Dalla parte di Eros / Massimo Recalcati, Esiste il rapporto sessuale?
L’ultimo libro di Massimo Recalcati, Esiste il rapporto sessuale?, solleva questa strana domanda che nessuno ovviamente si fa, a meno che non sia uno psicoanalista lacaniano. Ma si tratta di una domanda, appunto. Mette in questione, con un punto interrogativo, quella che in Jacques Lacan, che di Recalcati è il maestro indiretto, anche se sempre più liberamente riletto e rivissuto, era invece una tesi lapidaria, una tesi di segno tutto negativo. Secondo Lacan, citiamo uno dei suoi più celebri aforismi, “non esiste rapporto sessuale”.
La sentenza significa grosso modo che gli esseri umani senz’altro vanno a letto tra loro, e magari così spesso che la specie al momento non risulta estinta, ma quell’atto così intimo resta sempre problematico, attesta sempre in ultima analisi una qualche estraneità, un qualche fallimento, una qualche radicale differenza di prospettiva su quel che si è appena consumato. I corpi, loro sì, hanno un qualche rapporto, ma non i soggetti. In particolare, non quei soggetti animati da domande così diverse, da funzionamenti così poco sovrapponibili, come quei soggetti che chiamiamo maschili e femminili. Il che del resto non significa: quei soggetti che sono gli uomini e le donne. Ovviamente, un tratto femminile può esserci in un uomo, e un tratto maschile in una donna.
Lacan è abbastanza cinico, come si sa. Cioè, per prendere l’aggettivo alla lettera, come del resto si deve fare, se si guarda alla storia della filosofia e all’inventore del cinismo, Diogene di Sinope, descrive la vita umana come una vita da cani. Coerentemente col suo cinismo, Lacan afferma che non c’è rapporto se non dei corpi, e che i soggetti restano largamente estranei a quel rapporto tra corpi, avvertono cose imparagonabili a partire da uno stesso evento sessuale. Recalcati invece è abbastanza romantico, e oppone a Lacan che invece sì, il rapporto sessuale esiste. O meglio, esiste l’amore. Cosa che a dire il vero anche Lacan dice, ma senza assegnarle la stessa centralità. Ogni amore finisce in merda, recita, a scanso di equivoci, un altro celebre aforisma lacaniano. Esiste invece l’amore, secondo il Lacan di Recalcati, cioè quella specie di raffinatissimo, etereo merletto simbolico, che si posa sulla ferita dell’assenza di rapporto sessuale come una garza, e che come capita alle garze si impregna di sangue, e secca insieme al sangue e al tessuto più superficiale della ferita, indurendosi in una crosta che nessuno più osa toccare, e che guida in un suo modo doloroso ma duraturo la carne a tenersi insieme lungo quell’esile trama di cotone un tempo bianco.
Che Recalcati sia romantico non significa del resto che sia un sognatore. Significa che la sua posizione va a sua volta letta dentro a una storia precisa e intesa all’interno di quella storia. Il romanticismo in altri termini è figlio di Kant. È il movimento che esprime in letteratura le estreme conseguenze dell’intuizione filosofica del vecchio maestro di Königsberg. La teoria dell’amore elaborata dal romanticismo tedesco è un tentativo di dare qualche trattamento al dilemma che Kant aveva messo al centro della sua lettura dell’esperienza umana. Ora l’assioma da cui deriva tutta la prima grande opera di Kant, la Critica della ragion pura, afferma guarda caso che non c’è rapporto con le cose stesse, che l’esperienza umana non accede all’essere. Conosciamo solo i fenomeni, recita giustamente ogni versione manualistica del kantismo. Conosciamo solo i segni delle cose, le apparizioni delle cose, non l’essere delle cose, non il loro segreto. Ci muoviamo in una foresta di segni, scontando ad ogni passo la nostra strutturale separatezza da quell’essere di cui i segni sono segni.
È dal più profondo di questa divisione che si spalanca nella stoffa dell’universo, che lo stesso Kant deve tentare una qualche cucitura, deve chiedersi che cosa consenta un qualche accordo tra il nostro vagare nella foresta dei segni, e quell’enigma di cui i segni sono segni. È l’oggetto dell’altro suo capolavoro, la Critica del giudizio, che tenta disperatamente di isolare un sentimento di parentela tra le cose, tra gli esseri, tra gli umani e l’universo. La Critica del giudizio tenta disperatamente di auscultare l’eco lontanissima di un’affinità, pur senza venir meno all’assunto della Critica della ragion pura, l’assunto secondo cui le cose stesse ci sono precluse. Quel sentimento di affinità è il varco attraverso cui i romantici faranno irruzione, di fatto precipitandosi nella direzione indicata inopinatamente dall’austero, ossessivissimo Kant. L’amore tra i soggetti è un’eco e forse un luogo di manifestazione di quell’affinità più generale tra i soggetti e la natura.
A scorrere quel magnifico repertorio che è il libro di Jacques Le Brun Le pur amour de Platon à Lacan (Seuil, Paris 2002), verrebbe da concludere che più dualista è un’ontologia, come dicono i filosofi, cioè un’immagine di quello che l’essere sarebbe in ultima analisi, e più centrale diventa la sua esigenza di postulare una potenza che ricuce quanto si è presupposto brutalmente separato e incomunicante. Più monista è un’ontologia, invece, e più marginale diventa l’esigenza di postulare quella potenza che ricuce, perché le cose stanno insieme già da sole, perché non ci sono profondi fossati da attraversare, perché non ci sono esseri davvero estranei gli uni agli altri. I grandi poeti romantici tedeschi sono appunto i figli di questa kantiana estraneità dell’umano e di questa soluzione amorosa alla kantiana estraneità strutturale dell’umano. Ma appunto la tesi potrebbe essere generalizzata.
Platone è dualista a sua volta, è anzi il padre di tutti i dualismi. Certo, lo è al modo degli antichi. Non pensa che il soggetto umano sia separato dalla natura o dalle cose o dall’universo. Pensa semmai che le cose siano separate dai loro modelli, che tutto l’universo sia lontano dai suoi principi, che tutta la materia sia estranea al suo fondamento. Ma anche Platone si trova a dover postulare una potenza che unisce sulla base del suo aver diviso. Anche Platone si trova a dover postulare la garanzia inaudita di un’affinità tra cose che ha postulato come estranee.
Altrimenti la sua ontologia divisa rischia di restare condannata a quella divisione inesorabile. Ecco comparire sulla scena occidentale il primo amore filosofico. Certo Platone fa di eros una potenza non umana ma divina, e un collante che non riguarda tanto i soggetti quanto la memoria che gli umani come i non umani hanno dei principi da cui discendono, e forse del principio da cui discendono tutti i principi. Ma appunto, anche o soprattutto l’Ur-dualismo di tutti i dualismi si ritrova a dover formulare l’Ur-amore di tutti gli amori.
È interessante rilevare, guardando nel suo insieme questa storia di lunghissimo periodo, certe consonanze che si direbbero, del resto, più simili a degli effetti di struttura che a delle reminiscenze o derivazioni. Non appena evocato l’amore, Platone posa sulle sue fragili spalle il compito immane di mediare tra la materia e la forma. Cioè di mediare tra una specie di distesa abbandonata, infinitamente passiva, dissennatamente incomprensibile, dotata di una creatività impenetrabile ed enigmatica, e dico impenetrabile senza ombra di lapsus o con un lapsus che va assunto fino in fondo, e un principio di unità, un fondamento compatto, dal profilo nitido, dallo statuto eminentemente attivo. Una specie di impronta o di marchio, un’idea o un tipo, anche nel senso tipografico del tipo, nel senso di una marchiatura che mette in forma, delinea, coagula, dà significato, e in ultima analisi salva, offre salvezza, tenuta, ancoraggio.
Va da sé, la materia si definisce a questo punto e inevitabilmente come qualcosa che è prossimo al non essere, materia vacua e quasi nulla, instabile e inafferrabile, intanto che si caratterizza anche come “uterina”, “generatrice”, “nutrice”. Tutti aggettivi che Platone spende per la sua materia, che guarda caso ha le stesse caratteristiche che il sapere anatomico dell’epoca attribuisce all’utero, in greco hysteros, da cui il termine moderno isteria. Organo erratico, privo di un luogo stabilmente assegnato all’interno del corpo, capace di spostarsi e di inquietare l’ordine stabilito, specie di antiprincipio caotico, il cui portato rispetto all’organizzazione dell’organismo è una periodica disorganizzazione della sintassi organica.
Ma, guarda caso, esattamente lo stesso accade con Lacan. In Lacan l’amore media tra due strutture, tra due schemi di funzionamento soggettivo, che mostrano anche a colpo d’occhio, sebbene lo psicoanalista francese li prenda nella loro denominazione dalla psicopatologia freudiana e prima ancora propria della psichiatria dell’Ottocento, il loro profondo e inossidabile platonismo. Da un lato l’isteria, la sua instabilità, la sua irritabilità instancabile, la sua materialità quasi folle, tendenzialmente refrattaria al significante, tanto sedotta dalla sua azione quanto provocatoria e in ultima analisi accusatoria di fronte alle tronfie ingenuità di quell’azione. Dall’altro l’ossessività, che è quanto dire la fede nel significante, l’ingenuità della forma che pretende di governare la distesa della materia e perciò ne sperimenta di continuo l’insopportabile vaghezza, l’essere sempre altrove, l’essere altra, l’alterarsi, e l’alterare anche l’ossessività dell’ossessivo, che meno di tutto vorrebbe essere alterato o alterarsi.
È per unire, o per tentare di unire questi due esseri o queste due forme dell’essere, che Platone e Lacan, e anche il Lacan di Recalcati, convocano concordemente eros, l’amore. Eros, l’amore, non può non essere convocato, del resto, una volta che il punto di vista della forma, come rincantucciatosi tutto in un angolo e concentratosi tutto in un punto densissimo, avrà registrato davanti a sé quella dovrà apparirgli come la distesa vaga e illimitata della materia, il paesaggio instabile e disorientante di un essere tanto seducente quanto selvaggio. Ripeto, non stiamo dicendo che c’è la forma e c’è la materia, che c’è l’ossessività e che c’è l’isteria, ma che più la forma si separa dalla materia e si pone come punto di vista sulla materia, più la forma crederà di essere forma pura, e più la materia gli sembrerà materia pura, materialità informe, vaghezza caotica, vitalità inafferrabile. La psicopatologia lacaniana è l’ontologia di Platone, tolta dal cosmo e riassegnata al luogo e alle vicende del soggetto.
E poi stiamo dicendo un’altra cosa. Che noi viviamo in un tempo in cui il platonismo ha deposto la virulenza del suo dualismo. Non disponiamo più dell’evidenza di una madre-materia, di un principio isterico, caosmotico, e per questo vivo e creativo e contrapposto all’ordine e alla sua mummificata stabilità architettonica. Non disponiamo più dell’evidenza di un dio garante formale dei segni, di un codice che garantisca l’ordine tra i segni, di un sapere capace di stringere in una rete regolare e riconoscibile le fibre altrimenti sfilacciate di un universo brulicante e riottoso. Viviamo in un tempo in cui anche Kant è diventato un minore. In nessun modo avvertiamo che l’esperienza sia separata dalle cose, che disponiamo di puri segni che ci lasciano a desiderare cose inafferrabili. Avvertiamo semmai che anche noi siamo cose tra altre cose, che nulla separa davvero l’umano dall’inumano, che il soggetto trascendentale è tutto disseminato nella distesa dell’empirico, che il luogo astratto che detiene le leggi della morale o della natura è venuto a coincidere immediatamente o quasi immediatamente coi fenomeni della natura e coi fenomeni della morale.
Questa distanza di cui dicevamo, questa trascendenza, come si chiama in filosofia, non è più avvertibile. E senza quella distanza, l’amore non assume i contorni dell’esigenza, non è. Questo non per il motivo generico che non c’è distanza da ricucire tra gli esseri, ma per il motivo specifico che se non c’è distanza, quella distanza non può assumere la forma della distanza tra l’isteria e l’ossessione, o tra una materialità quasi vuota e un formalismo sempre troppo pieno. L’amore è sempre amore tra isteria e ossessione, cioè tra materia e forma. Tutta la fascinazione contemporanea per il fenomeno del transessualismo, fascinazione anche psicoanalitica, anche lacaniana, ma non recalcatiana e non per caso non recalcatiana, è in fondo un sintomo diretto di questo tragitto che va dalla trascendenza all’immanenza. Il tempo dell’immanenza è semmai il tempo, non dell’amore, ma del piacere, dell’intensità, della pulsazione del quasi neutro, degli incontri mancati tra isterie più o meno ossessive e ossessività più o meno isteriche. L’ontologia dell’immanenza ha il suo corollario in una psicologia transessuale.
Forse per questo il lavoro di Massimo Recalcati è oggi così letto e seguito. Parla non al tempo in cui viviamo, seguito al crollo del platonismo o al crollo del kantismo, parla non al tempo dell’immanenza dispiegata, parla non al tempo degli dei che sono calati tra noi e che sono diventati compiutamente cani o compiutamente maiali. Parla semmai a chi verrà, se verrà, dopo l’immanenza. Si fa intendere, se si fa intendere, da una nuova generazione, senz’altro più giovane della sua e anche della mia. Dice qualcosa che non è ancora vero ma potrebbe diventarlo, se uno o alcuni o addirittura molti lo crederanno vero.
Si tratterebbe in questo caso non tanto di avere fede in ciò che è, ma di fare che qualcosa sia, avendo in esso una fede tutta preventiva. Che è del resto il modo in cui le cose per lo più funzionano. Après coup, retroattivamente. Nell’universo lacaniano, dire che il rapporto sessuale esiste, dire che l’amore è possibile, è una pura e semplice bestemmia. Anche dentro la cultura contemporanea perorare la causa di eros è una cosa molto desueta e tutto sommato incredibile. Recalcati parla forse alla generazione che susciterà barlumi di padri almeno putativi, congetture di ordini almeno possibili, e per le stesse ragioni parla alla generazione che forse disporrà nuovamente di quella cosa romantica che avrà chiamato a essere insieme alla sua fede preventiva in un fondamento possibile e al rovescio inevitabile del fondamento che è quell’infondato che invoca il fondamento menandolo per il naso. Cioè appunto l’amore.