei chiedeva all’obbiettivo. Come ha osservato Marina Miraglia «adottò in apparenza il linguaggio del consenso, riservandosi però l'uso di un sarcasmo quasi feroce che si esprime e si placa nell’umorismo sottile e garbato, quasi inavvertibile, dei suoi ritratti lusinghieri». Di questo acuto e ironico uso dell’obbiettivo si accorse Roberto Longhi; nel ’34 restituiva a Ghitta un suo superbo ritratto in veste di dandy con il sigaro in bocca e lo accompagnava con una dedica sibillina: «A Ghitta Carell che rammenta all’obbiettivo d’esser critico e al critico d’essere obbiettivo». Escono dallo schema della pura lusinga visiva anche i ritratti di nobildonne agghindate in costume storico e quello di Pio XII (modello per un busto in marmo di Corrado Vigni, lo scultore compagno di Ghitta) seduto davanti al muro e visto di schiena (da aggiungere al catalogo di Luigi Grazioli): al di là delle originarie intenzioni lo scatto assume una potente autonomia simbolica grazie alla quale il severo e inespressivo Pacelli incarna drammaticamente l’impasse esistenziale vissuto davanti al buio dei tempi nei quali si era trovato a esercitare il suo magistero.

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Pieghevole pubblicitario dello Studio Carell a Roma.

Emarginata, come la Sarfatti, dopo le leggi razziali del 1938, grazie alla protezione di alcuni amici Ghitta riuscì a sfuggire alla deportazione pur rimanendo in Italia. Alla fine del conflitto riprese apertamente la sua attività e ricominciò a fotografare la classe dirigente e le élites, ormai molto diverse. Avverte il mutamento, non rinuncia all’esecuzione perfezionista, ma cede a un’impronta più sobria, quasi realista: davanti al suo obbiettivo sfilano ora i nuovi politici – da Gronchi a De Gasperi, da Andreotti a Saragat a Tanassi –, gli uomini di cultura e gli industriali affermati – da Cesare Pavese a Ruggero Orlando, da Cesare Brandi ad Adriano Olivetti. Alle signore finalmente toglie l’aura da dive e angeli del focolare, e qualche volta realizza scatti pieni di sincera empatia: un raro ritratto di Jolena Baldini, la “Berenice” dalla lunga treccia di fanciulla che scrive le cronache della mondanità culturale sulle pagine di «Paese Sera», la Valentina Cortese con il figlio birichino, l’energica Liliana Cavani. Dopo la sua morte saranno proprio donne di cultura radicale e femminista come la Macrelli a superare il tabù della convivenza della Carell con il regime fascista e a farla uscire dal silenzio culturale in cui era stata isolata per più di vent’anni. Nel 1978 Maria Francesca Occhipinti e Adele Cambria le dedicano un volume (Signori d'Italia nei fotoritratti di Ghitta Carell, Longanesi). Lucidamente consapevole delle contraddizioni che avevano segnato il percorso della fotografa, il bellissimo testo della Cambria (che da Ghitta era stata a sua volta ritratta con il figlioletto nel 1961) ha tuttavia come perno la riabilitazione del suo profilo nella storia delle donne del Novecento: «È molto lontana da me l’idea di fabbricare alla Carell una “credibilità antifascista” (operazione, del resto, che molti, che ancora prosperano in area di potere, hanno compiuto a vantaggio proprio o dei propri amici). E non credo neppure di soccombere a un generico solidarismo femminile /femminista, se non me la sento di “giustiziare”, in uno schema politicamente corretto, per l’appunto schematico, una donna che – non credo sia giusto dimenticarlo – s’è costruita da sola un’identità, pur discutibile che oggi essa possa sembrare».

In copertina, Ghitta Carell, Roberto Longhi. 

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