Il progresso come immaginario / Fragile

24 Luglio 2020

Gli ultimi anni hanno reso evidente il declino di uno dei grandi miti della modernità, quello del progresso. Parliamo apertamente di “mito” per fuggire un facile malinteso; ovvero poiché tale crisi non ha investito la nozione tout-court di “progresso”, bensì una sua specifica accezione otto-novecentesca. Quella di una Zivilization universale, finalisticamente determinata, sorretta dalla fiducia in una crescita illimitata, nell’allargamento indeterminato dei mercati, nell’estensione sconfinata della città, nella sovrapproduzione alimentare, nella liberazione dal lavoro manuale e dal mantra dell’innovazione per l’innovazione. 

Questa costellazione di idee è rapidamente precipitata in una realtà storica opposta. Un mondo caoticamente globalizzato, sovrastato dal sovraccarico informativo, economicamente instabile, ecologicamente insostenibile e cinicamente disilluso sul piano dei rapporti di lavoro e della ridistribuzione delle risorse. Questo ci pon — con eclatante offesa per una concezione lineare della storia — di fronte a un secondo e più tecnologico Ottocento, nel quale, epidemie a parte, assistiamo a nuove lotte tra imperi e nazioni, movimentazioni di massa, rivoluzioni industriali. Non un nuovo Ottocento — perché la storia non ha certamente il tempo di ripetersi —, bensì un’epoca che, rimosso il velo di Maya del dopoguerra, si scopre innanzi a una rete di problemi e conflitti analoga a quella che smuoveva la prima metà del XIX secolo, celata dietro una trama novecentesca di ideologie, utopie, catastrofi e nuove catastasi, e mai del tutto risolta.

 

Fragile, il libro di Francesco Monico, pubblicato per Meltemi nel 2020, prende le mosse da questa consapevolezza, e dall’urgenza di fare i conti con un’accezione semplicistica del progresso forgiata dallo sviluppo economico e tecnologico. Soprattutto, di farvi i conti attraverso metodi e tradizioni che rompano la continuità col secolo breve e che ne dissacrino la necessità, la forza mitica, il peso causale sul corso odierno della storia, per mostrare che quel mito è stato una drammatica messinscena, una carrellata di loci retorici; e che il nostro mondo contemporaneo è, fondamentalmente, un esercizio di contraffazione della storia, un tentativo di produrre il divenire dei fatti secondo canoni e aspettative culturali e sceniche, soddisfacendo una necessità di narrazione che è intrinseca dell’uomo stesso e che è stata àncora di salvataggio lungo i decenni cupi e disorientanti che hanno scritto la fine del mito e del classico.

Il Novecento, dunque, come evento teatrale e, non di rado, come farsa apollinea che tenta di trattenere in vita un orizzonte mitico; ri-mediandolo, ovvero rimettendone in scena i protagonisti, e aprendo per essi uno spazio di azione nella grande categoria del falso. Questo è, d’altra parte, uno degli aspetti più interessanti di un volume labirintico, che prende sul serio la categoria della finzione mentre osa non prendere sul serio snodi storici che tutti sappiamo come decisivi, iper-raffigurati, ipostatizzati nel loro volto tragico e nell’eschaton che, attraverso il tragico, vi si rivela. Quel secolo, obietta tra le righe Monico, è stato soprattutto una chimera dell’immaginario; per certi versi una sontuosa messa in scena in cui la storia si è confusa con la tecnica e la conoscenza con la precisione; un teatro in cui la guerra si è fatta spettacolo e lo spettacolo, dominio, e che ha riletto a ritroso la storia umana alla luce di questa prospettiva.

 

Per comprendere questo aspetto va detto che il punto di osservazione di Fragile è duplice. Da una parte il passato; categoria che — animali narrativi ancor prima che storiografici — assumiamo spesso come immobile memoria che muove inesorabilmente verso il presente, e raramente consideriamo in se stesso, come una forza cieca che sopravvive e opera virtualmente nel presente. Il passato puro, dunque, dalla cui prospettiva guardare al mito del progresso come a uno strenuo tentativo di non rinnovare il mondo; un tentativo che è quello di trasformarne le urgenze, i cataclismi, i dilemmi, in una recita la cui conclusione appaia necessaria e provvidenziale, e sciolga tensioni e conflitti in un’irenica sintesi di civiltà e necessità. Dall’altra parte, l’arte contemporanea, nemesi epimeteica della sbornia tecnica occidentale; capace di rompere i nessi e le logiche che il mondo industriale e ipertecnologico sorto tra Otto e Novecento ancora sorregge. 

Da entrambi questi lati, il metodo di Monico si muove costantemente nella sagoma di un padre nobilissimo, cioè Nietzsche (letto specialmente alla luce di un trascendentalismo à la Emerson), nel tentativo di dissacrare e sfatare quell’immagine e quella narrazione solo falsamente progressista, con cui il nostro mondo ha proseguito a eludere una transvalutazione totale e radicale di visioni e valori, che già l’Ottocento annunciava e pretendeva. Solo tangenzialmente, quindi, Fragile si può associare alle analisi marxiste e post-marxiste che lungo tutto il Novecento hanno indagato analoghi temi a partire dai concetti di Ideologie e di Überbau; una tradizione che trova in effetti nell’analisi del mondo tecnologico una delle principali criticità teoriche.  

 

 

Al di là delle parentele, il metodo di Monico recupera un autore in particolare, Marshall McLuhan. Nel panorama italiano McLuhan ha sofferto di una ricezione scettica e non di rado tiepida, ma ha comunque il merito di aver messo al centro il concetto di medium come nozione chiave, da utilizzare ben al di là della semplice “media theory”. Da McLuhan Monico riprende uno stile di scrittura che avanza per metonimie, ma anche un metodo di lavoro che Fragile ambisce a esplicitare sullo sfondo di una prospettiva a tratti metafisica. Vale dunque la pena, in questo breve testo, soffermarsi in particolare sul metodo del libro, che ne rappresenta lo sforzo senza dubbio più potente e senza comprendere il quale i contenuti del libro perdono parte della loro forza.

Innanzitutto l’approccio di Monico è quello di un “media theorist” che, come il tardo McLuhan di The Laws of Media, applica questo approccio direttamente al reale; ciò a partire da una tesi apertamente delineata dal “capitolo zero” di Fragile: la preliminare riduzione della realtà conoscibile alla categoria di immaginario:

 

una strategia a cavallo fra registro scientifico e poetico-letterario, attraverso una frizione continua che sfocia in un ricercato phronein, termine che ritorna lungo tutto il testo e che significa una comprensione sia razionale che ideale di chi cerca una sintesi a una irrazionalità a cui non può rinunciare in quanto essere umano. Tale strategia ha l’obiettivo di creare un limen del possibile in cui si confondono scienza e immaginario, razionalità e intelligenza, realtà e fantasia; una terra di tutti e di nessuno in cui la scienza è mutata senza ancora esser divenuta mero immaginario e l’immaginario si è codificato senza essersi irrigidito in scienza (p. 30). 

 

Questa nozione di immaginario è, per Monico, fondamentale, ed è una nozione in fin dei conti negativa; essa afferma che nessun discorso razionale è davvero razionale, ovvero che qualsiasi discorso umano è la congiunzione di elementi razionali, poetici, immaginifici, in una semiosi infinita e sempre aperta, non lontana da quella dell’arte contemporanea. Un approccio radicale che si disfa (a volte fin troppo rapidamente) della nozione di “metodo”, dissolvendolo interamente nella sua discendenza moderna dalla retorica e poggiando, di fatto, sulle celebri critiche heideggeriane di L’epoca dell’immagine del mondo e di La questione della tecnica.

D’altra parte, Monico recupera da Gottschall la nozione di Homo Fictus, che sottrae al contesto antropologico per farne la chiave di una visione in fin dei conti ermeneutica del rapporto tra uomo e mondo: pensare significa innanzitutto immaginare, fingere, raccontare storie. In questo ambito si iscriverebbe persino il pensiero tecnico-scientifico del Novecento, che è una forma specifica di tale pensiero, e mai si affranca totalmente da esso. Di conseguenza il lavoro sulla nozione novecentesca di progresso non può che vertere sul suo immaginario, su una struttura di intenzioni, attese, idee, fantasmi, che è la sua autentica materia prima e che ci permette di ridurre il progresso stesso a un artefatto, a un oggetto di finzione che guida tuttavia le nostre azioni e le nostre scelte. In ciò l’autore non nasconde l’intenzione di porsi in continuità con lo strutturalismo del primo Foucault, qui tuttavia utilizzato nel senso di una archeologia generale dei media. 

Si tratta perciò, come scrive Monico, di redigere una

 

storia delle idee quale narrativa generata da discorsi che emergono in base alle relazioni che essi implicano. Così questa archeologia analizza il rapporto fra formazioni discorsive e non-discorsive, fra saperi e comportamenti sociali. Rende manifesto come si tenda a proiettare la conoscenza sulle esperienze passate e future, trasformando i dati dell’esperienza in narrazioni. Un “discorso” è allora un parlare e insieme interpretare come atto linguistico non libero da intenzioni, e per questo definito è un “enunciato” che reca in sé, oltre al suo oggetto, le regole di cosa renda un’espressione veicolo di significato. Non si tratta di regole sintattiche e semantiche, le quali non bastano a determinare il significato, ma bisogna tenere presente le condizioni in cui esse si presentano, come operano all’interno del discorso, come collegano le parti, in quali successioni si presentano e come modificano e vengono modificate dal contesto (p. 25). 

 

Per la fluidità introdotta tramite il concetto di immaginario, Monico può dunque muoversi lungo un territorio volutamente ambiguo e “di frontiera”, trattando sostanzialmente il mito del progresso come un ipertesto da decostruire attraverso un altro ipertesto, che è Fragile stesso:

 

il testo ricerca la fragilità del reale e la solidità di un immaginario prodotto da un reale fragile. Il testo affonda in un mascheramento letterario che altro non è che un altrettanto fertile stratagemma: il lettore viene sollecitato a una possibile sovversione della realtà, un universo “ampliato”, che prevede personaggi propri dell’età della tecnica: zombie, robot, cyborg, intelligenze artificiali, continenti di rifiuti ed eroi transumani, l’artifizio letterario funziona da “apriti sesamo”. 

 

Dicevamo che Monico recupera coraggiosamente il metodo di McLuhan e in generale della media theory; lo fa specialmente attraverso una scrittura che procede come rete caotica di immagini, riferimenti, figure, e soprattutto come un dispositivo volto a disorganizzare performativamente, piuttosto che a organizzare argomentativamente. Ciò perché tale disorganizzazione assolve ai compiti di una fase di analisi, intesa come decostruzione attiva e capace di costituire una forma, prevalentemente analogica, di comprensione. 

Al lettore che non abbia coscienza piena di questo metodo, Fragile potrebbe dunque apparire per lo più una giustapposizione di idee, spunti, aneddoti, stralci di storia, di scienza e di fantascienza, molti dei quali già noti e discussi; all’opposto, esso è un libro che, attraverso questo mosaico, tenta di far emergere come la nostra cultura, e in essa soprattutto l’immaginario del progresso, non cessi di essere proprio una giustapposizione di dimensioni eterogenee:

 

Il contenuto e le modalità narrative di Fragile sembrano caratterizzarsi per un continuo reiterarsi del passaggio dimensionale fra reale e immaginario, tra metodo scientifico e incantamento poetico, ponendosi l’obiettivo di coinvolgere il lettore nella narrazione e nel perturbante sostrato di una “contemporaneità in costante accelerazione” ma anche e soprattutto immaginifica (p. 27). 

 

Cosa emerge, in ultimo, da questa analisi? Tra le molte cose, essa propone un’ulteriore convergenza col pensiero di McLuhan, che ci sembra costituire l’intuizione più notevole del libro di Monico. 

Come McLuhan aveva ben compreso, il medium non è mai un acceleratore di innovazione, ma, fondamentalmente, costituisce una dimensione conservativa. Il medium è intrinsecamente rimando e semiosi, ma soprattutto non è mai immune dai rischi di una “sindrome dello specchietto retrovisore”. La realtà mediale, ovvero, è un archivio aperto e sempre sovraccarico dei media precedenti, delle loro stratificazioni e delle connessioni che il tempo ha rinforzato e, appunto, solidificato, in nuovi raccoglitori, in nuovi media. È principalmente questo uso, questa dimestichezza che proviene dalla memoria e dal passato, ciò che rende alcune reti di idee — ciò che Monico definisce “immaginario” — più verosimili e potenti di altre.

Dunque, ci dice Fragile, quella di “progresso” è non soltanto una giustapposizione di vecchie idee, ma è sempre, paradossalmente, anche un dispositivo assolutamente conservatore, che scarta talune concezioni allo scopo di mantenerne delle altre, che già possiede. Lavorando come archeologi nell’immaginario del progresso non troviamo, dunque, autentiche concezioni del futuro, bensì sedimenti di immagini sempre-già-vecchie dell’innovazione, reperti che rendono tale concetto un autentico paradosso, e che ne fanno l’oggetto di un’analisi che deve vertere principalmente sulle sue architetture narrative, sui suoi personaggi scenici e sulle sue strutture retoriche, che appartengono fondamentalmente al genere del racconto utopico. 

 

In ultimo, Fragile è un lavoro che può essere legittimamente definito sperimentale, innanzitutto perché fa della scrittura un laboratorio di ricerca, e perché approccia il tema del progresso per sperimentare specialmente un metodo di lavoro. La sua intenzione fondamentale è, d’altronde, quella di osservare un “prima” metodologico rispetto all’affermarsi, tra Otto e Novecento, di una cultura solidamente tecnologico-scientifica. Tale “prima”, per il peculiare approccio di Monico, ci è fornito proprio nell’analisi culturale, storica e mediologica, e nel recupero della natura narrativa della nozione di progresso. Nozione che — questa forse l’accusa più efficace mossa da Monico a tale concetto — appare come camouflage della violenza intrinseca della cultura occidentale, dei suoi sfruttamenti capillari e automatizzati, e di una forma di vita che ha essenzialmente rifuggito una libertà concepita in senso trascendentale. 

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