Amore che move
0. Premessa o Della lettura per diffrazione
"Haraway propone una strategia di lettura che, invece di riflettere, attui una diffrazione. Secondo Haraway, la lettura per diffrazione, che fa interagire i testi al di là di ogni legame apparente di parentela e li studia non solo insieme, ma anche l’uno attraverso l’altro, produce una nuova “coscienza critica” (una coscienza impegnata strenuamente a fare una differenza invece che ripetere la Sacra immagine) che non è interessata alla riflessione ostinata sul rapporto tra l’originale e la sua copia, ma cambia la prospettiva e vuole produrre qualcosa di nuovo".
Così scrive Manuele Gragnolati nell’introduzione di Amore che move (il Saggiatore, 2013), un saggio che si presenta non come una critica che rifletta un e su un modello, ma come una critica che si concentri sulle analogie e sulle differenze nel testo e tra i testi presi in considerazione. Perché la critica, partendo da un’ossessione o da un’intenzione dimostrativa, proietti e dunque crei legami. In questo saggio l’ossessione e l’intenzione dimostrativa sono la costruzione dell’identità dell’autore all’interno della propria opera e per mezzo di essa, e il desiderio, di natura varia, come motore di tale principio identitario. Ossessioni e intenzioni che non condivido ma delle quali posso capire l’interesse speculativo (non le condivido essenzialmente perché l’identità e i suoi cascami mi annoiano). Inoltre, perché sia possibile la lettura per diffrazione teorizzata da Haraway e invocata da Gragnolati è necessaria, addirittura strutturale, prima la luce speculativa (il soggetto, l’io critico) e poi l’oggetto. L’oggetto in sé rimane muto, inane. Faccenda, questa, che di certo neutralizza la ripetizione della “Sacra immagine”, e realizza, nel contempo, una operazione tolemaica, ponendo l’io critico a illuminare l’opera e l’opera a vivere di “una” o “un’altra” luce riflessa. La conseguenza è, come ha scritto Anaïs Nin, che Non vediamo le cose come sono, ma le vediamo come siamo noi e successivamente, la possibilità e la diffusione di una critica letteraria (come Koch, Siti, Bompiani, Praz, Trevi, Berardinelli, Woolf, Auerbach, Santagata per citare i miei più letti) nella quale la bontà e l’acribia dipendano essenzialmente dalla abilità e dalla variabilità cangiante e sfavillante della lingua usata, dipendano, in breve, da come si scrive. La critica come forma affidabile di autobiografia, la critica come dottrina del “voler esser” in quanto tale.
"Ho voluto, piuttosto, creare una costellazione di testi che si illuminino a vicenda e proporre dialoghi incrociati fra di essi anche quando i legami sembrano essere meno diretti".
D’altronde, come ha scritto Virginia Woolf in Una stanza tutta per sé, “I libri sono la continuazione l’uno dell’altro, nonostante la nostra abitudine a giudicarli separatamente” e perciò penso che la lettura sia sempre e naturalmente diffrattiva e che dunque debba esserlo la lettura critica, una lettura che mova il sole e le altre stelle.
1. Il sole e le altre stelle o Di che cosa si discute in questo saggio
Amore che move, il saggio con il quale Gragnolati, lega – e stringe – i percorsi costruttivi e narrativi di Dante nella Vita Nuova, Pasolini in Divina Mimesis e Petrolio, Elsa Morante in Aracoeli (con una piccola premessa, un indizio, nell’Isola di Arturo) si dipana in sette capitoli, attraverso i quali l’autore introduce e argomenta, sostenendosi con una significativa e assai precisa antologica di critica precedente, i concetti di “performance” nella Vita Nuova e di “performance queer” in Pasolini e che, attraverso l’idea di nostalgia del corpo in Dante, e per mezzo dell’analisi della temporalità non lineare e delle stratificazioni linguistiche in Petrolio, proietta il queer fino ad Elsa Morante. Nell’analisi di Gragnolati, il rapporto tra Dante e Pasolini è chiaro ma antipodale (Pasolini dichiara di voler riscrivere la Commedia, tuttavia se la performance di Dante è orientata alla definizione di se stesso come autore, quella di Pasolini punta alla dissoluzione dell’autore), mentre il rapporto tra Dante e Morante è più carsico ma coincidente (nella carne gloriosa, nella resurrezione, che se per Dante, alla fine del Paradiso, è visione, per Morante, in Aracoeli, è riappropriazione di forme di comunicazione prelinguistiche, fisicamente apprese e ritmate dalla suzione dell’infanzia, resurrezione di una lingua bevuta dalla madre). Il fine dell’analisi è lo studio, prendendo l’abbrivo da una scelta di opere fondata su un’analogia (di natura strutturale e intenzionale) dei rapporti tra fisicità e desiderio dell’autore e linguaggio, anzi, del desiderio e della fisicità dell’autore nel testo, anzi lo studio del desiderio come caratteristica imprescindibile dell’identità, e dunque del corpo, e dunque del linguaggio.
(…) la sua [di Dante] operazione di riscrittura dei testi poetici può essere considerata la performance di un autore in almeno due sensi. Una performance è compiuta da un poeta che mette in scena il proprio passato come un percorso ideale e si conferisce l’autorevolezza di un auctor. Ma l’operazione della Vita Nuova è una performance anche nel senso che attraverso la risignificazione del materiale passato e attraverso la narrazione stessa il libello riesce a creare un autore nuovo rispetto a quello delle Rime. Infatti, uno degli aspetti più interessanti del libello dantesco è proprio la complessità archeologica e temporale delle sue liriche, che permette di aprire una finestra sull’officina testuale con cui Dante si costruisce la nuova identità d’autore e di vedere anche come questa identità non sia un’essenza che si esprime nel testo, ma una sua creazione audace e mirabilmente riuscita.
2. Performance o Dell’autore in forma chiusa
Nel progettare e nel cominciare a scrivere il mio romanzo, io in effetti ho attuato qualcos’altro che progettare e scrivere il mio romanzo: io ho cioè organizzato in me il senso e la funzione della realtà; e una volta che ho organizzato il senso e la funzione della realtà, io ho cercato di impadronirmi della realtà.
Petrolio, da Appunto 99
In matematica, una forma chiusa è un’espressione che può essere calcolata esattamente in base alla conoscenza di un numero finito di quantità note (e.g. un’equazione di secondo grado è risolvibile esattamente, dati i coefficienti dell’incognita). L’organizzazione del senso e della funzione della realtà, per utilizzare l’espressione di Pasolini citata in esergo, oltre a essere i coefficienti, dati i quali un autore si ritrova, risolve se stesso in forma chiusa – è vero che sono conoscibili solo da autori che non abbiano una forte componente critica – sono le idee che illuminano a giorno l’ipotesi di Gragnolati di “performance” nella Vita nuova e, lividamente, l’ipotesi di “performance queer” in Pasolini.
"Se pensiamo alla performance autoriale della Vita Nuova, riuscita e teleologica, la pubblicazione della Divina Mimesis nella forma del 1975 può essere considerata una performance queer, che inscena una specie di movimento all’indietro rispetto a quello dell’autorialità dantesca, progettando prima di passare dalla forma della Commedia a quella di un’edizione delle Rime, non creando ma uccidendo l’autore, e poi non realizzando nessuno dei progetti prospettati. Il titolo Divina Mimesis potrebbe così finire per essere ironico e non solo sottolineare il contrasto tra il successo dell’operazione dantesca e la messa in scena del proprio fallimento, ma forse anche indicare che si tratta di un’operazione anch’essa “fatta per ridere”. In questo senso, la scelta del fallimento potrebbe essere avvicinata a quanto Judith Halberstam ha recentemente teorizzato nel suo saggio The Queer Art of Failure, che cerca un’alternativa alla concezione convenzionale di successo nella società etero-normativa e capitalista contemporanea e propone che a volte il fallimento, sebbene costringa a confrontarsi con il lato oscuro della vita e del desiderio, costituisca effettivamente una modalità creativa di resistenza. Si potrebbe dunque pensare che l’impegno di Pasolini nella Divina Mimesis continui, sebbene in una maniera diversa rispetto all’ideologia marxista del passato, e che il gesto gratuito e di sfida con cui nel 1975 Pasolini decide di pubblicarla nella forma attuale rappresenti un paradossale orgoglio che proprio nell’abbracciare il fallimento si oppone alla mostruosa omologazione del progresso, della linearità e della loro estetica".
Pur concordando con l’osservazione di Gragnolati secondo la quale il modo in cui Dante si mette in scena e si presenta nel testo è un aspetto importante della Vita Nuova e concordando pure con l’ulteriore conseguenza che Dante attua nell’opera (o con l’opera) una performance in senso stretto (“buona o cattiva riuscita dell’azione compiuta”), penso che avrebbe potuto portare, ma forse sarebbe stato oltre le intenzioni del saggio, alle estreme conseguenze il suo ragionamento. Se infatti come scrive:
"Butler instaura un legame tra la costituzione del gender e l’uso performativo del linguaggio e propone che il gender non sia tanto l’espressione di ciò che uno/a è, quanto il risultato di ciò che uno/a fa. Ne deriva che l’identità personale non è l’espressione di un’essenza o una sostanza originaria, ma viene costituita attraverso la ripetizione di azioni che (…) dipendono da convenzioni sociali e da modi abituali di fare qualcosa in una determinata cultura"
allora, attraverso Pasolini (“quell’esclusione della vita degli altri che è la ripetizione della propria”) e Woolf (“dipingere, dice Lily Briscoe, non è una cosa che si può dire di fare”), si arriva al fatto che essere autore è un gender risultante da un gesto o una serie di gesti (la scrittura, il dipingere), dalla scelta di un linguaggio, dall’organizzazione del senso e della funzione della realtà e che si manifesta attraverso l’abbandono del proprio nome e del proprio habitus secolare per accedere alla messa in scena del romanzo. Per portare un esempio recente e assai noto, in cui il nome secolare coincide con il nome temporale, “Mi chiamo Walter Siti come tutti”. Sulla strategia testuale con la quale i libri di Dante e Pasolini presi in considerazione da Gragnolati presentano l’evoluzione del protagonista e fanno emergere un nuovo autore (il nome temporale) conferendogli una forma di autorevolezza, va forse osservato, come ha fatto Woolf (sempre in Una stanza tutta per sé) che l’integrità in un romanzo – la caratterista che lo fa rimanere tale (e vivo) a distanza di decenni, e di secoli – è la certezza comunicata dal romanziere che quello che egli scrive è la verità. Il possesso della verità è il pronao dell’autorità.
3. Dante e Morante o Della differenza tra “abbracci mancati” e “abbracci mancanti” (e conseguente differenza sulla struttura e la collocazione del Paradiso)
I capitoli 4 e 5, “Il corpo animato tra Inferno e Purgatorio” e “La nostalgia del Paradiso e gli abbracci della Commedia” sono avvincenti per la descrizione, la contestualizzazione e la ricognizione, nei testi e nella critica precedente, del corpo come memoria del passato e per l’analisi sul perché “nella Commedia permane il senso che i desideri che essi simboleggiano costituiscono una componente imprescindibile dell’identità e dell’esperienza nel Paradiso”. Scrive Gragnolati “come in Dante, anche per Morante, il motivo della resurrezione del corpo esprime un ideale corporeo di relazionalità e intersoggettività”. Su relazionalità e intersoggettività penso tuttavia che gli abbracci nella Commedia, derivati come ricostruisce Gragnolati dagli abbracci mancati in autori classici come Omero e Virgilio, e gli abbracci in Aracoeli, rimandino a un’idea di Oltremondo distantissima se non per significato, di certo per geografia. Morante è pagana, il suo Oltremondo è mischiato a quello dei vivi. L’abbraccio mancato in Dante è la dimostrazione che la vita e la morte sono qualità separate dell’essere, in Morante l’abbraccio può essere mancato anche tra due esseri viventi. Scrive in Aracoeli “Se si fosse lasciato abbracciare da me, anche una volta sola, forse mi sarei accorto di non stringere, fra le mie braccia, niente; o un corpo di vecchio” da cui si deduce che l’impossibilità dell’abbraccio coincide, in vita, con l’inutilità dell’abbraccio dal momento in cui la giovinezza è trascorsa. Il regno delle ombre, Oltremondo luminoso o ctonio che sia, per Morante sono già la vecchiaia e la bruttezza. Per converso, il “luogo della morte”, se illuminato dall’amore o dal ricordo dell’amore, coincide con il luogo degli abbracci: “Se pensavo a Aracoeli e a Balletto, il luogo della morte mi si offriva quale una cuccia dolcissima dove ci si abbraccia stretti insieme”. Il regno delle ombre, per Elsa Morante è, certamente in Aracoeli, coesistente con quello dei vivi, per questo non è il luogo degli abbracci mancati, come in Dante e nei classici, ma il luogo degli “abbracci mancanti”, delle carezze trattenute. “E avrete bisogno di carezze fino all’ultimo vostro giorno”, mentre in realtà ribadiva, con questa legge non detta, la propria ingiustizia istituita. Favoriti, infatti, fra i mortali, sono i giovani belli, che possono offrire senza vergogna alle carezze la propria carne radiosa. L’essenza, come osserva Gragnolati, è la medesima, nell’Oltremondo non ci si abbraccia, solo che la geografia è diversa, e quella di Morante assai più desolata. La carne radiosa/gloriosa in Dante è nella Resurrezione, ultima visione del Paradiso, in Elsa Morante nella giovinezza.
4. (A)varie o Della spigolatura
- In riferimento agli appunti 55 e 62 citati da Gragnolati nei quali Carlo, trasformato in donna, incontra ragazzi con i quali fa sesso, ho sempre creduto che il pronome personale rimanesse al maschile non tanto per la conferma, sottolineata da Rebecca West, di un universo che comunque rimane tutto maschile, ma perché la dinamica possessore/posseduto può realizzarsi solo nel gradiente della sproporzione tra quello che uno è (Carlo è un uomo) e quello che gli altri pensano che sia (Carlo è una donna). Una sorta di plusvalore, in senso marxista, la differenza cioè tra il valore dell’essere donna e la ricompensa del piacere dei gesti sufficienti a possederla, differenza della quale la scelta grammaticale di Pasolini si appropria virtuosamente (ma in maniera capitalistica giacché ne guadagna in potenza evocativa).
- La concezione della Gravità accessibile a Dante era quella di Aristotele e Platone i quali pensavano che essa si applicasse a certi corpi pesanti, detti appunto gravi, che tuttavia non includevano il sole né le stelle il cui movimento, circolare, apparteneva all’ordine e all’organizzazione dell’universo. Tuttavia dal verso “l’amor che move il sole e le altre stelle” è possibile attribuire a Dante una sorta di preveggenza poetica perché, se l’amore spinge (muove, fa cadere) un corpo umano verso un altro corpo amato, è possibile allora anche che esso muova pure i corpi celesti. L’amore è una forma di forza di gravità. Einstein si divertirà a chiosare “Gravity is not responsible for people falling in love” e Jeanette Winterson, in Tanglewreck , per tirare fuori uno dei suoi personaggi adolescenti intrappolati in un buco nero sulla frontiera dell’Universo che è (per lei) l’orizzonte degli eventi, ricorrerà all’amore, solo l’amore vince la gravità.
- La cornice metodologica più esterna del saggio di Gragnolati ha una sfumatura hegeliana. Gragnolati mette in opera una dialettica nella quale il significato interpretativo scaturisce da termini contrapposti. Dante – Vita Nuova (Tesi) – costruzione dell’autore; Pasolini – Divina Mimesis (Antitesi) – dissoluzione dell’autore; Elsa Morante – Aracoeli (Sintesi) – superamento della contraddizione attraverso la fusione di corporeità (autore) e linguaggio (la corporeità è irriducibile al linguaggio, anche se “Non c’è spina senza rosa”).
- “In particolare, mi concentrerò sul processo di sacralizzazione a cui è sottoposta la figura della donna amata (che diventa una «beatrice») e sul tentativo di rendere compatibile l’eros della tradizione cortese con il controllo della ragione.” Viene in mente Cvetaeva che nelle Lettere fiorentine racconta lo stupore col quale un uomo al quale aveva dedicato dei versi si stupisce che abbia ri-dedicato quesi versi a un altro. Cvetaeva ribatte “io che ti ho amato totalmente, posso anche ignorarti totalmente”. In effetti il soggetto d’amore è colui che scrive, l’oggetto d’amore è “l’eterna seconda persona singolare”, e dunque, in quanto pronome, fungibile.
- “Il mondo della Commedia indica così che gli affetti del passato non sono mai messi da parte e in cielo le anime continuano a rimanere fedeli a essi e ai propri desideri: per se stessi, il proprio corpo e le persone che sono state importanti e continuano a esserlo.” In effetti, come dice credo Porzia in una delle sue ultime battute nel Mercante di Venezia (ma mi sia dato un certo beneficio di inventario) “non esiste nulla se non in relazione”. Nemmeno le anime.
- Prima della giustamente affascinante lettura di Burgwinkle sul “Paradiso come fantasia queer”, c’è stato Poussin, che da Parnassus in poi si era portato avanti molto sulla rappresentazione del tema.