Le falene della seta
Si dice che la seta fu inventata dalla bella Hsi Ling Shi, la giovane consorte del mitico “imperatore giallo” Huang-Di che regnò in Cina intorno al 2600 a.C.
La leggenda narra che Hsi Ling Shi si rifugiò su di un albero di gelso per salvarsi da un serpente che la inseguiva. Un’altra versione dice semplicemente che l’imperatore, stufo di vedere i propri gelsi andati distrutti, la inviò a verificare chi ne fosse responsabile. E così, l’imperatrice scoprì sui gelsi le grandi larve del baco da seta, quello che gli entomologi di oggi chiamano Bombyx mori, intente a tessere i loro bozzoli con fili finissimi ma robusti. La leggenda prosegue e dice che l’imperatrice a quel punto si sedette per bersi un tè; per caso, uno dei bozzoli che aveva trovato sui gelsi cadde nella bevanda calda sfilacciandosi. Il filo era lungo e incredibilmente solido. L’imperatrice non ci mise molto a capire che c’era di che passare alla storia e così nacque la seta.
La Cina, nascondendo il segreto della sua produzione, ne ebbe il monopolio per due millenni. Poi, un paio di secoli prima di Cristo, il segreto per la produzione del prezioso tessuto cominciò a diffondersi in Corea, in Giappone e in varie zone dell’Asia sino a giungere in Persia. I greci prima e i romani poi già citavano la seta 200 anni prima di Cristo, ai tempi dell’apertura della grande via verso oriente, quella che a tutt’oggi chiamiamo “la Via della Seta”. Tuttavia, il segreto della sua produzione, legato al baco, giunse in medio oriente, a Costantinopoli, solo in epoca bizantina, intorno al 550 dell’era cristiana pare grazie a due monaci nestoriani che trasportarono dalla Persia, segretamente, le uova del Bombice dentro canne di bambù. Furono poi gli Arabi dapprima e i Crociati poi a introdurre la produzione in Europa occidentale. Siamo già all’anno 1000 ed oltre, in pieno Medio Evo. Il Bombice del gelso iniziò così la sua stimata carriera di produttore di seta anche in Europa, entrando in Italia nel 13° secolo. Nei secoli di allevamenti e di selezioni da parte dell’uomo, il Bombice progressivamente perse la capacità di volare come tutte le sue parenti più strette che appartengono alla famiglia di falene dei Saturnidi.
La seta, si sa, era un tessuto pregiatissimo. Occorreva produrne in grande quantità per accontentare tutti e soddisfare, già secoli fa, le richieste del mercato. Che pensarono di fare dunque quegli artigiani che, in Europa, intendevano accelerarne la produzione? A qualcuno venne in mente che in Asia ci dovevano pur essere altre specie di falene il cui bruco produceva seta. E così, la ricerca portò, nell’Ottocento, all’introduzione in Europa di varie specie di Saturnidi capaci di produrre il prezioso filamento. Si trattava di grandi falene, spesso bellissime, dai grandi ocelli scuri sulle ali, sia quelle anteriori che quelle posteriori. Non ebbero molta fortuna, in quanto la seta che producevano, per un motivo o per un altro, era di scarsa qualità rispetto a quella del baco da seta. Una di queste, Philosamia cynthia, fu importata in vari Paesi europei dalla Cina, sua patria d’origine. Dato che la grande e stupenda larva verde si nutre solo di ailanto, l’importazione di questa pianta, che era giunta in Europa decenni prima a scopo decorativo, venne incrementata così da creare vere e proprie boscaglie al fine di nutrire l’avido bruco. Siamo alla metà dell’800. Giunse anche in Italia, nel nord, dove piccoli allevatori cercarono di sfruttare la seta, si dice molto resistente, che la bella cynthia produce al tempo della metamorfosi.
Ricordo la prima volta che vidi, a casa dell’amico Piscopo, questa stupenda falena dai tratti orientaleggianti grazie ai disegni di grandi occhi a mandorla colorati di bianco e giallo su entrambe le ali color senape e rosa, e dalla forma delle ali elegantissima con quegli apici affusolati. Molte sono le saturnie con quell’aspetto che, all’occhio esercitato, richiama immediatamente il continente d’origine: l’Asia. L’amico Piscopo ne ricevette due da un amico che le aveva reperite nei pressi della frazione Molina di Vallemosso, di primo mattino, giunte alla lampada che stava sopra alla porta. Gliele portò a scuola dentro ad una scatola di scarpe, come si usava allora per i trasporti di insetti tra amici, creando infiniti malumori in casa, con i genitori che le conservavano religiosamente per custodirvi, forse non a torto, le scarpe. Si narra che Piscopo, che già le aveva viste dal vivo anni prima e poi studiate sul suo “Martello”, la guida che ci ha insegnato buona parte di tutto ciò che sapevamo su farfalle e falene, trasalì alla vista delle due enormi creature che, vive ed attive, sbattevano le ali dentro quegli impropri contenitori. Le sbattevano a tal punto da aver perso gran parte della loro pelosità e delle loro scaglie, ma la silouette alare e il residuo disegno erano ancora sufficientemente chiari per non lasciar dubbi: si trattava della Philosamia cynthia. Emozionato, Piscopo le fece volare per un po’ nella cucina di casa godendosi il planare lento ed esotico di quegli aquiloni viventi.Negli anni, Piscopo mi ha raccontato questa storiella decine di volte e sempre rivivendo l’emozione del giovane naturalista che riceve il regalo più ambito. Mi disse anche che le aveva già viste qualche anno prima, alle scuole elementari, quando una compagna di classe di nome Donata ne portò un paio ad un tale Matteo creando, mi disse, quella invidia feroce che ogni appassionato prova alla vista dell’oggetto del desiderio che passa nelle mani di un altro. Dunque, dicevo che vidi le due falene in quella casa per la prima volta; erano ormai montate sugli spilli entomologici e, come per Piscopo anni prima nei confronti di quel tale Matteo, io provai invidia per tali enormi insetti tesaurizzati nelle sue teche.
Ne vidi una, viva, solo parecchi anni dopo. Ero a Vallemosso, lungo la strada che porta alla Rovella, l’alta collina che blocca il paese verso ovest e che è responsabile dei tramonti precoci e del buio che avvolge quel paese infilato nella stretta valle dello Strona, il torrente che, il 2 novembre 1968, esplose in una notte apocalittica trascinando con sé fabbriche e persone. Mi trovavo sopra il ponte. Qualcuno, nella banda di ragazzini che stava con me, non ricordo chi, mi indicò con il dito una enorme falena in volo, in pieno pomeriggio, a circa cinque metri dal suolo. La forma alare è così tipica da non confondere l’occhio addestrato: era lei, la cynthia. Attimi di tensione seguirono l’avvistamento, mentre la falena, calma e maestosa come nave che vele al vento si faccia trascinare verso chissadove, seguitava a planare dolcemente verso la Rovella. Mi misi a correre come un matto, cercando di stare sotto di lei in attesa di un errore che l’avrebbe spinta al suolo, verso di me. Non ricordo neppure se avevo l’inseparabile retino con me, ma credo proprio di sì. La falena volò e volò sinché, raggiunte le ripe boscose della collina che si elevavano progressivamente dal piano, decise di mantenere la sua distanza dal suolo semplicemente ascendendo sopra la cima delle piante, come una nave a vela che non incontri la minima difficoltà ad ascendere verso il cielo, un po’ come le filibuste di Capitan Uncino e Peter Pan. La storia finì lì quel giorno, con l’ambita Phylosamia cynthia che sparì poco dopo oltre il limite del visibile, sopra la mia testa. Altri anni passarono sinché un giorno la ritrovai, morta, a terra, a Paratico, sul Lago d’Iseo. Pare che in quella regione le fabbriche di seta fossero numerose nell’Ottocento. Negli ultimi anni, in una fitta boscaglia di ailanto nel Canavese, ne abbiamo trovato i bozzoli in forma di sigaro, grazie ad una foglia di ailanto avvolta intorno e fissata con robustissima seta ai rametti della pianta, perché non si stacchi durante il lungo inverno. Il filo di seta è così robusto che non si può quasi spezzare e avvolge tutto il rametto dal suo punto terminale, dove si trova il sigaro, al ramo più vicino. In questo modo, la falena si protegge dalla caduta dei rametti secchi e rimane ben fissata alla pianta. In primavera avanzata, dal sigaro uscirà una magnifica falena pronta a replicare il ciclo con una compagna di sesso opposto.
Un’altra di queste superbe saturnie capaci di produrre seta, anch’essa importata dal lontano Oriente alla metà dell’Ottocento, è Antheraea yamamai. Una grande falena elegantissima, dal colore giallo, arancio o rossastro e dai quattro grandi occhi gialli, con tanto di pupilla nera e palpebre rosse, stampati lì sulle quattro ali: una bestia stupenda! La yamamai popola i boschi di querce del confine italo-sloveno, comprese le selvagge valli slovenofone del fiume Natisone ed i villaggi come Topolò (o Topolove se ne rispettiamo la toponomastica slovena originale). Chi si occupa di musica di ricerca, di arti visive e di letteratura contemporanea di certo conosce il “non-festival” di Topolò. Da vent’anni, in questo piccolo e semiabbandonato villaggio, arrampicato sul costone italiano che porta, in mezzo ai boschi, verso il confine con la Slovenia, si tiene in luglio quello che il suo creatore e mio amico di gioventù Moreno Miorelli definisce, appunto, un “non-festival”. Lassù arrivano artisti da tutto il mondo per creare performances nel bel mezzo del paese, non, come in ogni festival, alle “ore 20” o “alle ore 21”, ma “al tramonto”, a “notte inoltrata”, “quando fa buio”, sino a “quando albeggia”. Questo singolare e mitico villaggio di Topolò vede sfilare, senza stress e senza competizione, la crema della ricerca artistica di oggi. Spesso, per forza di cose, si vive di improvvisazione a Topolò, e la creatività, anche in questo campo, non manca. Nel 2009, vi fondai, con Moreno, l’Officina Globale della Salute, la Globalna Delavnica Zdravja, una sorta di incubatore di scienza ed arte frammiste per avvicinare i due mondi spesso così distanti e non comunicanti tra di loro, quando ci sarebbe del guadagno per entrambi se solo scienziati e artisti si parlassero di più. Nell’ambito dell’Officina, c’è un progetto di censimento e di studio delle farfalle e falene di Topolò. Il simbolo che abbiamo scelto, indovinate un po’, è proprio la nostra magnifica yamamai. La povera creatura, come dicevo, vive nei boschetti di querce della valletta che circonda il borgo.Appare come una gradita visione alle luci del villaggio a luglio inoltrato e ad agosto, volando e volando all’impazzata sino a stordirsi, in silenzio, e precipitare al suolo. Qui, la poveretta trova gatti villani che, incontrollabili, ci giocano come si trattasse di un ninnolo gommoso riducendola in poltiglia. Quelle che non finiscono al suolo, spesso fanno la gioia dei pipistrelli locali, peraltro studiati abbondantemente da un musicista norvegese che ne ha registrato i suoni elaborandoli al computer. Nessuno però ha ancora studiato il grido di orrore della yamamai alla vista dei gatti villani o dei voraci pipistrelli di Topolò. Giuro che sono grida pazzesche. Ma prima o poi l’uomo scoprirà, grazie a chissà quale marchingegno elettronico o nuovo radar messo a punto da un artista-scienziato, cosa si urlano yamamai e pipistrelli nei loro volteggi fatali durante le notti estive di Topolò. In attesa di questa scoperta, il poeta può continuare a immaginare liberamente i sentimenti di questa falena asiatica approdata da noi un secolo e mezzo fa. Può, anche dedicarle, se lo vuole, qualche verso e qualche rima di buona qualità per cantarne quella cruda sorte che termina, devastata, tra le fauci di un chirottero.