Scrittori in fabbrica

29 Gennaio 2014

La dismissione è un crollo, l’assenza è tempo libero, i cicli di produzione diventano esperienza autobiografica slegata da ogni vincolo di classe all’interno del generale appiattimento determinato dal precariato. La classe operaia non esiste più, si sa; ma gli operai resistono tra una chiusura e l’altra e raccontare le loro storie spesso significa attraversare un deserto di senso dentro cui non ha più alcun valore la razionalità alienante dell’organizzazione, del lavoro e di quella che una volta era la dura vita di fabbrica.

 

Oggi di duro è rimasta la vita tout court al cui centro non domina la dignità del lavoro e della lotta sindacale, ma la malattia: ultimo e unico residuo di una cultura ormai tutta rinchiusa nel Novecento (almeno in occidente) che prometteva emancipazione e benessere. Promesse in parte certamente mantenute, ma al prezzo in primis della vita stessa di chi oggi si ritrova reduce di una sterminata folla di compagni (così ci si chiama in fabbrica, al di là dei credi e delle tessere: i colleghi sono quelli con i colletti bianchi) uccisi sul lavoro e dal lavoro e al prezzo enorme della perdita di un’identità culturale oggi appiattita da un consumismo denunciato già nei primi anni Sessanta e oggi ampiamente accettato.

 

E ora cosa resta? Il panico probabilmente, tema centrale di buona parte dell’ultima narrativa italiana, declinato in varie forme: da segnalare tra gli altri l’interessante ultimo romanzo di Christian Frascella, Il panico quotidiano (Einaudi), che libera con decisione l’autore dal cliché giovanilista dentro al quale sembrava relegato. Panico quale vero e proprio luogo dell’esistenza, dentro cui reprimere ambizioni e malinconie e i sensi di colpa di una generazione, quella dei trenta-quarantenni, tanto incapace di ottenere spazio e lavoro quanto priva della libertà necessaria per emanciparsi da quel mondo passato, quello dei padri, che torna prepotentemente sotto forma di ambizioni frustrate e di malattie terminali. Colpisce il libro di Stefano Valenti, La fabbrica del panico (Feltrinelli),  esordio da Feltrinelli del giovane traduttore che racconta attraverso l’agonia del padre, la sofferenza di un’epoca in cui dal lavoro alla vita tutto è più che a termine, terminale.

 

     

 

Diviso in due parti il libro di Valenti racconta la fine di un’epoca industriale e l’arenarsi delle sue promesse progressive. Qui Milano è quella degli slums periferici che sconfinano con la piatta provincia della pianura padana: luoghi informi in cui i lavoratori precari principalmente del terziario si contendono a cifre spesso folli stanze o più disgraziatamente posti letto. Nessuna prospettiva di miglioramento: nessun futuro roseo è previsto. Il lavoro è continuo, privo di orari. Nulla è garantito, tutto è necessario. Dall’alienazione si è passati all'estraniazione. Dalla società, a se stessi solamente. Un lavoro continuo, un lavorio che tiene occupata la mente e impedisce il desiderio. Quello che rimane è assenza: assenza panica.

 

Nella prima parte ripercorriamo con l’autore le passioni e i desideri del padre, operaio metalmeccanico (saldatore) morto per un tumore causato dall’esalazioni di amianto. Il racconto è tragico, non c’è discesa agli inferi: ci siamo già. Tuttavia l’essenzialità della fabbrica non c’è, perché non c’è più nella realtà e quello che rimane è un antro di follia e fatica descrivibile solo con i toni di un incubo carico di pathos.

 

Qui l’autore sembra brancolare un poco ricorrendo ad una lingua densa e a tratti retorica. Quasi fiancheggiando un’idea mitica di un tempo passato. E non a caso è il racconto intimo del padre, della sua passione per la pittura quale vero sbocco esistenziale, che dà forza al libro facendolo emergere letterariamente. L’autobiografia sembra diventare l’unica possibilità di racconto di un’epoca e di un luogo, la fabbrica, tanto terribile quanto ostinatamente reale e possibile da vivere giorno dopo giorno e per tutta la vita con costanza e ordinaria tensione. E così lo diventano le testimonianze degli operai al processo che occupano tutta la seconda parte del libro. L’autore si appoggia a loro sfinito da una storia che gli appartiene nelle vene, ma non più negli occhi: non c’è nulla da vedere e non c’è nulla da descrivere. Il tempo che è stato rubato all’esistenza e alla sensibilità del padre come dei suoi compagni è ormai perso per sempre.

 

Una lingua per raccontare la fabbrica oggi non c’è più, piano piano è svanita giorno dopo giorno, chiusura dopo chiusura, licenziamento dopo licenziamento. Prima si perdono le parole e prima ci si dimentica. Così fa meno male, così è forse per una generazione precaria l’unica soluzione per resistere.

 

Lo si capisce bene attraversando la bella antologia a cura di Giorgio Bigatti e Giuseppe Lupo, Fabbrica di carta (Laterza), che raccoglie vari testi più o meno letterari attorno alla fabbrica, suddividendoli per temi. Una vera e propria lunga caduta, un passaggio previsto già da Luciano Bianciardi e poi da altri testimoniato. Una presa di coscienza del reale, come spiega bene Giorgio Bigatti in apertura al volume: quello che erano i dati statistici entusiasti degli anni Sessanta sembrano oggi raccontarci un’epoca aurea che stava solo sulla carta. Guardare in faccia la classe operaia è stato l’unico modo di raccontarla e di descrivere i cambiamenti che la fabbrica subiva negli anni. E così oggi l’unica voce credibile è quella soggettiva del testimone, più che del narratore.

 

   

 

Fa da contraltare naturale a Fabbrica di Carta, Il tempo senza lavoro (Feltrinelli) a cura di Massimo Cirri che raccoglie le testimonianze dei lavoratori di Agile e ex Eutelia. Racconti di lotta, di lavoro, di sindacato, di tradimenti e di amicizia. Racconti commoventi e duri, storie di chi è stato chiuso fuori, come si definisce Antonella Spinazzi in una delle testimonianze.

 

Chiusi fuori i lavoratori e chiusi fuori noi incapaci di pensare una trattativa che non sia al ribasso e una resistenza che sia anche prospettiva e così anche la letteratura si trova impotente. Rimescolare le carte, riprendere il discorso è una delle strade indicate da Alessandro Leogrande con il suo Fumo sulla città (Fandango) che raccoglie vecchi e nuovi reportages su Taranto capaci di illuminare nella particolarità disgraziata di Taranto la particolarità altrettanto nefasta della politica nazionale italiana e della sua immatura società.

 

L’esperienza di Giancarlo Cito, politicante fascista di trama populista s’intreccia con quella di una sinistra sclerotica divisa tra un sindacato impotente  e un’inquietante politica a mano armata. Sullo sfondo rimane la tragedia di una fabbrica e di una città, dell’utopia che ha trasformato un intero territorio nella sua ombra senza possibilità di logica. Leogrande racconta gli ultimi vent’anni di Taranto con il distacco di chi vi è nato e di chi vi è sfuggito conscio che la propria storia e le proprie contraddizioni vi s’intrecciano. La fabbrica non permette opzioni, fuori non c’è nulla e dentro c’è tutto: la città e tutta una nazione con i suoi desideri e le sue sciocche scelte disadorne.

 

  

 

Se Mammut (Mondadori) di Pennacchi e ancor più La dismissione (Feltrinelli) di Rea hanno raccontato la morte della fabbrica, Il costo della vita (Einaudi) di Angelo Ferracuti racconta la morte spesso cancellata dalla retorica (anche di classe) degli operai. Nel 1987 tredici operai rimangono uccisi soffocati nelle stive della Elisabetta Montanari ai cantieri navali di Ravenna e Angelo Ferracuti ricostruisce le loro vite restituendole al lettore con ruvida semplicità. L’autore compie un’indagine appassionata attorno alle vite di tredici uomini, oltre il semplice reportage e mettendo in gioco se stesso: qui, a differenza di Leogrande, lo fa con lo stacco dell’estraneo, con l’occhio a tratti ingenuo di chi arriva per passare, ma è costretto con le sue stesse parole a rimanere inchiodato ad una storia e ad un luogo. Vero indice e percorso parallelo al testo è l’elenco delle straordinarie fotografie di Mario Dondero.

 

La fabbrica intesa come possibilità di emancipazione è chiusa e dismessa, e al posto di un previsto benessere pare essersi piuttosto diffusa nella società una tragedia (spesso visibile, ma a tratti subdola e impalpabile) che dai padri ricade sui figli con il suo portato di sofferenza, fatica e alienazione. Un deserto rosso.

 


 

Questo pezzo è contenuto nell'ultimo numero di Alfabeta2 di gennaio/febbraio in uscita in questi giorni.

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