L'albero della progettazione
“Progettazione” è il termine ormai quasi desueto che si usava in Italia prima che s’imponesse al suo posto il termine “design”, ma rispetto a quest’ultimo aveva un’accezione inconfondibilmente diversa da come è inteso oggi il design. Nell’Italia dove fino agli anni ’80 del Novecento non esisteva nelle università o in accademia una facoltà di Design, ad occuparsi di design erano quasi tutti architetti, con un ricco bagaglio anche di conoscenze umanistiche. Con la loro capacità di giudizio critico su cultura, economia, politica e società, essi osservavano attentamente l’ambiente vitale dell’uomo e cercavano il suo miglioramento (questo, talvolta, prima ancora dell’arricchimento delle imprese) attraverso collaborazioni con vari professionisti e seguendo tutte le diverse fasi del lavoro in modo integrale. In questo modo progettavano da un cucchiaio fino a una città. Questa era la “progettazione”, e chi se ne occupava era il “progettista”.
Quando Achille Castiglioni diceva che “il design (progettazione) non è una disciplina”, non intendeva con ciò dire che si trattasse semplicemente di un mestiere specializzato dotato della tecnica di fabbricare oggetti, ma di un mestiere insieme intellettuale e pratico, capace di trovare soluzioni in mezzo a relazioni molto complesse. Lo specialista di una sola disciplina non poteva definirsi “progettista”. La capacità principale richiesta a questo ruolo era infatti “l’arte di pensare attraverso varie discipline”, dove l’accento era posto sull’aspetto umano, nonostante il design(progettazione) fosse un prodotto dell’età delle macchine.
Oggi, il design non è più uguale alla progettazione. Quanti veri progettisti con queste caratteristiche incontreremmo al Salone del Mobile? Ormai quasi nessuno. È diventata una figura pressoché estinta nel campo del design, in questo mondo industriale e globalizzato. Invece sarebbe proprio la capacità indispensabile all’Umanità (intesa come organismo vivente) per sopravvivere al grande cambiamento in atto nel mondo di oggi.
Un progettista in Giappone
Eppure, un seme dell’autentica progettazione è volato in Giappone e vi ha attecchito, facendo crescere pian piano un albero.
Kosei Shirotani, classe 1968, è un designer-architetto che ha vissuto diversi anni a Milano prima di rientrare in Giappone definitivamente nel 2002, nella sua città natale di Obama-chô, nella provincia di Nagasaki, nell’isola di Kyushu, al sud del Giappone. Negli ultimi anni del suo soggiorno italiano, ha avuto anche la fortuna di conoscere e collaborare con grandi maestri come Achille Castiglioni ed Enzo Mari. E soprattutto da Mari ha assorbito sguardo sociale, atteggiamento etico e rapporto razionale e poetico tra funzione e forma, oltre all’atteggiamento sempre creativo che sostiene tutti questi elementi. Tutti gli elementi che costituiscono la “progettazione”. Considerando che la maggior parte dei designer giapponesi tornano dall’Italia dopo anni di esperienza senza afferrare l’essenza più importante del design italiano, Shirotani è una delle rare eccezioni.
Così come il mondo del design tende a eliminare dal suo territorio i veri progettisti, anche Shirotani si sta allontanando dal mondo consolidato del design industriale, anche se gli capita ancora di occuparsene. Da anni, però, accanto alle varie progettazioni di design e di architettura, ha scelto di dedicarsi con passione all’attività didattica rivolta ad artigiani di varie arti tradizionali (ceramica, bambù, ecc.) molto presenti in Kyushu. Deluso dalla velocità con cui gli oggetti vengono consumati e spariscono dal mercato, Shirotani ha preferito progettare, anzi, ri-progettare la dimensione sociale artistica dell’artigianato stesso che ha dimenticato la vera capacità progettuale che aveva in passato. Anche qui, la spinta definitiva è arrivata grazie a un workshop di Mari, tenutosi a Hasami, località tradizionale di importante produzione di ceramica e porcellana in provincia di Nagasaki.
Maestro e artigiani
Tra il 2001 e il 2002, Enzo Mari, invitato da Shirotani, tenne un workshop (progetto KAZAN) per i pittori ceramisti di Hasami. Osservando come i pittori si limitassero solamente a ripetere il loro repertorio, tra l’altro non così ricco, Mari consigliò loro di studiare gli stessi soggetti tradizionali (es. il Coniglio) nelle arti antiche di altre culture come la Cina o la Grecia antica. (fig. 2) Inoltre fece loro osservare un vero coniglio per cogliere le sue pose o i suoi movimenti più interessanti, cosa che i ceramisti non avevano mai preso in considerazione. Infine chiamò un maestro di calligrafia (sono solitamente più bravi nell’uso del pennello rispetto ai pittori) perché illustrasse ai ceramisti diverse tecniche di pennello che loro non conoscevano. In sostanza, con Mari, questi pittori di Hasami furono costretti a ristudiare l’arte della pittura – che avrebbe dovuto essere la loro specialità! – in modo più ampio e più approfondito, prendendo in considerazione elementi da essi trascurati nella loro pratica quotidiana, seppure molto raffinata.
In sostanza che cosa fece Mari? Spesso le arti tradizionali (ceramica, architettura, teatro, ecc.) perdono la loro ricca vitalità creativa nel processo di raffinamento estremo ed esasperata specializzazione. Se paragoniamo la totalità delle attività umane di produzione a un grosso albero, la parte visibile dell’albero (rami e tronco) rappresenta l’intera Civiltà e quell’invisibile, cioè le radici, la parte inconscia della Civiltà, cioè, il Mito. Le radici affondano nel terreno, che qui rappresenta la Madre Natura, e ne traggono alimento. Ogni gruppo di rami rappresenta una categoria di attività umane e nelle punte più alte e più sottili si troverebbero le attività professionali più avanzate, più specializzate e più raffinate, come l’ingegneria elettronica o le arti tradizionali.
Ma su queste sottilissime punte di ramoscelli, isolate e lontanissime dalle radici, la linfa arriva a stento, la “trasmissione” non è più buona. Sembra paradossale, ma è così: nonostante la parola “tradizione”, queste arti così specializzate e così tecnicamente elevate spesso non sanno più come attingere la linfa dalle loro radici. Probabilmente non sanno più connettersi nemmeno con le parti immediatamente inferiori dell’albero, né con i grossi rami o con il tronco. Senza un rifornimento adeguato di linfa, queste punte di ramoscello rinsecchiranno e cadranno. Infatti, questa è la situazione critica in cui si trovano molti artigiani giapponesi oggi.
Allora come si fa a riconnettersi con le proprie radici? In quel workshop, Mari indusse i pittori di Hasami, isolati sulla punta di qualche ramoscello, a raggiungere i rami di arti pittoriche di altre culture. Per raggiungere un altro ramo si deve scendere fino al punto di diramazione, cioè si scende verso un ramo più basso e più grosso dove scorre una linfa più ricca e più abbondante. Per raggiungere il ramo della calligrafia bisognerebbe scendere ancora di più, dato che la calligrafia non appartiene allo stesso gruppo di rami delle arti pittoriche, sebbene vi sia vicina. Quindi bisogna raggiungere un punto di diramazione ancora più in basso, quindi un ramo più grosso dove scorre una linfa ancora più ricca e più abbondante.
Attraverso queste pratiche, Mari, facendo scendere gli artigiani dalla loro punta di ramoscello fino a un ramo molto più grosso, permise loro di recuperare maggior linfa (vitalità creativa più autonoma). Mari ci insegna qui una cosa molto importante: anche nelle arti tradizionali la creazione deve essere un atto da ricostruire ogni volta partendo dalle proprie radici: lontane, ma sempre presenti nella nostra esistenza.
A pensarci bene, i grandi maestri della progettazione all’italiana scendevano sempre verso la radice per poi risalire fino alle punte dei rami per farvi maturare ottimi frutti, sfruttando così organicamente l’intero albero della progettazione nonostante la loro forte inclinazione verso il progresso .
L’albero giapponese di progettazione - Hito/Mono zukuri Karatsu project
Dopo il progetto KAZAN, proseguendo con alcune ricerche condotte insieme a un gruppo di giovani artigiani di bambù di Beppu (una località in provincia di Oita), e gli esperimenti tuttora in corso con alcuni ceramisti del villaggio di Koishiwara (in provincia di Fukuoka), il significato progettuale di collaborare e condurre studi con gli artigiani diventa sempre più chiaro anche allo stesso Shirotani. Ma è dal 2008, partecipando in qualità di insegnante al Hito/Mono zukuri Karatsu project dell’Università di Saga, rivolto ai giovani ceramisti, che Shirotani ha avuto modo di sviluppare una vera progettazione didattica.
Nell’aprile del 2009, all’inizio del secondo anno del corso, Shirotani ha cercato occasioni per approfondire la cultura locale di Karatsu (un’altra località famosa per la ceramica nel Kyushu), tenendo conto del fatto che molti giovani si trasferiscono in quella zona da altre regioni per diventare ceramisti. Si è chiesto allora come questi ceramisti, il cui lavoro deve molto alla terra di Karatsu e alla sua storia, possano contraccambiare attraverso interazioni con le persone locali. Come argomento ha quindi scelto l’agricoltura, che si basa sulla stessa terra da cui proviene la ceramica, e ha effettuato ricerche su prodotti agricoli tradizionali locali in via d’estinzione da preservare per le generazioni future, scegliendone tre.
Successivamente gli allievi si sono recati nei campi per raccogliere conoscenze e intelligenza sviluppate dagli antenati attraverso i secoli, come la conoscenza delle caratteristiche del terreno di Karatsu, informazioni sul clima locale, sugli utensili per i lavori agricoli, e sulla cucina locale.
Shirotani ha voluto, in questa fase di lavoro, che gli allievi comprendessero con mano e con la testa che l’arte della ceramica non è una disciplina chiusa in se stessa, ma un artigianato generato dalla diversità della cultura quotidiana composta da diversi sistemi di conoscenze e di tecniche. A ben pensarci, infatti, ogni utensile usato nella vita quotidiana non è forse un prodotto di questa continua attività di ri-tessere le conoscenze, le esperienze e le tecniche?
Nella seconda fase del corso, Shirotani ha chiesto a due professionisti della cucina (uno specialista delle cucine tradizionali e uno chef della cucina francese) di trovare diversi modi di cucinare i tre ortaggi scelti. Le due sessioni di degustazione sono state occasioni per comprendere non solo teoricamente ma anche attraverso i cinque sensi (aromi, gusto e colori del cibo) il processo che trasforma i prodotti agricoli locali in piatti ricchi e freschi, creati senza troppo rispettare gli usi tradizionali degli ingredienti. I due professionisti del cibo hanno trovato modi efficaci per sfruttare le caratteristiche organolettiche di quei prodotti locali, non sempre facili da cucinare, riuscendo persino a farne intravedere una prospettiva di commercializzazione futura. Il loro lavoro è stato proprio una grande progettazione culinaria che ha portato contributi importanti anche all’agricoltura. In questo senso i giovani ceramisti hanno avuto molto da imparare da questi due progettisti culinari.
In ultimo, e solo in ultimo, è arrivata la produzione della ceramica tanto attesa. Delle numerose ricette proposte ne sono state scelte tre, e gli allievi sono stati suddivisi in tre gruppi per creare piatti che facessero risaltare i cibi. Dopo aver tenuto conto non solo di come potessero risaltare i cibi esteticamente, ma anche degli scenari in cui essi vengono consumati, finalmente è stato possibile individuare il diametro, la profondità, i colori e anche quali rifiniture fossero adatti e necessari per ogni piatto. Le qualità formali della ceramica non sono solo questioni estetiche. Ogni volta ci si dovrebbe interrogare su questi elementi, spesso considerati come ovvi, perché comportano esigenze funzionali molto complesse, proprio come avviene nella definizione di forme, dimensioni e colori di un fiore in Natura. Gli allievi hanno imparato esattamente questo: l’organicità del processo di genesi della ceramica.
L’arte della ceramica tende a essere spesso un’espressione di ego dell’artista, eppure in origine le ceramiche erano utensili per portare il cibo in tavola. Non era il piatto il protagonista. Creando la ceramica atta a esaltare i cibi realizzati con i prodotti degli agricoltori locali, aiutando così gli altri piuttosto che cercando la soddisfazione dell’ego personale, gli allievi del corso sembrano aver provato un tipo di soddisfazione mai conosciuta. Sin dall’inizio il progetto prevedeva il ruolo non protagonista della ceramica, la cui funzione sarebbe stata unicamente quella di mettere in risalto le verdure sul depliant pubblicitario del cibo.
Inglobando conoscenze e tecniche di altre discipline come agricoltura e cucina, il processo di produzione della ceramica è diventato più “organico”. Nel Hito/Mono zukuri Karatsu project, Shirotani è riuscito a portare gli allievi ancora più in giù lungo lo schema dell’albero della progettazione, sul quale l’agricoltura si collocherebbe quasi all’altezza della superficie della terra, anzi siamo già un po’ nella terra. In effetti, l’agricoltura è un’attività che si svolge esattamente sul confine tra Natura e Uomo. E il cibo (anche se la cucina può essere raffinatissima come altre arti tradizionali) è un territorio legato al senso più fondamentale della vita, comune a tutti gli individui, quindi possiamo collocarlo tra l’agricoltura e le altre attività, forse all’altezza del tronco. Partendo proprio dall’altezza della terra, poi soffermandosi ancora all’altezza del tronco, gli allievi di Shirotani, ancora più degli allievi di Mari, hanno sfruttato con attenzione quasi l’intero albero di progettazione per arrivare poi sulla punta di un ramo, producendo in modo molto organico dei frutti (piatti in ceramica) che sembravano quasi naturali, nati dalla stessa terra di quegli ortaggi. Ed è probabilmente per questo che i cibi provenienti da quella terra risaltano così bene su quei piatti. È vero che nelle opere degli allievi permangono ancora delle imperfezioni, ma tutti i partecipanti al progetto hanno confermato l’inequivocabile significato di questa esperienza: “mangiare le verdure cresciute dalla terra di Karatsu su piatti realizzati con la terra di Karatsu”.
Progettazione nel 21° secolo
Il seme della progettazione sembra dunque ben attecchire in Giappone nel suo territorio socio-naturale. E sembra insegnarci alcune cose. Prima di tutto la “progettazione” così come era intesa un tempo, non è assolutamente obsoleta, anzi, sarebbe fondamentale ricostruirla per la nostra sopravvivenza nel futuro. Poi, ci ha fatto capire in che cosa consistesse esattamente l’essenza della progettazione: uno sfruttamento organico dell’intero albero di progettazione (sistema di produzione).
Tuttavia, per il progettista del 21° secolo non basta più un buon sfruttamento dell’albero di progettazione, che mira a una buona produzione soprattutto quantitativa. Oggi un buon progettista deve iniziare a curare la salute dell’albero stesso e anche dell’ambiente circostante, senza eccedere nella produzione. La missione dei progettisti del 21° secolo riguarderebbe in effetti la salute non solo dell’albero, ma della foresta intera. In altre parole, dobbiamo effettuare l’ecologia dell’ambiente sociale (la parte visibile dell’albero), mentale (le radici) e naturale (la terra) contemporaneamente