Uno fondatore / Conversazione con Jean-Luc Nancy: i monoteismi e il sacro
Sergio Benvenuto - Da qualche anno a questa parte, il mondo occidentale è teatro di un vasto attacco portato dall’intellighenzia laica contro “Dio”. Ogni paese ha avuto i suoi best-seller anti-Dio e anti-religione. God is not a Good thing. Ma questo modo di focalizzare sulla figura del Dio-persona (per dire che Dio non è [persona]) riduce nel quadro dei monoteismi una questione molto più radicale e più arché-ica e arcaica, quella del «divino» o del «sacro», sulla quale vorrei qui insistere.
Jean-Luc Nancy - Questo «vasto attacco» avviene dopo un lungo periodo di pacificazione da parte della stessa intellighenzia, alla quale ha egualmente corrisposto un ritorno d’interesse per la religione o anche per diverse forme di riflessione attorno a Dio, agli dei o al divino. Si è parlato di «svolta teologica della fenomenologia francese». L’attacco – l’antica battaglia intrapresa dall’Illuminismo, e poi dallo stato repubblicano – è ripreso in primo luogo a causa di quelle tendenze che alcuni chiamano «post-secolari» (appellativo che trovo assai poco interessante, come tutti i «post», del resto). C’è chi si è indignato perché è sembrato un ritorno a un odioso arcaismo. Altri invece si sono sforzati di comprendere se l’Illuminismo non avesse effettivamente lasciato nell’ombra qualche cosa che la religione segnalava. Altri ancora, infine, fra i quali io stesso mi situo, si sono domandati (e non avevano atteso questo momento per farlo) se sotto il monoteismo occidentale (e anche sotto il suo quasi-gemello buddista) non ci fosse qualcosa d’altro dal religioso, una trasformazione assai profonda del rapporto al senso.
Nei due ultimi casi non si può parlare di attacco. D’altronde coloro che hanno assunto uno di questi due atteggiamenti, sono stati anch’essi attaccati in quanto cripto-religiosi, mentre non si tratta di nulla di simile, ma di una rimessa in questione dell’idea stessa di «religione» e/o di «sacro».
SB - Ci sono religioni senza dei, o religioni nelle quali gli dei sono secondari (come il buddismo, il taoismo, il confucianesimo, ecc.), ma non si può parlare di religione se non c’è riferimento a ciò che nelle nostre lingue occidentali è reso come «il sacro»: hierós, sacer, holy, heilig, svyashchennyy.
J-LN - Buddismo, taoismo, confucianesimo non sono delle religioni: sono delle «sapienze», dei modelli di condotta, ma non si può parlare nei loro riguardi di «sacro» in senso proprio (naturalmente bisogna qui non considerare le varie trasformazioni religiose del buddismo, che sono numerose ma si diversificano dallo spirito delle grandi forme di buddismo almeno quanto il cristianesimo osservante della ritualità e del culto dei santi si distingue dal cristianesimo demitologizzato e non ecclesiastico). Del resto, non è un caso se queste dottrine o sapienze offrano convergenze o incroci molto interessanti con interi settori delle filosofie occidentali.
SB - Credo che decidere se includere o meno il buddismo, il taoismo e il confucianesimo fra le religioni dipenda dall’estensione semantica che si è disposti a dare al concetto di «religione». Su questo tema credo che ci sia oggi un’oscillazione, un’incertezza. Così, un’interpretazione della religione che ha una certa influenza, quella di Freud, non considera elemento specifico della religione la fede in una divinità, ma piuttosto il rituale. È in questa ottica che Freud può tracciare un parallelo fra le religioni storiche e la nevrosi ossessiva, che egli descrive come una sorta di religione privata.
Insomma, mi domando fino a che punto queste diverse forme di vita – le sapienze, le religioni, la ritualità – possano intrecciarsi e trovare implicazioni fra loro. Sarei tentato di dire che tra sapienza, religione, ritualità, sacro, miracoloso, santità, ecc., ci sono delle relazioni che Wittgenstein chiamerebbe «somiglianze di famiglia». Ed è la familiarità non-esaustiva fra queste forme di vita a interpellarci, a mio avviso.
J-LN - Io non sono affatto di questo avviso. C’è «religione», in effetti, allorché c’è rito. Non è il parere del solo Freud: è esattamente il senso latino della parola e questo senso non è soltanto una etimologia, è anche il valore che è stato costantemente legato a questa parola. È per questo d’altronde che si è potuto parlare di «religione civile» o anche di «religione politica» o che Benjamin ha voluto parlare del «capitalismo come religione» (anche se in questo caso non è affatto del tutto chiaro; in ogni modo è proprio sul culto che egli insiste).
Un rito suppone la ripetizione d’un comportamento definito che vale a volte come adorazione, a volte come scongiuro, a volte come penitenza, a volte come richiesta – e talvolta tutto questo in una volta – e che con diverse accentuazioni possibili stabilisce un rapporto con una potenza o un ordine che resta sottratto al solo rapporto di causalità fisica o intellettuale (anche se ne prende in prestito degli aspetti) perché deve valere per se stesso, nella sua esecuzione fattuale. È d’altronde ciò che fa sì che i suoi effetti possano essere recepiti in maniere assai diverse: come si sa, se la mia preghiera è esaudita, significa che è stata accolta; se non lo è, significa che è stata male eseguita, per una ragione o per l’altra.
Ora le sapienze (tao, buddismo, indubbiamente certe forme di «sofie» o «logie» di varie specie) comportano quanto meno una tendenza o una valenza rituali: dire che il tao non sia assolutamente «la via» è al limite dell’esercizio intellettuale o dello scongiuro rituale. È un pensiero che richiama intrinsecamente un atto, come minimo l’atto di tacere.
SB - Eppure Tao significa proprio «la via» …
J-LN - Ma è il Tao stesso a dire di non essere la Via! La via che può essere espressa dalla parola non è la Via eterna; il nome che può essere nominato non è il Nome eterno. Dunque non si può dire niente. Senza dubbio le forme che evochi (ritualità, santità, ecc.) non sono semplicemente equivalenti, ma tutte comunicano attraverso una osservanza: si tratta di attenersi a una certa condotta – e questo non avviene né nel caso della filosofia, né della poesia, né delle arti, né della scienza o del diritto. Il comportamento con maggiori analogie, visto da fuori, sarebbe quello dello sport. C’è nello sport e nella religione qualche cosa della prestazione, nel senso di una esecuzione conforme a delle regole. Gli altri comportamenti al contrario consistono nel creare le proprie regole e nell’eccedere quelle che sono già state introdotte. (Ben inteso, occorrerebbe affinare molto più un tale paragone con lo sport! Ma non è questo il luogo).
SB - Allora, il sacro.
Secondo Émile Benveniste (nel suo Vocabolario delle istituzioni indoeuropee), la nozione indoeuropea di sacro viene dal vedico sūra che significava allo stesso tempo «forte», «gonfiarsi», «accrescersi», «essere prospero», «essere valoroso», «essere incinta» e «sovrano». Questa connotazione di potere e di forza richiama le connotazioni che Claude Lévi-Strauss trovava in parole come il polinesiano mana, il sioux wakan tanka, l’irochese orenda, ecc., che egli considerava dei significanti di grado zero, nei quali s’afferma come focale il senso di «forza». E che si prolunga nelle mitologie contemporanee, come The Force nella serie di film Star Wars, un termine ch’è entrato nel linguaggio comune.
Il fatto che qualsiasi società, anche la più primitiva, abbia avuto o abbia una forma di religiosità, vale a dire dei riti e delle credenze riguardo qualcosa di «sacro», non può essere insignificante. Sembrerebbe che il sacro sia consustanziale alle società umane. E ci si può persino chiedere se, negli atei di oggi, non operi il senso del «sacro»: essi sposterebbero il sacro dagli dei (personalizzati) ad altri oggetti – la libertà, la verità, la felicità d’ognuno o di tutti, l’emancipazione dell’umanità, ecc.
Penso a una delle religioni che chiamerei elementari, lo shintoismo giapponese. È una religione che verte su ciò che si chiama «kami» (plurale e singolare non si distinguono in giapponese), e che viene tradotto con «spiriti», «dei», «essenza», «il divino». Il kami è una sorta di doppio di qualsiasi cosa: di un albero, di una pietra, di un essere umano, ecc. E il Dio monoteistico è stato anch’esso chiamato «kami» in Giappone. Il kami sembra dunque essere il divino allo stato puro, o bruto.
Che cosa ha da dire il filosofo sul «divino» al grado zero, per così dire?
J-LN - Credo sia necessario distinguere assai nettamente due piani: il piano di una riflessione di principio sul «sacro», il «religioso», ecc. e il piano di una considerazione di fatto a proposito della presenza così estesa e così duratura dei comportamenti religiosi.
Comincio dal secondo piano perché è necessario prima di risalire al primo.
Anche là dove il monoteismo è andato più avanti al di fuori delle sue figure religiose, là dove s’è lui stesso demitologizzato e poi decostruito al punto – quello che è insomma il nostro punto di partenza moderno – d’essersi interamente trasformato in ateismo, vale a dire soprattutto nell’Europa dell’ovest (specifico «l’ovest» poiché le chiese ortodosse hanno conservato molto più su di un registro puramente religioso le proprie usanze e i propri fedeli; l’America latina, da parte sua, ha seguito una via differente, per la quale occorrerebbe un’analisi a parte), la stessa società decristianizzata conserva molti tratti religiosi. Le chiese o i templi sono vuoti la domenica, ma si riempiono a metà almeno per i funerali, talvolta i matrimoni, o anche per i battesimi. Alcune persone che non hanno alcuna pratica religiosa guardano comunque la messa alla televisione. I pellegrinaggi a Fatima, Lourdes, San Giovanni Rotondo, Częstochowa e tanti altri luoghi, e molti altri fenomeni privati, o anche intimi, di devozione o di comportamento rituale mostrano che esiste sempre un clima o un tessuto di riferimento religioso.
SB - Il fatto che si faccia appello alla religione in momenti di passaggio drammatici, direi, della vita – come è il caso di nascite, nozze, funerali – mi sembra molto significativo. I cambiamenti di stato civile (essere vivo o morto è uno stato civile) sono percepiti come dei momenti sacrali. Il fatto che la partecipazione religiosa tenda oggi a limitarsi a questi eventi «di transizione vitale» può darci una chiave per comprendere il religioso in generale, in quanto luogo della trans-itività umana? E in che modo questa trans-itività ha a che fare con la trascendenza?
J-LN - Con «trans-itività» dai nome a un concetto nel quale io intravvedo allo stesso tempo la finitudine e la trascendenza. In effetti, si può dire che questi due concetti, così come le forme delle loro separazioni e dei loro ricongiungimenti, definiscano il mondo moderno (voglio dire: a partire dalla fine di Roma antica). Gli altri mondi o le altre culture fondamentalmente non hanno avuto né l’una né l’altra: la morte dei viventi non era una negatività «finita» ma un aspetto (sicuramente terribile) dell’essere-al-mondo, e il mondo non aveva un aldilà trascendente ma conteneva in sé delle forze o delle presenze appartate ma vicine («sacre»).
Sono dunque d’accordo con te: la vita/la morte concentrano oggi le domande, le inquietudini e le perplessità degli uomini che si trovano in un mondo dove tutto sembra collegato, illimitatamente, da concatenazioni razionali, teorico-pratiche. Di conseguenza, non esiste più comunicazione con un «sacro». Lo si traspone «fuori» dal mondo pur supponendo che non ci sia… Tutto questo procede dall’apertura infinita, o all’infinito, che s’è espressa combinando insieme il logos, il diritto, l’universalità e un «dio» non presente («absconditus» non vuol dire «sacro»).
Mentre le «élite» sanno che «Dio è morto», questa frase non ha molto senso per gran parte di coloro che non condividono la cultura filosofica, letteraria, artistica e morale nella quale da tempo l’ateismo ha avuto piena cittadinanza.
Questo che cosa significa? Può significare in parte ciò che tu suggerisci – che c’è del sacro in un certo numero d’idee direttrici o regolatrici come l’«emancipazione», ecc., ma anche indubbiamente qualche altra cosa, che consiste – piuttosto che in un riempimento dello spazio del sacro – in un senso (non una «comprensione» né una «intellezione», ma un «senso di…») della necessità di lasciare questo spazio aperto, di non proiettarvi niente e di cessare nello stesso momento di «sacralizzarlo». A questo punto occorrerebbe soffermarsi su di una sorta di dialettica molto sottile e complessa di un sacro non sacrale, se così posso esprimermi, o anche di ciò che può distinguersi dal sacro sotto il nome di «santo» (nel riferirsi a Lévinas o a Pasolini; santità di Pasolini di cui hanno parlato Philippe Lacoue-Labarthe e Alain Badiou). Ma ci ritorneremo in seguito nel proseguire sulla via ora aperta.
C’è dunque ciò ch’è possibile per la gente di cultura (preferisco evitare la parola «intellettuali» …) – e comunque non per tutta! (esistono certamente predisposizioni, gesti, sentimenti d’ordine religioso che passano inosservati presso artisti, scrittori, filosofi, scienziati …) – e ciò che non lo è al di fuori di quella cultura stessa, presso coloro per i quali essa resta per l’appunto un mondo quasi ermeticamente chiuso e poco attraente.
Questo che cosa significa? Significa senza dubbio che esiste una esigenza generale di superamento della condizione mortale molto semplicemente perché questa condizione viene riconosciuta come inevitabile apertura ad altra cosa rispetto al breve lasso di tempo fra nascita e morte. Questa esigenza si elabora per gli uni in una fabbricazione di senso – pensieri, linguaggi, forme, saperi – e per gli altri nella posizione di punti di riferimento (aldilà, trascendenza non come concetti ma come figure o rappresentazioni, dio, paradiso, giustizia divina). Si potrebbe dire che i primi producono un regime permanente di «trascendenza»: un pittore fa sì che avvenga la visibilità di un invisibile. I secondi prendono ciò che gli viene proposto – che d’altronde può trovarsi talvolta nelle opere, talvolta nelle rappresentazioni su menzionate.
I primi sembrano dunque aver meno bisogno di sicurezza dei secondi, ma è perché si concedono un’altra forma di certezza: prolungano se stessi al di là di se stessi. Il simbolo per me più impressionante di ciò si trova nel racconto che Proust fa delle vetrine delle librerie dopo la morte di Bergotte, ne La prigioniera. Per lo stesso Proust è chiaramente in gioco la sua personale immortalità, e non può esserlo che attraverso la mediazione dell’opera.
Sarebbe troppo semplicistico dire che qui ci troviamo di fronte a un sacro di sostituzione: è probabilmente sempre la sacralità che si procura l’esercizio di una forma o l’altra di trascendenza – io direi presentabile, identificabile (l’opera, il pensiero, l’esempio che viene dato). Essa può d’altronde essere reperita anche nei figli che si mettono al mondo o in opere meno immediatamente «culturali», quali oggetti artigianali, aziende, realizzazioni sportive, sociali…
Se ci si riflette, si può pensare che la pratica di una qualunque forma di «fare» – non limitata all’esecuzione di compiti precisi (al lavoro alienato, sarei quasi tentato di dire…) – e di un «fare» che non sia solamente un «produrre» ma un «realizzare» (accompagnato dall’esercizio di una certa potenza, che andrebbe ancora precisata e analizzata) si discosta da sé dalla rassicurazione rituale. È anche per questa ragione che è legittimo domandarsi se, in tutte le civiltà, i detentori dei saperi e dei poteri (politici e anche tecnici, ecc.) non abbiano sempre più o meno una qualche distanza dalla sacralità alla quale essi stessi si riferiscono in maniera ufficiale. Quali sono i ministri di culto – i «gran sacerdoti», gli stregoni, gli sciamani, gli indovini – che sono totalmente o pienamente credenti? Penso che ci sia sempre una certa distanza fra loro e l’adesione «popolare».
SB – Mi chiedo se questa miscredenza dei «sacerdoti» non includa anche coloro che danno un’interpretazione puramente etica dell’impegno religioso. Conosciamo l’aneddoto del rabbino Hillel il vecchio, quando fu sfidato a insegnare tutta la Torah stando in equilibrio su di un piede solo. Lo fece dicendo: «Non fare al prossimo ciò che non vorresti fosse fatto a te. È tutta qui la Torah. Il resto non è che commento». Sebbene questa impresa si sia verificata un secolo prima di Gesù Cristo, ci colpisce ad ogni modo per una certa sua banalizzazione modernista poiché, nella modernità, la fede tende a essere ridotta a una credenza immaginaria che sostiene una religiosità ridotta ai principi etici elementari di reciprocità. Hillel era ateo?
J-LN – Perché no? Questa storia è in effetti molto interessante. Non per caso è stata denominata da alcuni «regola d’oro». E risale, sembra, all’epoca immediatamente precristiana… dunque a quella in cui matura più o meno percepibilmente un giudeo-cristianesimo, o un rabbino-giovannismo (san Giovanni era uno spirito ebraico, a differenza di san Paolo), oso dire, che si separerà un po’ più tardi.
Occorre aggiungere allora che l’ateismo supposto o metaforico, o anche reale, di Hillel andrebbe collegato comunque alla promulgazione di numerosi precetti rituali (benché Hillel non fosse dalla parte dei ritualisti più rigidi). Ciò richiederebbe di completare in modo più tortuoso i discorsi da me fatti poco fa sul rito, mostrando che quest’ultimo può anche costituirsi di per sé a religione, se così posso dire.
Penso dunque che il fenomeno religioso o del sacro è costitutivo di ogni modo di vita che non comporti una capacità di distanziamento dovuta all’esercizio di una forma di attuazione di un certo rapporto al sacro: il sacro s’allontana allorché lo si lavora, parla, agisce, espone, pensa, adopera a fini diversi. Resta vicino, potremmo dire aderente, quando invece domina il sentimento (uso questa parola in senso molto lato e forte) di essere abbandonati a esso, modellati o manipolati da esso.
SB – Se capisco bene, il religioso o sacrale sarebbe una forma passiva, assoggettata, di un rapporto al sacro che può invece essere attivo, creativo. Ma il paradosso sarebbe che, nella misura in cui si lavora il sacro attivamente, esso si allontana…
J-LN – Non ne sarei sicuro… Non c’è un sacro che non cessa di ritornare pur rifuggendolo, al vertice dell’opera di uno Shakespeare, di un Rembrandt, di un Beethoven o di un Proust? ... Un sacro che diviene anche santità (Pasolini?) oppure solitudine (Nietzsche?) oppure parola rocciosa (Celan?)…
Occorre quanto meno concluderne che l’uscita da ogni religiosità o sacralità domanda un accesso all’esercizio che io evoco. Vale a dire anche una separazione tangibile dalla necessità della sola continuazione della vita, delle sue necessità, del suo corso e dei suoi limiti. Ma con o senza separazione, e con gradi assai diversi e variabili nella separazione (anche in una stessa persona), c’è sempre una testimonianza di senso e dell’esigenza che «l’uomo superi infinitamente l’uomo» (Pascal).
SB – Mi domando se «l’uomo supera infinitamente l’uomo» non acquisti un senso del tutto evidente se si guarda al fatto che la maggior parte degli esseri umani fanno dei piani che oltrepassano comunque la loro vita mortale. Basta desiderare d’essere genitore: chi farebbe dei figli sperando di sopravvivergli? Ci si preoccupa di fare testamento, della propria tomba, si lavora affinché le nostre opere – che sia un romanzo, una ditta… – sopravvivano a noi, ecc. Si potrebbe dire che l’essere umano è profondamente orientato all’altro, nel senso che vive per gli altri. Sono pochissime le persone che direbbero «dopo di me, il diluvio». È anche in questo senso che riproponi la frase di Pascal?
J-LN – Semplicemente direi che in effetti un uomo va al di là di se stesso per essere se stesso… Ma vorrei dire cosa vedo nel «grado zero del divino» di cui parli. Tu hai infatti prima detto «la divinité»: questa parola rimanda in francese più a una figura che a una qualità. È «divino» piuttosto a denominare la qualità – quella dell’infinito oltrepassamento. Ma con l’una o l’altra parola e in qualsiasi regime di religiosità o di sacralità sorge la questione: questa qualità divina, come pensarla adeguata all’uomo? Come una divinizzazione dell’uomo? È il grande scacco dell’umanismo, della sua scienza, della sua tecnica e della sua democrazia. Come apertura al proprio infinito – e ciò avviene attraverso «dei» e «venerazioni» oppure attraverso delle opere, delle pratiche e le «adorazioni» d’esse, vale a dire indirizzate all’infinito (infiniti indirizzi all’infinito)?
Fino a ora «l’ateismo non è stato capace d’irrigare il proprio deserto»: questa frase di Jean-Christophe Bailly (in Adieu) è portatrice di una grande aspettativa…
Ma mi rendo conto d’avere impercettibilmente mescolato i due piani che avevo annunciato: ho ragionato sui due piani contemporaneamente. Ho proposto alla fine che tutto ritorni a «l’uomo supera infinitamente l’uomo» ma a volte questo superamento si fa come un fare e a volte si accoglie come un osservare. Eppure in entrambi i casi si tratta di una mescolanza dei due… niente fare senza osservare, niente osservare senza fare. Sono però due potenzialità, due valenze opposte…
SB – Il nucleo centrale del tuo discorso mi sembra essere che «l’uomo supera infinitamente l’uomo». Con questa espressione, tu fai appello alla nozione «pericolosa» che è l’infinito. Ma con questo intendi un «infinito» attuale o potenziale? Non è una questione secondaria poiché, nelle metafisiche monoteiste, l’infinito di Dio è concepito in termini attuali, Dio è actually infinito. O pensi a un superamento infinito in senso potenziale, nel senso che a questo superamento non si trova mai una fine?
J-LN – No, certo, si tratta di un infinito attuale. Le parole di Pascal sono «l’uomo supera infinitamente». È la lingua del suo tempo, ma è anche cosa differente da un «superamento» sull’autostrada! È «oltrepassare», se vuoi, o anche «trapassare». Non è un caso che l’infinito attuale abbia grandemente occupato la filosofia e la matematica dei tempi moderni. Non posso dirne di più in questa sede.
SB – Così tu riconosci il luogo del sacro in una trascendenza inerente all’uomo. È un punto essenziale. Ma prima di ritornarci, vorrei intanto richiamare qualcuna delle difficoltà di questa «sacra trascendentalità» attraverso la quale l’uomo oltrepassa l’uomo. Mi pare che tu separi nettamente una «élite» creativa (la gente di cultura, gli artisti), che sa che Dio è morto, da una massa che prende ciò che gli viene proposto dalle religioni secolari. Descrivi questa élite come dei «realizzatori» (più che dei produttori), suggerendo che la creazione (artistica, filosofica, – ma anche scientifica, politica? ...) comporta di per sé una dimensione di sacro che tu separi da un «sacrale» che sembra avere una connotazione, così parrebbe, plebea. Ma questa differenza o separazione è così decisiva?
Sono impressionato dal fatto che, nella maggior parte dei casi, i «grandi intellettuali» condividano credenze, opinioni, mitologie, assurdità, ecc., delle non-élite. E questo nel campo politico in particolare. Il linguaggio ricco dell’élite è molto differente da quello povero della persona comune, ma si tratta veramente di due «trascendenze» diverse? Di due cristianesimi diversi, due liberalismi diversi, due marxismi diversi, ecc.? È possibile pensare che il filonazismo di Heidegger non avesse nulla a che fare con il filonazismo di un ordinario militante hitleriano. Ma fino a che punto questo è vero? Quando Heidegger ha accettato di dare qualche specifica valutazione politica, non ha fatto in realtà che ripetere gli argomenti correnti dei filonazisti del dopoguerra… E fino a che punto la pietà religiosa di un filosofo cristiano è differente da quella di una vecchia signora poco colta che va regolarmente in chiesa? Il senso sostanziale dei discorsi della élite non è, tutto sommato, ciò che questa gente d’élite fa e coloro che essa appoggia?
J-LN – Mi chiedo, in effetti, chi sia un «filosofo cristiano». Jean-Luc Marion, il più manifesto «filosofo cristiano» d’oggi, afferma che il cristianesimo non è una religione. Si potrebbero esaminare altri pensieri come quello di Gianni Vattimo o di John Caputo: non sono accomunabili come un insieme di discorsi, di figurazioni e di riti – proprio per niente! E reciprocamente si potrebbe dire che un cristiano è già «in sé» un filosofo. Il cristianesimo è prima di tutto una grande elaborazione del pensiero e poi una religione. Agostino è molto più filosofo che catechista o evangelista! Il monoteismo è prima di tutto una elaborazione di pensiero e di cultura, poi una religione (e non necessariamente!).
SB – Eppure Agostino comparve quattro secoli dopo la nascita del cristianesimo. Si sarebbe tentati di dire che la filosofia agostiniana sia un po’ l’uccello di Minerva che si leva al crepuscolo, e il crepuscolo sarebbe quello di un cristianesimo militante, poco prima martirizzato, tutto tendente alla salvezza in una prospettiva di fine dei tempi che s’immaginava molto vicina («Il tempo che resta» di Paolo, ripreso da Giorgio Agamben). Non è vero che ogni filosofia religiosa è una sorta di crepuscolo della religione?
J-LN – La «nascita» del cristianesimo prende già quasi un secolo, se non più; agli inizi non è del tutto ben distinto da una forma di giudaismo… E fra il I e il IV secolo troviamo già molte elaborazioni filosofiche (pensa a Ireneo, Origene, ecc.). Ma è vero che c’è stato un periodo in cui la salvezza era pensata come assai vicina e che con Agostino avviene una sorta di capovolgimento che conduce a una meditazione insieme atemporale e legata alla storia (la caduta di Roma). Detto ciò, il cristianesimo comincia a «uscire dalla religione» sin dalla sua nascita, si potrebbe dire!
SB – Quali sono allora le differenze fra i monoteismi?
J-LN – Ovviamente bisogna considerare a parte ogni suo «ramo». Il giudaismo oscilla fra un estremo rituale e un estremo filosofico (Maimonide, Spinoza, Buber, Rosenzweig, Lévinas, perfino Benjamin e Derrida). Il cristianesimo, fra l’estremo dell’ecclesiale e l’estremo della propria decostruzione. L’islam, da parte sua, si costituisce in maniera tale che l’assolutezza del suo senso del divino lo ha spinto a rifiutare la filosofia (Averroè) e a collocarsi in una evoluzione estrema del diritto, vale a dire di un insieme di norme rituali e sociali che reggono la comunità (la versione sciita è a questo riguardo diversa, ma qui non possiamo soffermarci su questo). Ma oggi l’islam è sulla via di adattarsi in funzione di una situazione che vede le tecniche e le mentalità non corrispondere più a delle norme create in tutt’altro contesto. C’è dunque bisogno di una profonda riflessione, che spesso resta poco accessibile ai credenti musulmani o anche ad altri; al contrario alcuni vogliono piegare le tecniche alle norme rese assai più rigide, ma molti altri sono pronti a distinguere nettamente le norme religiose dalle considerazioni tecno-economiche, alieni come sono a elaborazioni di tipo teorico.
E in più sopravvive il ricchissimo complesso del pensiero mistico, in particolare sufi, pensiero – o anche speculazione – di maestri rispettati ma piuttosto isolati, molto poco letti e anzi emarginati da quelli che prestano maggiore attenzione a preoccupazioni di opportunità religiosa.
Sempre e ovunque, mi sembra, può ritrovarsi uno scarto significativo fra pratiche e credenze, e pensieri che trovano la loro esistenza innanzitutto in atti non rituali o in opere. Heidegger è in tutta evidenza molto diverso da un nazista. Non crede in niente del nazismo. Ha fede in un pensiero. (Finisce anche col condividere delle opinioni ridicole, volgari… perché lui stesso è anche fragile, volgare…). Occorrerebbero analisi precise, ma questa cosa è certa. D’altra parte, «élite» è una parola molto fastidiosa. Ho cercato di specificare che altrettanto bene avrei potuto indicare dei contadini, degli operai, dei commercianti che non condividono per niente una religione ma che hanno una straordinaria fede nell’esistenza – la loro, degli altri e del mondo. Questa «fede» è un atto, un’adesione o una partecipazione. Fino alla morte, sì, questo succede.
SB – Hai in mente degli esempi concreti che vanno in questa direzione?
J-LN – Sì, una famiglia di contadini – molto «all’antica»… – che conosco da molto tempo. Oppure un amico che è morto di cancro senza alcuna recriminazione e senza mai lamentarsi, o una madre che ha perduto un figlio e vive ancora molto tempo dopo nel ricordo luminoso di lui… e tanti altri!… Ma bisognerebbe raccontare ciascuna vita… Potrei anche parlare della morte di parecchi amici scrittori o filosofi…
Ed è anche il caso di artisti, uomini politici o d’azione – non di tutti e in ciascuno di essi si possono indubbiamente riscontrare gradazioni, varianti infinitesimali – MA ciò che vi si ritrova è atto e partecipazione, non rito e rappresentazione. Ritrovarceli è IMPOSSIBILE. E le opere, come spesso anche le condotte personali e i modi di vivere, lo mostrano in modo tale che in casi come questi è possibile un po’ meglio esemplificare come un «fare» si sostituisca completamente a un «credere».
Lévinas mangiava kasher, ma era certamente ateo come lui stesso diceva. Il suo ritualismo era più di partecipazione che di rappresentazione (è una possibilità, molto ristretta a dire il vero, del ritualismo).
È per questa ragione che colgo una tale differenza all’interno di tutte le culture: qualsiasi gran sacerdote di qualsiasi religione è in una posizione distinta da quella del fedele o del semplice ecclesiastico. Perché il contenuto di tipo religioso (messaggio, norme, rappresentazioni) è ciò che egli sa padroneggiare allo scopo di gestirlo. È proprio questa sua padronanza a distanziarlo.
Mi domando se tutto questo non abbia a che fare con ciò che avviene dell’«io»: o l’«io» è al di fuori di sé, in un lavoro, un’opera, un’azione – oppure è infruttuoso, crede all’io, se lo crede si potrebbe dire, e si preoccupa dunque di «sé». I senza-fede dei quali parlo io non se ne preoccupano per niente. Possono preoccuparsi del loro successo, del loro potere, ecc., ma non del loro «io». E l’assillo dell’«io» è senza dubbio proporzionale all’individualismo della società, all’allentamento delle forze comunitarie. Il che non impedisce che nelle società tradizionali i «grandi sacerdoti» (per riprendere questa formula) siano proprio i più «individuati»…: a seconda del contesto, l’individualizzazione volge in distanza «élitaria» oppure in smarrimento di un «io» atomizzato…
Ma sempre e ovunque si tratta di ciò che «supera infinitamente» …
SB – Veniamo, o ritorniamo, ai monoteismi. Mi sembra evidente che il mondo occidentale – nel quale includo l’islam – è stato ipnotizzato per parecchi secoli (nei primi mille anni dell’era volgare, grosso modo) dall’Uno. Tutto ciò che esaltava l’Uno era convincente. È così che Plotino aveva potuto rileggere Platone alla luce di un primato dell’Uno. E il cristianesimo ha dato polpa religiosa a quello che chiamerei il monismo di quell’epoca. È vero che questo monismo ha sempre conosciuto delle eccezioni – l’impero romano si è sdoppiato, per esempio; ha prevalso il dogma della trinità divina. Si può vedere il successo dell’islam come un’estrema purificazione dell’Uni-smo, una sorta di rivincita dell’arianesimo uscito sconfitto dal concilio di Nicea: non c’è più trinità, l’unicità di Dio e la sua separazione dal mondo materiale sono stabilite senza alcun residuo o compromesso; si può insomma vedere l’islam come acme del monoteismo e della trascendenza divina in rapporto alla physis (di cui l’iconoclastia musulmana è un aspetto). L’islam è un fondamentalismo monoteista? Ma possiamo vedere il millennio successivo come un indebolimento, una crisi lenta ma continua della fascinazione nei confronti dell’Uno. Oggi viviamo infatti in una cultura politeista. Persino la chiesa cattolica, malgrado il suo nome, accetta il fatto che ogni altra religione ha uguale dignità del cattolicesimo. Si può pensare che questa crisi del monoteismo abbia avuto la sua svolta nel XVIII° secolo con l’Illuminismo. Occorre tuttavia dire che questa passione pluralista – che sembra essere l’opposto dell’uni-smo antico – si lega a un universalismo antropologico che si è affermato nello stesso tempo: universalità dei diritti dell’uomo e della donna, organizzazioni universaliste come l’ONU, tentativi di stabilire un diritto internazionale valevole per tutti i paesi, ecc. La mia domanda è: come si può interpretare oggi questa egemonia monoteista del primo millennio? Perché l’Uno è stato così irresistibile per secoli? E il pluralismo che è oggi egemone in che modo si lega alla vocazione universalista (libertà ed eguaglianza per tutti e fraternità universale) della nostra epoca?
J-LN – Si tratta di una questione talmente enorme … è semplicemente la questione di come e perché a un certo punto c’è stata una cultura o civiltà che ha assunto l’infinito e l’universale non solamente come proprio pensiero ma come effettiva messa in opera di un universale logico-giuridico-tecnico che si è globalizzato al punto che ogni altra cultura, religiosa e no, è oggi tributaria di esso e spesso da esso penetrata.
Non è possibile pensare a questo fenomeno se non come a un evento globale dell’umanità – se non persino della natura, perché esso si riverbera così fortemente sulla natura da trasformarla come nessuna cultura aveva mai fatto. (Bisogna anche notare che all’incirca nello stesso periodo l’Oriente ha conosciuto con il buddismo una trasformazione non priva di analogie: una certa «uscita» dalla religione, uno sviluppo di tipo imperiale e deterritorializzante…). L’«Uno» non è venuto dal nulla. Ha la sua protostoria nelle trasformazioni che ha conosciuto il Mediterraneo orientale: la fine dei sacrifici umani, l’apparizione della scrittura nelle gestioni economiche, il miglioramento delle tecniche navali, il costituirsi di connessioni economico-politiche fra imperi e formazioni palaziali – complesso di fenomeni che è stato travolto da un generale rivolgimento verso la fine dell’età del bronzo, alla quale segue un’età del ferro le cui trasformazioni tecniche e culturali sfociano in un’epoca delle città e la gestione autonoma di queste fa sì che agli imperi teocratici succeda quello che si potrebbe designare come un modo generale dell’autonomia – filosofia, politica, logica, arte – per mezzo del quale il mondo mediterraneo s’avvia a un’immensa trasformazione: è infatti «un mondo» che subentra a semplici territori d’appartenenza e di sottomissione. Le differenze che vi persistono sono sicuramente enormi, ma esse non impediscono che faccia la sua comparsa un motivo complessivo che è possibile designare come quello di «un mondo». Roma ne è la prima realizzazione in qualche modo compiuta. In questo mondo, il divino ha già assunto una denominazione unica in Platone (o theós nel Teeteto) nello stesso momento in cui l’Uno in quanto tale, ossia il principio della numerazione, è diventato oggetto proprio di riflessione e di speculazione (comunque immediatamente aporetico, si veda il Parmenide) e in cui «la natura», «l’universo» sono diventati degli oggetti di pensiero. In maniera parallela, e nello stesso movimento di trasformazione dell’antico ordine teocratico e territoriale, è apparso il primo motivo monoteista con il popolo ebraico (dopo una specie di prologo egizio). Questo stesso popolo, che lega la propria storia all’uscita dalla schiavitù e a uno spostamento territoriale, potrebbe essere nato dalla decomposizione dei sistemi antecedenti. Si potrebbe dire che l’autoctonia lascia il posto alla autonomia: la caratteristica di quest’ultima è di tenere a distanza la dominazione umana e la sudditanza – se non l’alleanza – a un dio che non è più annunziato o mediato da un teocrate. Il rapporto propriamente ebraico tra i profeti e i re inserisce insomma un’autonomia nell’autonomia d’Israele: quella della condotta personale.
Possiamo dire che si produce nello stesso tempo, sotto un duplice aspetto greco ed ebraico, una demoltiplicazione degli «uni» in nome dell’«uno». Ma nel mondo che si unifica – o nella rivelazione di una tensione uni-versale – la proliferazione di unità distinte e la sparizione tendenziale delle appartenenze autoctone innescano un processo di interrogativi inquieti e di aspirazione a una unità possibile. Questa aspirazione si apre alla dimensione di un infinito: solo l’incommensurabile è alla sua misura. È da qui che sortiscono i due gemelli «giudaismo rabbinico» e «cristianesimo». Il secondo, staccandosi completamente da qualsiasi specie di particolarismo («non ci sono più né ebrei né greci …») e rendendo complessa all’estremo la concezione del dio uno (dio-uomo, trinità, ecc.) apre su di un piano universale di salvezza – vale a dire una risposta all’esigenza d’infinito (sia attuale che potenziale).
L’islam si forma in un movimento analogo ma con un contesto diverso poiché esso prende piede nella parte orientale dell’impero romano, dove s’è sviluppato un cristianesimo più disincarnato, e allo stesso tempo nell’ambito di un aggregato di tribù capaci di unirsi per essere all’altezza del nuovo stato di cose. Da qui parte un’altra forma di monoteismo che si costituisce allo stesso tempo nella lotta per un potere unificante e in una nuova elaborazione del messaggio divino unico.
Tutto è pronto perché un mondo nuovo, ovvero una nuova unità del mondo, si manifesti. Ciò avviene in base ad andamenti ed energie differenti, e secondo una competizione di modelli diversi, fino alla vittoria della dinamica più universalizzante, quella che distintamente comporta i tratti di un disegno aperto all’infinito: il cristianesimo sposta la salvezza verso la storia. Il regno di Dio non avrà mai fine: questo fa parte integrante del Credo. Già Agostino vede nella fine di Roma un segno della storia, l’appello a un cambiamento del mondo. Si può seguire la storia del concetto di storia attraverso la scolastica e la nascita del pensiero moderno.
«Monismo» è un termine debole per caratterizzare quel che è stato così messo in gioco. Non si tratta tanto dell’«uno» tout court opposto al «multiplo» ma piuttosto del multiplo, riconosciuto come tale, esposto alla questione o al desiderio di una uni-versalità e/o di questa universalità diffratta in infinità, tanto potenziale (progresso, evoluzione …) quanto attuale (singolarità, esistenza). Almeno da Hegel in poi sappiamo esplicitamente che «l’uno è la sua propria negazione» ed è questa negazione di sé al cuore dell’Uno a costituire la nostra difficoltà quanto il nostro obiettivo più proprio.
SB – C’è comunque un paradosso storico. È vero che la rivoluzione scientifica e tecnica (con il nichilismo religioso che l’accompagna) ha avuto la sua fonte nel mondo cristiano, ma in seguito abbiamo anche visto come alcune culture orientali – da principio il Giappone, poi la Cina, l’India, Singapore –, che non erano state segnate dai monoteismi, siano riuscite ad assorbire abbastanza in fretta lo spirito tecnoscientifico occidentale e i suoi valori non-religiosi, al punto di sorpassare talvolta lo stesso Occidente sul proprio terreno. Mentre il monoteismo islamico mostra invece di stentare a entrare nello spirito del liberalismo e del razionalismo occidentali. Questo è dovuto al fatto che, come hai detto prima, esso si situa «in una evoluzione estrema del diritto, vale a dire di un insieme delle norme rituali e sociali che reggono la comunità»? Questo eccesso di normatività renderebbe dunque l’islam poco adatto alla modernizzazione. Sembra che alcune culture originariamente politeiste s’adattino meglio dell’islam alla modernizzazione. (Modernizzazione e occidentalizzazione non debbono per forza coincidere. Ma la modernizzazione è stata comunque inaugurata dall’Occidente)
J-LN – Non è possibile fornire una sorta di deduzione trascendentale dei rapporti storici fra le culture! Si potrebbe anche dire che questa appunto sarebbe una illusione unificatrice, una «storia universale» – della quale Marx dice che non esiste. Ma possiamo tentare di abbozzare un limitato elemento di risposta: l’islam è nato nel contesto monoteista e romano-imperiale; si trova subito in posizione di rivalità con gli altri monoteismi e con l’impero (d’Oriente). Invece di lanciarsi allora nel movimento espansionistico dell’Occidente (che d’altronde ai tempi dell’islam ristagna) compie un movimento che si potrebbe definire di dispiegamento, seguito da una stabilizzazione. Si ferma. È dentro un tempo lentissimo, se non addirittura immobile. La questione è inoltre che per l’islam l’infinito divino vale più come allontanamento che come processo. I mondi dell’Oriente possono invece più facilmente trapassare da un tempo lento e ciclico a uno rapido e progressivo. Si noti però che nel caso della Cina esso è comunque abbastanza lento!
SB – Fu abbastanza lento per secoli, ma dalla metà del Novecento la Cina ha cominciato a correre! Prima verso un marxismo radicale, poi verso una modernizzazione radicale. Mi sembra che per te questa passione per l’Uno o l’uni-versale sia legata a una dialettica dell’Uno e del multiplo che va almeno dal Parmenide di Platone fino a Hegel.
J-LN – Qui devo dire che non capisco troppo bene… Direi piuttosto che poiché «l’uno è la propria negazione» (Hegel) allora gli «uni» proliferano: questo sarebbe il germe di una società di «soggetti» o di «individui»…: ciascun piccolo uno è il luogo nel quale il grande Uno prende dimora come interior intimo meo, superior summo meo…
SB – Mi sembra che questa uni-ficazione non sia semplicemente un processo filosofico, ma che penetri la forma di vita occidentale nel suo insieme. Lo si vede anche oggi nell’ambito politico: da un lato una tendenza a dissolvere le unità politiche in stati etnici autonomi (come con la dissoluzione dell’Unione sovietica e della Jugoslavia, dell’India, e con una probabile dissoluzione della Spagna e del Regno Unito), dall’altro una tendenza a uni-ficare, a sintetizzare dei contrasti, da cui l’Unione europea, gli organismi internazionali quali il Fondo monetario internazionale, ecc.
J-LN – Credo soprattutto che non abbia senso distinguere ciò che è «semplicemente filosofico» da ciò che «penetra la forma di vita nel suo insieme»: sono la stessa cosa! La filosofia non fa nient’altro che formulare «la forma di vita»…
SB – Questa dialettica dell’Uno e della molteplicità è presente all’interno delle discipline stesse, delle scienze specialmente nelle quali, al programma analitico proprio alla scienza (ridurre un tutto ai suoi elementi e forze costituenti), si sovrappone una pulsione sintetica che spinge a delle unificazioni sempre più generali delle teorie e delle «forze» in fisica. E, sul piano etico-politico, da una parte il tentativo di fare accettare una Carta universale dei Diritti dell’Uomo e della Donna che vada al di là di qualsiasi eccezione autoctona, e dall’altra un’affermazione sempre più dettagliata delle autonomie individuali (libertà d’orientamento sessuale, libertà nelle vocazioni professionali e nei modi di vestire, ecc.).
J-LN – Salvo che oggi la «sintesi» scientifica cede il passo a una diversità apparentemente irriducibile delle costruzioni teoriche. Che è uno dei segni dell’affanno in cui versa la pulsione «unaria»…
SB – Interpreti il nostro mondo – a parte le sue incarnazioni islamiche – come orientato verso una laicità a-religiosa, come ancora segnato dalla ricerca dell’Uno, dell’universale? E questo oltrepassamento dell’uomo da parte dell’uomo come se avesse una direzione uni-ficante?
J-LN – No, non interpreto il nostro mondo in questa maniera: mi rendo ben conto, come tutti, di cosa ha fatto sì che l’Uno dominasse. Ma mi rendo anche conto di come in un certo senso noi abbiamo sempre saputo che l’Uno non esiste e di come oggi avvenga una nuova proliferazione, moltiplicazione o differenziazione… e tutto ciò nel cuore stesso di una sorta di grande unità tecno-scientifica che si conosce sprovvista di un Uno fondatore…