La scrittura di Assia Djebar

26 Marzo 2015

... mais quel est donc cet exercice

sinon écrire dans le risque du déséquilibre
sinon aller et venir tout le long du vertige
sinon se donner l’air de fuir
désirer tout quitter

(Assia Djebar, Ces voix qui m’assiègent, 1999)


Rischiare lo squilibrio, andare e venire sul filo della vertigine, con il desiderio di fuggire, di sottrarsi a tutto. Un’ebbrezza dolce e implacabile di movimento. Come Isabelle Eberhardt, la fuggitiva, che, ricorda Djebar, “ha preceduto tutte noi” nel suo viaggio senza ritorno nello spazio e nella scrittura, nello spazio della scrittura. Lei che le dinamiche intricate di una vicenda familiare fuori dal comune hanno sottratto a ogni appartenenza, lanciandola nel vuoto. Sradicata per sempre. Messa al mondo da una separazione. La voce/scrittura di Assia Djebar, algerina e francofona, nasce da un’analoga, se pur biograficamente diversa, frattura, che le fa dire: “Scrivere è una strada da aprire”.


Scrittrice precocissima – i suoi primi quattro romanzi, La soif, Les impatients, Les enfants du nouveau monde, e Les alouettes naïves, li scrive di getto nell’arco di dieci anni, dal 1957 al 1967, poco più che ventenne –, passerà i dieci anni successivi in un silenzio/afasia, che solo a posteriori si rivela sofferta camera d’incubazione delle sue opere mature, ardita messa a nudo del legame tra vicende private e pubbliche, tra biografia e Storia. L’uscita da quella lunga notte della parola è, alla lettera, presa d’atto che non si diventa soggetti di discorso e di sguardo se non passando da quel corpo a corpo con la scrittura che è il racconto autobiografico, il porsi allo stesso tempo come narratori e narrati, due volte a nudo. Cessare di “appartarsi nella fiction” è infatti al tempo stesso rivelazione e svelamento, abbandono del velo che acceca e che pure protegge rendendo invisibili, liberazione e insieme esposizione di sé. L’ “io”, pronome impronunciabile non solo per le donne del mondo islamico, vertiginosa individuazione di sé nel mondo, è tuttavia anticamera di una possibile nuova afasia.


Dopo l’uscita di più d’uno dei suoi libri dichiaratamente autobiografici, Djebar scopre il desiderio di ricoprire la propria vita e se stessa di “un velo immenso, di una notte infinita”, la paura di “divenire donna pubblica”. Doppio tropismo che immediatamente si fa sintomo, esprimendosi in un nuovo e più complesso mutismo, in una vera e propria paralisi del corpo, in una sua “pietrificazione”. Nel dire di sé vi è infatti un triplice salto nel vuoto: da un lato la contrapposizione al silenzio imposto storicamente alle donne, vale a dire un’audace trasgressione della legge del padre; dall’altro il rinnegamento della legge materna, della sua silente e sacrificale economia; e, infine, l’uscita dallo schema che vuole le “donne parlanti” sempre e già alleate del padre, allineate al suo logos, emancipate grazie a lui, alla sua benevola concessione di entrare nel suo mondo.


Per farsi soggetto di parola – e di questo Djebar è teorica rigorosa – una donna non può che negare il modello della “madre”, l’immolata, la per sempre muta. Il “modello”, non la madre reale. Il suo, dunque, non sarà mai un semplice transito, un indolore passaggio di campo, dal femminile al maschile, poiché la sua voce porta in sé il silenzio delle altre donne, la loro sotterranea modalità comunicativa. Non tenerne conto, non prenderne atto, può precipitare, alternativamente, nel puro delirio o nella semplice assunzione del discorso maschile, per approdare a un’altra cancellazione, a una nuova e più sottile forma di silenzio.
Per una donna la presa di parola non può che nascere dal rumoroso silenzio delle altre donne, da una sua costante, amorosa interrogazione. Non da un taglio, da una rimozione, da uno smemorato allontanarsi da quell’o/scenità originaria, che marca il corpo e il ritmo del respiro, dando intermittenza alla vocalità femminile.

 

Di breve durata è, per l’autrice, la convinzione (o l’illusione) di potersi “collocare per miracolo sulla linea invisibile che qui [in Algeria] separa i sessi”, assumendo una posizione non da “voyeuse”, bensì da “androgino”. Perché è proprio nei “buchi di memoria, nella perdita di voce, nell’afasia materna”, che per una donna è possibile trovare la propria voce, la “sola cosa che resta”. “Un anno intero dentro quel tunnel, in quel silenzio bianco, la bambina dovette cancellare...,” scrive Djebar nel suo strepitoso Vasta è la prigione, ricostruendo le ragioni del lungo mutismo infantile della madre, “morta” alla parola quando l’amatissima sorella maggiore le viene sottratta all’improvviso da una malattia mortale. “Giorni di vertigine”, segnati dal lutto della parola e cancellati dalla memoria familiare. L’autrice, che di quel trauma e di quello straziante addestramento al vuoto, viene a sapere solo a distanza di anni, in una smagliatura del silenzio familiare che si è cristallizzato attorno all’episodio, annota che è stato proprio “quel dolore così antico” a imporle il suo “sforzo di anamnesi”.

 

So dunque, ne sono sicura, che per ogni donna costretta a morire in pieno sole, per ogni sacrificata, per ogni immolata, una bambina, una sola, perde la voce, per settimane o mesi, o ancora più a lungo, a volte per sempre.

 

Viso della bambina testimone che d’un tratto non ha più che il suo sguardo, che i suoi occhi in attesa per fronteggiarci.


“Bambina araba che va a scuola, la mano nella mano del padre”

Le pagine di Assia Djebar sono percorse da molteplici metafore, che legano indissolubilmente la scrittura al movimento libero del corpo nello spazio. Spazio pubblico e atmosferico insieme. “Esce, diceva la madre della figlia, perché legge”, così l’autrice sintetizza la sua uscita dallo spazio concluso della casa e dei ruoli previsti per le donne e l’ingresso nel mondo della cultura. A farle da guida, sottraendola alla costrizione delle mura domestiche e del velo, è il padre, insegnante di francese nella scuola locale. Sarà lui che, iniziandola allo studio e alla lingua del “dominatore”, la sottrarrà all’idioma materno, il berbero parlato che le donne si tramandano in una catena di oralità, e le permetterà di approdare alla scrittura. Perdere la lingua materna per trovare la propria voce.

 

Djebar fonda così una sorta di mito privato, che postula l’abbandono del “corpus” della madre per accasarsi nell’extra-territorialità di una lingua che, benché o proprio perché “altra” o “nemica”, è in grado di affrancare dalla gabbia della tradizione e dagli auto-divieti che ad essa si accompagnano. Il francese come lingua neutra, territorio dove compiere esplorazioni e praticare l’arte della distanza e dell’invenzione di sé. Se il berbero e l’arabo non reggono la nominazione in prima persona, l’intimità, l’“impudicizia” insita nel racconto del vissuto personale, forse il francese consente di arrivare a quell’ “io” individuale, “raro e pericoloso” nella lingua d’origine, proprio perché non è lingua degli affetti profondi, lingua-madre, lingua-carne legata alla memoria preverbale dei sensi. Perché l’autocensura è, sì, adeguamento a una regola culturale imposta dall’alto e da fuori, ma ancor prima impossibilità di affrancarsi da un linguaggio che non riesce a staccarsi dal corpo e che fluttua nella notte della preistoria personale senza sapersi dare forma.
Scrivo a forza di tacere.... Taccio, mi intestardisco a tacere, quasi a sotterrarmi vocalmente. Ed è proprio allora che la mia scrittura esce, sorge, scaturisce improvvisa o a tratti esplode. Esplode innanzitutto dentro di me.
Scrittura come traduzione, non tradimento, della voce. Testo che “conserva traccia delle voci”, che fa loro da benevolo “guardiano”.
Scrivo a forza di tacere. Scrivo per affrontare e lottare contro un doppio silenzio. Il mio, quello della mia persona... e un altro tipo di silenzio, più insidioso, il silenzio inscritto nella mia genealogia materna.... Scrivere in francese, per me, non è soltanto immergermi nella pasta di un’altra lingua, no, è piuttosto e innanzitutto uscire bruscamente da una penombra, per affrontare la luce.
Affinché la voce possa farsi scrittura bisogna lasciarsi inondare di cielo e abbandonare il corpo a un movimento non solo di fuga. La luce, sinonimo di voce. Scrivere è esporre/si alla vista. Esporre la propria voce è rivelare/si, sottrarsi al “non-detto”, quella “specie di bianco che si indovina tutt’attorno alle cose”. Risacca del suono arabo e, a volte, del berbero, che domina il lessico familiare e le memorie d’infanzia della scrittrice. Per scongiurare il “doppio rischio” dell’“interdizione del corpo femminile, della cancellazione”, o sepoltura, “delle voci femminili”, Djebar si mette a “scavare la propria strada personale costeggiando questi pericoli e di fronte a questo orizzonte multiplo e mobile da riconquistare!”


La stessa pratica della francofonia è definita dall’autrice “un cammino da tracciare, da inventare, attraverso i rischi collettivi e mantenendo la mia esigenza di rigore o, per dirla altrimenti, il mio bisogno di architettura”.
Perché scrivere è insieme “avventura” e “architettura”, immersione nello spazio/tempo individuale e collettivo, esplorazione delle archeologie personali, ma anche lavoro di scavo e di costruzione en plein air.
Un atto supremo di libertà e di rischio.


Dall’utilizzo della lingua francese come velo alla sua sparizione

Riferendosi ai suoi primi quattro romanzi, i romanzi dei suoi vent’anni, l’autrice a distanza di tempo confessa:

Ho utilizzato la lingua francese come velo. Velo sulla mia persona, velo sul mio corpo di donna: potrei quasi dire velo sulla mia stessa voce....

Cosciente della curiosità in qualche modo extra-letteraria che i suoi scritti potevano suscitare, Djebar ha scelto di nascondersi negli “incavi, nei pieni e nelle filettature” del francese scritto – usando la lingua come paravento e insieme come strumento di seduzione. Non a caso, quell’esporsi mettendosi al riparo di una lingua “esotica” e “altra” e della forma-fiction viene paragonato al movimento dell’elegante silhouette della madre, una signora di città, che percorre le strade del paese d’origine mostrandosi agli sguardi dei contadini locali come da una sorta di fuori campo: attraente e estranea, al di sopra di ogni giudizio.


Questa “ambiguità”, come si è visto, l’autrice la paga con un lungo “mutismo” volontario, un’improvvisa afasia.

Come se tentassi, impietrita dentro quel velo di seta evocato simbolicamente, di uscire dalla lingua francese senza tuttavia abbandonarla.

In quei dieci anni di silenzio, Djebar fa tuttavia il giro del suo “territorio” e elabora la sua “estetica”: da lì in avanti la sua scrittura si giocherà nel rapporto oscuro tra il “dover dire” e il “non poter dire”, tra volontà di “conservare le tracce” e “impossibilità di dire” o “consegna del silenzio”.

Il silenzio mi si impone dunque spesso come materia di partenza: le parole da cercare, da trovare, da abbozzare vengono a collocarsi... attorno a un bastione interiore di mutismo... a rischio persino di essere costretta a ricadere in un vuoto della scrittura, in una cancellazione.

L’estetica a cui la scrittrice approda è lo spazio di una donna che inscrive via via nei suoi testi il “dentro” e il “fuori” e che, audacemente in bilico tra intimità e svelamento, mostra allo stesso tempo il proprio “ancoraggio” e la propria “navigazione”. La scrittura in francese, che avrebbe potuto marcare storicamente un’extra-territorialità, si trasforma a poco a poco “nell’unico vero territorio” abitabile.


Riconoscendosi come “semplice migrante”, la “denominazione più bella” riferita alle donne dell’islam, Djebar conia il concetto di “ex-territorialità”, saldando la dimensione geografica con quella storica, l’asse spaziale con quello temporale. Scrivere non semplicemente da un fuori, ma da un nuovo dentro. Il francese, lingua “venuta da altrove”, non è più schermo protettivo, bensì arma di affermazione di sé. Messa in primo piano, la persona-individuo della scrittrice diventa una specie di “mostro”, di stupefacente e perturbante oggetto da cui non si riesce a distogliere lo sguardo, laddove le altre donne sono ogni giorno di più “immobilizzate, infagottate, sepolte sotto strati e strati di abiti o sotto un sudario, trasformate in fantasmi”.


Da un lato l’asfissia dei corpi, la cui unica “traslazione” possibile è il canto, il lamento, la voce che si fa pianto o urlo. Dall’altro la loro mise en espace attraverso una scrittura de-territorializzata e capace di riappropriarsi dello sguardo, di mettere a tema la questione del suo ribaltamento. “Oscurato” o sovraesposto, il corpo femminile è comunque condannato a una sorta di amnesia, fintanto che non si sottrae a quella duplice negazione e non si pone come sguardo attivo su di sé e sul mondo.
D’un tratto la donna algerina – mia parente, mia simile, mio doppio – la donna algerina ha deciso di “non rimanere più in silenzio”. Di guardarsi. Di dipingersi, da sé e per se stessa. Di parlare di sé e per se stessa.

In breve di scrivere.

A distanza di anni, nel corso del 2003, Djebar dà vita a un nuovo romanzo fortemente autobiografico, La disparition de la langue française. A tema c’è ora l’altra faccia della sua familiarità/estraneità rispetto alla lingua in cui scrive: l’impossibilità di farla diventare strumento del proprio personale discorso amoroso, codice intimo, lessico delle emozioni e dell’erotismo.


“L’algerino Berkane – racconta con scrittura febbrile l’autrice –, dopo vent’anni di volontario esilio dalla sua terra e dalla sua lingua, decide d’un tratto di lasciare Parigi e di tornare “a casa””. È il 1991, e sull’Algeria si stanno addensando le ombre dell’integralismo politico e religioso. A spingerlo è un impulso, un richiamo dei sensi, il desiderio di fare ritorno alla lingua materna (la langue de la mère) e al silenzio del mare (le silence de la mer) che lambisce Algeri, di ritrovare se stesso nei luoghi che lo hanno visto bambino e adolescente. Viaggio iniziatico a ritroso e straordinario, sconvolgente, romanzo d’amore e passione, La disparition de la langue française postula un legame indissolubile e necessario tra nostalgia e scrittura, distanza/assenza e memoria tattile dei suoni e delle parole dell’altrove, desiderio e narrazione.


Ad Algeri, dove Berkane incontrerà Nadjia, l’amante/sorella/sposa/figlia/gemella che farà riaffiorare in lui le “parole-fiore” dell’arabo, lingua intessuta di tenerezza e sensualità, poco adatta ai rigori verbali del nuovo corso politico, il passato si ripresenta con la violenza del rimosso, di ciò che non si lascia cancellare. Trasformatosi in “piccolo scriba solitario”, che attraverso le parole cerca di curare le proprie ferite, la collera e la sensazione di essere perennemente in perdita di chi ha scelto o è stato costretto a lasciare la propria terra, Berkane dà voce al trauma di un intero popolo, a un dolore che rischia di togliere la voce o di convertirsi in delirio.


“Scrivere per sé” in un paese che è divenuto un vulcano, scrivere per sentire la voce della persona amata, scrivere per riuscire ad amarsi almeno un po’. Ed ecco che il francese, lingua d’esilio, si trasfigura per Berkane in obliqua lingua della memoria. Una recherche che, sottraendolo all’amnesia, lo precipita in un presente tempestoso che, forse, lo perderà. Scritto come in sogno, nel chiaroscuro del ricordo e del desiderio, La disparition de la langue française – romanzo sapientemente “interrotto”, come accade appunto ai sogni più laceranti – sembra chiudere un arco. La scrittura, nata come separazione dalla lingua materna, ad essa tende come a quel luogo d’origine dove corpo e voce sono una sola cosa. Indivisi, rappacificati.


“Una donna che parla mentre l’altra la guarda con piacere”

“L’ancoraggio della scrittura femminile,” ha scritto Djebar, “è nel corpo”. Ecco perché scrivere è, per le donne, un’attività a rischio, polarizzata tra aurorale promessa di nascita e “pericolo, se non di morte, di sparizione”. Per difendersi da questa minaccia costante, l’ “io” autoriale femminile ha bisogno di una rete solidale, di farsi porta-voce o porta-memoria di una comunità allargata, di riflettersi nello sguardo/esperienza dell’altra.

Scrivendo Ombra sultana, - racconta l’autrice - ho cercato di mettermi al posto di una donna che è stata educata a non pronunciare il nome del proprio marito, di entrare nella sua vergogna, di guardarla da dentro e insieme da fuori. Per farlo ho attinto ai miei ricordi d’infanzia, ricavandone un piacere di scrittura assoluto. Un piacere che non so spiegare se non dicendo che la “soluzione” narrativa di questo testo mi è venuta quando ho capito che non bastava dire “io”, che bisognava trovare con precisione il “tu” a cui rivolgersi, quel secondo personaggio femminile che entrando in risonanza e in dialogo con il primo permette a entrambi di esistere e di liberarsi: una donna che parla mentre l’altra la guarda con piacere.
Scrittura-dialogo e scrittura-specchio, senza tentazioni narcisistiche. Io e tu, insieme. Noi.


In un altro testo, che sfugge a ogni definizione di genere, Bianco d’Algeria, l’autrice annota:

…sostituire alla patria-Algeria la patria-mondo, voltare le spalle alla terra natia, alla nascita, all’origine. Scoprire la terra intera, gli altri paesi, le molteplici storie. Semplicemente riabito altrove, mi circondo d’altrove e palpito ancora. E ho desideri di danza. Rido già. Piango anche, subito dopo, turbata di constatare che torno a ridere. Insomma, sto guarendo! A modo mio, dimentico. Dimentico il sangue, e dimentico gli assassini.... Volgo lo sguardo: il paesaggio s’allarga, si moltiplica.... E ritroverò compagne amiche, sorelle scomparse.... La loro forza; la loro allegria; la loro presenza che colma l’assenza. Vicinissime a me, si accostano.


Soprattutto grazie a loro, voglio continuare a scrivere per riempirmi gli occhi di cielo: l’Algeria, astro sfolgorante, o morto che sia, non è tutto il firmamento!... Continuare? Dirò, come uno dei personaggi di Beckett: “Continuo... Non posso continuare. Continuo perché non posso continuare”.

Se lo sguardo del lettore di sesso maschile sull’opera autobiografica paralizza, pietrifica, spingendo l’autrice a confessare la sua fantasia di auto-sotterramento – “je croyais m’emmurer” –, lo sguardo femminile è condivisione, legame, autorizzazione. È nel rapporto concreto o fantasticato con le altre, nell’ascoltarle e nel ricreare narrando di sé la loro voce, che diventa possibile “dimenticare questo spazio notturno, restare per sempre all’aperto, al sole”. Altrimenti scrivere è come “mettersi con le proprie mani sulla tavola anatomica, consegnarsi all’autopsia” e uscire dalla “tomba-scrittura”, ritrovarsi in piena luce, esposta, accecata, “una catastrofe”.

 


Errante, esiliata, fuggitiva: scrittura in movimento, tra volo e caduta

Luce/buio, giorno/notte, dentro/fuori, aperto/chiuso, cielo/interramento, azzurro/bianco (il bianco luttuoso del sudario), sole/oscurità, volo/caduta, libertà/prigionia, voce/silenzio, movimento/pietrificazione. Tra queste e infinite altre polarizzazioni spaziali si muove il ragionamento di Djebar, sulla scrittura e insieme sul destino comune delle donne.


Nell’estate del 1975, “trascorsa a circolare sui monti della tribù materna”, scrive l’autrice, impegnata allora a girare il suo primo film, La Nouba des femmes du mont Chenoua, “mi accorsi che filmare non è semplicemente guardare; bensì apprendere le parole nello spazio e di tanto in tanto lanciarle fuori, perché non siano più ‘parole interiori’, che vi annodano, vi invadono e vi legano, ma uccelli di cui guardare all’infinito il volo”. La scrittura stessa è un “uccello di passaggio”, che il lettore, per fare luce sul testo, avrà bisogno di “imprigionare”. Chi scrive fluttua tra “spaesamento” e “polverizzazione” e, nel tentare di tenersi in equilibrio tra questi due estremi, per evitare la “caduta” e la “derelizione”, pratica l’arte sottile del volo, che è movimento e insieme “messa in mobilità” del testo.


Scrivere - è infatti - ritorno al corpo, o almeno al movimento della mano. Voltare le spalle alle belle addormentate che stanno invano di guardia sulla soglia. Dimenticare i giardini chiusi, i cortili ciechi che si aprono su un cielo immobile e tenace.... Anamnesi? No, piuttosto spinta in avanti e, mentre la mano comincia a correre sul foglio, i piedi si agitano, il corpo prende slancio, soprattutto gli occhi, gli occhi si fissano sull’orizzonte cercato, trovato, che scivola lontano, che quasi affonda.... Non conta che il primo chiarore, che la luce, che il sole persistente fino al cuore della notte.

 

Inventare - attraverso la scrittura - l’ossigeno da liberare, lo spazio nuovo da aprire, la navigazione né folle né selvaggia, soltanto sicura.... Scrittura non di fuga, bensì di sopravvivenza, sul filo dell’abisso. Un’avanzata lenta o precipitosa, ma sempre in avanti.

Scrivere o correre. Scrivere per correre. Correre e ricordare. Avanti e indietro, contro la stagnazione che interviene ogni volta che si affonda nelle tenebre del mutismo.

A conti fatti - dirà Assia Djebar nel discorso pronunciato durante la cerimonia di conferimento del “Premio per la pace” nell’anno 2000 - dovrei presentarmi davanti a voi con le mie assenze, i miei silenzi, le mie reticenze, i miei rifiuti antichi o recenti che non sempre capisco, almeno sul momento; aggiungerei anche con le mie fughe (perché ho veramente bisogno dello spazio per scrivere); direi dunque piuttosto con i miei esili!
Conosco una sola regola, appresa e fattamisi chiara, certo a poco a poco, in solitudine e lontano dalle cappelle letterarie: non praticare se non una scrittura della necessità.
Una scrittura di erosione, di smottamento nel buio e nell’oscurità! Una scrittura “contro”: il “contro” dell’opposizione, della rivolta, talora muta, che ti fa tremare e attraversa tutto il tuo essere. Contro, ma anche il suo contrario, vale a dire una scrittura dell’avvicinamento, dell’ascolto, del bisogno di essere vicini a …, di dare perimetro a un calore umano, a una solidarietà, bisogno senza dubbio utopico, poiché vengo da una società dove i rapporti tra uomini e donne, al di fuori dei legami familiari, sono di una durezza, di un’asprezza che lasciano senza voce!
All’inizio, al primo e precoce manifestarsi della mia attività di scrittrice, fu il disegnarsi di uno spazio, l’aprirsi improvviso di un orizzonte, un’occasione inaspettata.
È chiaro in effetti che non sarei mai stata una scrittrice se, a dieci o undici anni, non fossi potuta andare alle superiori; questo piccolo miracolo fu opera di mio padre, insegnante, uomo della rottura e della modernità rispetto al conformismo musulmano che, quasi immancabilmente, mi avrebbe destinata alla reclusione delle ragazzine in età da marito.
Né, cinque o sei anni più tardi, mi sarei dedicata con ardore alla letteratura (e la cosa può sorprendere) se non mi fosse piaciuto camminare per le strade della città come una persona tra le altre, una passante, una voyeuse, un maschio mancato e, ancora oggi, come una donna che va semplicemente a spasso. Quella del muoversi, dello spostarsi, è per me la prima delle libertà, la possibilità sorprendente di disporre di sé per andare e venire, dal dentro al fuori, dal luogo privato ai luoghi pubblici e viceversa…. Per un’adolescente, oggi, qui in Europa, è una cosa da nulla. Per me, agli inizi degli anni Cinquanta, fu un lusso incredibile….
Che cosa c’entra il camminare all’aperto, direte voi, con le parole dei romanzi, con lo slancio che è dell’immaginazione e di tutta la finzione? Ma qui si tratta del movimento del corpo femminile: lì passa la linea più acuta della trasgressione quando una società, in nome di una tradizione tradita e piombata, tenta e talora riesce, persino oggi, a incarcerare le sue donne, vale a dire la metà di se stessa.
Scrivere per me, senza dimenticare questo orizzonte nero, è innanzitutto ricreare nella lingua che abito il movimento incontenibile del “corpo all’aperto”, direi quasi il suo volo.
All’epoca del Maghreb coloniale le mie cugine, le mie parenti prossime si ritrovavano recluse a partire dalla pubertà fin quasi alle soglie della vecchiaia. Nascondere le proprie donne allo sguardo, al contatto e all’influenza degli stranieri (stranieri, perché non musulmani), ciò che forse era parso una strategia di salvaguardia identitaria nell’Algeria del XIX secolo, era divenuto un’oppressione quasi senza incrinature sul genere femminile.
Per me, dunque, il desiderio delle parole da scrivere, da lanciare agli altri o semplicemente al cielo, nasce dai piedi, dalle gambe e dal mio sguardo libero, posato sugli altri…. Lì senza dubbio, nella mia persona, vengono vendicate tutte coloro che mi hanno preceduta, le ave recluse a dodici anni, poi maritate, soffocate di languore, di rancore, nell’ombra dei patio.


Lo spazio illimitato può chiudersi su di te

Di libertà e erranza, tuttavia, le donne possono morire. È il contro-testo che percorre, sottotraccia, molte delle opere di Assia Djebar. La tentazione del vuoto – vuoto in cui perdersi, annullarsi, svanire – segna il personaggio di Thelja/Neve, la donna “sospesa”, “l’errante”, di Le notti di Strasburgo, che, nella chiusa del romanzo, scompare in un arcano vortice d’azzurro. Attirata verso il basso, lei che pure ha praticato l’arte delle separazioni, del “passaggio” irrequieto da un luogo all’altro, per difendersi, forse, dal ricatto d’amore. Il suo “andare sempre avanti”, “partire” perché il “rimanere” è tomba che rischia di chiudersi su di te, da esperienza euforizzante e leggera si converte in ubriacatura senza ritorno di spazio, in salto nel vuoto.

Allora, poco prima dell’alba, inizierò a salire, lungo la facciata a meridione, fino al campanile; comincerò a temere le vertigini quando prendendo fiato, entrerò nella spirale della torre ortogonale di maître Ulrich, poi all’interno della guglia di maître Jean Hulz e, infine – giunta all’ultimo gradino della scala a chiocciola della lanterna – affronterò il primo vento dell’aurora, immobile in pieno cielo, in cima alla cuspide di luce, immenso dito che si erge sul più alto tetto d’Europa.
Non riscenderò: dopo la notte e poco prima del giorno, il vuoto regna lassù; in piedi, un grido nell’azzurro immenso….

O Josie Fanon, che attraversa silenziosamente le pagine di Bianco d’Algeria, racchiusa in un’epigrafe scarna e terribile.

Dando le spalle alla sua casa, alla sua vita, Josie Fanon prese lo slancio, e si gettò dal quinto piano.
13 luglio 1989; El-Biar, sulle alture di Algeri. Un venerdì.
Cadendo, Josie non ferì nessuno: solo lei esplose.

O ancora Albertine Sarrazin, autrice di un fortunato romanzo degli anni Sessanta, L’astragalo, morta appena ventisettenne per i postumi di un altro ‘volo’. Attorno alla sua figura Djebar pensa da tempo di costruire un romanzo, che potrebbe intitolarsi Celle qui s’envole par la fenêtre...
L’incipit, appena abbozzato, allude a una “fuga senza fine, cui fa da sfondo Algeri, città-vertigine, città in bilico...”.

Volta le spalle, la ragazzina. Attraversa correndo il giardino, svolta sul sentiero, si precipita all’angolo del viale: corre, fugge, corre senza fermarsi verso il cuore della città bianca, nera, che importa, città di precipizi nascosti, di sconvolgimenti a venire, dello squilibrio....
Finirai inevitabilmente per prendere coscienza dell’evidenza: che tu mancavi all’Algeria, come l’Algeria mancava a te.

E Hajila, la con-moglie bambina di Ombra sultana, la quale, senza che il marito lo sappia, fa tirocinio di libertà vagando, sola e senza velo, per le strade di Algeri assediate di uomini, spinta da “una fame di vento, di paesaggi”.

Appena sei fuori, all’esterno… ti decidi con violenza: ‘togliere il velo!’ Come se volessi sparire… o esplodere!

O, ancora, la “donna che piange” di Donne d’Algeri nei loro appartamenti:
A quei tempi camminavo, camminavo, camminavo in continuazione per le strade di Algeri con la sensazione che la faccia stesse per cadermi nelle mani, che ne dovessi raccattare i pezzi per terra, che il dolore colasse da ogni tratto della mia fisionomia, che….

 

…una città (Algeri, nda) adatta a camminate del genere con il suo spazio basculante, le strade in parziale equilibrio che diventano complici quando ti prende il desiderio di buttarti giù a precipizio… l’azzurro dappertutto.

O le donne algerine che la guerra di liberazione “ammette nello spazio pubblico” trasformandole in “portatrici di bombe” e di morte, quando ancora non sanno sperare in una “liberazione concreta e quotidiana”.
In Bianco d’Algeria c’è, però, una frase chiave che l’autrice sceglie di pronunciare in prima persona:
Da allora mi abituai a vivere in un continuo andirivieni, rassegnata a stare nel mezzo, fra due vite, fra due libertà, quella di sprofondare indietro e quella di precipitarmi in avanti, scoprendo, ogni volta, un nuovo orizzonte!…”

Sprofondare all’indietro, se bilanciato da un moto in avanti, da un “ritorno”, può dunque essere una forma di libertà? Come mai? Per quale via arriva, l’autrice, a una riconciliazione all’apparenza così paradossale? Chi le ha aperto la strada verso uno “stato” di mobilità, che è mettere radici nell’andare, salvandola tanto dalla sfida costante del volo/fuga quanto dal rischio della caduta/esplosione? Chi l’ha educata a vivere “tra”, rassegnata a abitare nel movimento, esperta in scienza degli addii?


È uno dei temi portanti della ricerca storiografica e dell’opera narrativa di Djebar: rinvenire, dietro le omissioni e le reticenze del racconto familiare e del discorso pubblico, quelle tracce di ex-sistenza delle donne, che possono costituire una sorta di genealogia, di contro-storia.
Gli esempi, nelle sue pagine, sono numerosi.

Tin Hinan, l’antenata dei nobili Tuareg di Hoggar, principessa fuggitiva che avanzò fino al cuore del deserto dei deserti!

Zoraide, l’Algerina del Don Chisciotte, che, “liberando lo schiavo-eroe dei bagni penali di Algeri, si libera lei stessa dal padre che le ha dato tutto, tranne la libertà, quel padre che abbandonerà sulla riva dell’Africa e dal quale verrà maledetta per il suo tradimento”. Zoraide che “cambia uno spazio limitato (la casa più ricca di Algeri dove era regina), per un altrove illimitato ma incerto”. La stessa madre della scrittrice, “che non si velava più né il viso né il corpo, lei che aveva percorso la Francia in tutti i sensi per visitare le sue prigioni” alla ricerca del figlio. O la nonna materna che, giovane sposa e precoce vedova, sceglie di voltare le spalle alla casa cittadina del padre (pronta ad accoglierla e a chiudersi su di lei) e di rimanere tra le sue montagne, che le mancano, dove desidera vivere.
E di sé, nelle luminose pagine di Vasta è la prigione, Djebar scrive:
Fuggitiva e senza saperlo; o non ancora. Per lo meno fino all’istante preciso in cui riferisco questo andare e venire di donne in fuga in un passato lontano o recente.... L’istante in cui prendo coscienza della mia condizione permanente di fuggitiva – aggiungerei persino: di radicata nella fuga – proprio perché scrivo e affinché io scriva.
Scrivo nell’ombra della madre tornata dai suoi viaggi del tempo di guerra, io, continuando i miei in questa pace oscura fatta di sorda guerra interiore, di divisioni interne, di disordini e di sommovimento della mia terra natale.
Scrivo per aprirmi il mio cammino segreto, e nella lingua dei corsari francesi che, nel racconto del Prigioniero, spogliarono Zoraide della sua veste diamantata, sì, nella lingua detta ‘straniera’ che diventa sempre più transfuga. Come Zoraide, la deprivata. Poiché ho perso come lei la mia ricchezza di partenza, nel mio caso quella dell’eredità materna, e ho guadagnato cosa, se non la semplice mobilità del corpo denudato, se non la libertà.

 

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