Nanni Balestrini, l’opera al nero – e a colori
L’angelo della storia vola ad ali dispiegate, sospinto da una bufera. Questa bufera lo spinge inarrestabilmente nel futuro, a cui egli volge le spalle, mentre verso il cielo cresce il cumulo delle macerie davanti a lui: che, da quelle macerie, non può distogliere gli occhi spalancati. L’immagine della Nona Tesi Sul concetto di storia di Benjamin è abusata, certo, ma in pochi casi come questo pare adeguata a rendere l’insieme di vorticoso movimento energetico, e lancinante fissità orrorosa, che restituisce l’opera di Nanni Balestrini. Il quale del resto aveva scelto un emblema aereo, verso la metà degli anni Settanta, quale propria allegorica controfigura poetica: la signorina Richmond, androgino e astratto auto-travestimento, è insieme la Poesia e la Rivoluzione. Screziata bellezza cangiante, anzi (con altro montalismo) «iridescente», come si legge nella Descrizione superficiale della signorina Richmond – prima delle «Ballate» che ne cantano le gesta – il «piccolo gioiello alato» si riveste di tutti i colori: «sta quasi sempre nascosta e vola raramente / data la sua natura timida e solitaria / spicca per la bellezza dei colori delle sue piume / il suo petto candido e immacolato // attraversato da una striscia color smeraldo / splendente con ciuffi di piccole piume / verde metallico che si aprono / come un ventaglio brillante».
E come Benjamin s’era ispirato a un quadro, l’Angelus Novus di Paul Klee (non privo di appendici metalliche che si aprono, a rostro, sull’allucinazione del mondo), così Balestrini s’ispira – come racconta nella Seconda Ballata – alle figure di Baruchello inscatolate (alla Galleria Schwarz di Milano, nel marzo del ’75: riportano le Notizie varie allegate ai testi all’atto di raccoglierli una prima volta, nel 1999, nelle Avventure complete della signorina Richmond): e proprio Baruchello illustrerà da par suo, nel ’77, una prima raccolta delle «Ballate» (pubblicata, allora, dalla Cooperativa Scrittori).
Ora il ciclo – raccolto in altri tre libri, sino al ’92, con caustici allegati-remix del ’93 e del ’97 – riempie di sé i tre quarti del secondo volume delle Opere poetiche di Nanni, Le avventure della signorina Richmond e Blackout (pp. 509, € 25, con attenti quanto partecipati paratesti firmati da Cecilia Bello Minciacchi): che, due anni dopo Come si agisce e altri procedimenti (comprensivo delle poesie dei Cinquanta e Sessanta), prosegue il ciclo edito da DeriveApprodi.
E sempre più chiaro emerge, da questa rilettura a distanza, il valore di testo a fronte – di allegorica “messa a terra” delle aeree immagini poetiche – che hanno sempre, in Balestrini, le terrestri immagini dell’arte. I lavori degli amici artisti – da Lucio Fontana a Piero Manzoni, da Mario Schifano a Giosetta Fioroni, illuminati nelle oblique ekphrasis di Ma noi facciamone un’altra, 1968 – ma anche, come vedremo, i testi più esemplari del Canone. Sicché ha il senso di una mise en abîme, di un echeggiamento prodigiosamente sincronico, l’allestimento (alla Fondazione Mudima di Milano, sino al 10 febbraio, a cura di Manuela Gandini) di una ricca personale dei lavori appunto visivi di Balestrini, risalenti agli stessi anni Settanta e Ottanta, con un titolo – Vogliamo tutto – che rinvia subito a quello più celebre, ed emblematico sino a ridursi a slogan, della sua opera letteraria (il romanzo «operaista» del 1971, più volte ristampato: da ultimo, nel 2013, negli Oscar Mondadori).
Vi scorrono i fotogrammi di un film convulso e, bretonianamente, convulsivo: quello del drammatico tornante fra gli anni delle Lotte e dei Terrori e quelli delle Sconfitte e degli Esilî. Come nell’immagine spettrale dell’attacco di Settembre Nero a Monaco 72, Les terroristes (del 1983): il profilo di un uomo incappucciato che guarda nel vuoto, lo sguardo perfettamente allineato col bordo orizzontale di una costruzione alle sue spalle, sporgendo da una struttura in cemento come da un istante congelato della Jetée di Chris Marker (all’immagine si sovrappongono, al solito, ritagli di giornale che ne compongono una didascalia straniante quanto amaramente ironica: «Les terroristes, / c’est aussi un beau film / La fête interrompue / Le train de la révolte / du bout du monde / ou le phantasme»).
Allo stesso modo, nelle pagine del libro, insieme alle Ballate convergono – ad anticipare e proseguire il loro valore di “cronaca” allegorica del nuovo medioevo di quegli anni, tra antipsichiatria, filosofia desiderante, moti di piazza («La signorina Richmond propone che i lama stiano in Tibet») e, poi, inopinato trionfo della «cultura spettacolo» («la cultura dei professionisti di massa / di merda che lavorano per le masse di merda») nei «magnifici anni 80» ovvero «gli anni di merda» («gli anni / della restaurazione dell’opportunismo del cinismo / con tanti soldi cocaina fotomodelle per chi ci sta / eroina o muccioli per chi proprio non ci sta») – due splendide rarità verobovisive: Non capiterà mai più, del ’72 (ma edito per la prima volta nel 2008), e Vivere a Milano del ’76. Nel primo lavoro le immagini – collages giornalistici, Cronogrammi di «poesia concreta» come quelli che già nel ’63 figuravano nell’Appendice di Come si agisce (ma ora flash laceranti di una «violenza illustrata» come quella di cui Balestrini si farà cronista «controstorico» nel libro omonimo del ’76: «liquidazione totale / sulla pista / di sangue / siamo all’inizio») – sono convocate direttamente quale testo a fronte, appunto, di versi di Nanni dalla fattura, a loro volta, collagistica. Nel secondo, invece, accompagnano a distanza frammenti di cronaca similmente frantumati e ricomposti dal cut up caro a Balestrini (il bellissimo ciclo di fotografie omonimo di Aldo Bonasia è in parte riprodotto nella mostra alla Mudima, e poteva magari trovare spazio anche da qualche parte nel libro).
Ma il ricchissimo volume DeriveApprodi si conclude, poi, con quelli che vanno indicati come i capolavori assoluti di Nanni poeta: Blackout del 1980 (pubblicato nell’anniversario della persecuzione e della fuga rocambolesca in sci, attraverso le Alpi; la dedica suona infatti «Per i compagni perseguitati 7 aprile 1980») e Ipocalisse del 1986 (ma composto in Provenza fra lo stesso ’80 e l’83). Il primo è un vero e proprio «iconotesto», come è invalso definire quei lavori verbovisivi nei quali immagine e parola si compongono – in una partitura che per di più, in questo caso, è anche musicale: perché Nanni vi ricorda, insieme, la grande interruzione di energia che abbuiò New York nell’estate del ’77 e la morte, sempre a New York il 13 giugno 1979, di Demetrio Stratos – in insiemi felicemente insubordinati.
Ha ragione Tommaso Ottonieri (in un testo del 2012 opportunamente campionato da Gualberto Alvino nell’antologia della critica in fondo al volume): «il suo poemetto forse più intenso, e necessario, e importante […] e al tempo stesso, opera-chiave, autentico manifesto in re, per il concetto “poetico” e cioè politico di questo artista totale della parola». Il blackout è, fra le altre cose, quel «fondo nero» che già nei Cronogrammi precedenti alludeva (come scrive Bello Minciacchi) al «frastuono, l’inchiostro, il piombo vero e mai accusato […] delle rotative, della stampa periodica che induceva (e continua a indurre) il terrore nel suo pubblico. È onnipervasivo. Quelle strisce di cronaca erano e sono tuttora reperti, eppure dicono anche, pienamente e sinistramente, del nostro presente» (si pensa pure al nero petrolifero del Tristanoil a venire, che allude alla tinta non meno persa della società dello spettacolo multimediale di oggi).
Il secondo è una corona di 49 sonetti «minori», in quanto non endecasillabici, e anzi spesso «microsonetti» (così ancora Bello Minciacchi), in quanto composti da versi brevissimi, come nella bellissima serie «Cieli». Letti di seguito uno all’altro, si capisce come i due libri della Sconfitta e dell’Esilio compongano un chiasmo: quanto quello “illustrato” mette a tema l’oscuramento e la cecità procurata (tanto più violenta quanto più lo sono le sue immagini, come quella terribile del cervello di Giannino Zibecchi sul selciato, a Milano nel ’75, in una foto proprio di Bonasia), quello “nudo” evoca paesaggi topici del più classico repertorio poetico (dalla Valchiusa di Petrarca a Finisterre di Montale) e artistico (il ciclo della Montagna Sainte-Victoire di Cézanne): «parole-colore», come le ha definite Niva Lorenzini, tanto più visive (e anzi visionarie) quanto più deprivate delle immagini cui riferiscono («la montagna / non si vede», dicono i versi; e lo stesso accade nel ciclo Sainte-Victoire, dell’82, esposto alla Mudima: dove presenti, semmai, sono i colori di Cézanne).
Ma non attende gli anni Ottanta postmodernisti, il Balestrini artista, per lavorare sulle immagini della tradizione, da lui scomposte e ri-composte come da sempre fa con le parole nelle sue poesie, tanto «concrete» che «lineari». Risale al 1964, in effetti, una serie intitolata I maestri del colore (esposta nel 2014 alla Fondazione Marconi), collage presi dalla popolare collana omonima pubblicata allora da Rizzoli (nello spirito della pop art di quegli anni, che accedeva anche alla propria tradizione, quella artistica, per tramite della sfera mediatica): nella quale per esempio La bella nani del Veronese si vedeva rivestita di parole ritagliate e altre immagini sovrapposte a collage. Il suo ultimo, magnifico lavoro pittorico torna su questa maniera con La Tempesta Perfetta (già vista a Venezia due anni fa, alla galleria Michela Rizzo, e ora – nella cura di Achille Bonito Oliva, in collaborazione con la Fondazione Luigi Bonotto – al MACRO di Roma fino al 17 aprile), che “lavora” su un unico, celeberrimo esemplare della tradizione: La tempesta, appunto, del Giorgione (seguendo la traccia del «paranoico-critico» Dalì, che lo definì «la prima opera d’avanguardia, in quanto il dipinto […] comunica senza spiegare»).
Dalle Scomposizioni – che frantumano l’immagine originale associandone i frammenti, con procedimento random, a versi prelevati dalla Tempesta shakespeariana – all’Implosione – che vi sovrappone invece facsimili di dollari e frammenti del Pound di Contro l’usura – Implosione il quadro di Giorgione è portato a rappresentare i flutti della grande Crisi finanziaria, nei quali tuttora annaspiamo. Splendono, alla fine del percorso, otto grandi arazzi (realizzati dalle tessiture Bonotto) Eden dal titolo Eden: nei quali, come già della Sainte-Victoire di Cézanne, non si riconoscono più le forme dell’immagine ma ne vengono ripresi i colori primari, variegati e marezzati alla maniera in cui, nella grande opera video Tristanoil esposta a Documenta nel 2012, si disgregavano le immagini mediatiche dell’exploitation petrolifera.
Qui lampeggiano le parole del libro della Genesi, dell’Antico Testamento: il quale, come indicò sempre negli anni Settanta Salvatore Settis in un suo celebre saggio, La «Tempesta» interpretata, è in effetti il vero nucleo d’ispirazione di Giorgione, che con quel flash enigmatico intendeva raffigurare la cacciata di Adamo ed Eva dal Paradiso Terrestre. Ancora una volta l’Esilio, dunque: a sintetizzare, come scrive in mostra Patrizio Peterlini, tutte quelle perdite – di patria, di passioni, di senso – sulle quali, esuli e raminghi, non possiamo che fondare le nostre esistenze.
Una versione più breve di questo articolo è uscita sul «manifesto». Le avventure della signorina Richmond e Blackout verrà presentato alla Fondazione Mudima (Via Tadino 26, Milano) giovedì 9 febbraio alle 18. Intervengono con l’autore Cecilia Bello Minciacchi, Daniele Giglioli, Milli Graffi e Antonio Loreto; seguirà un reading da Blackout con la regia di FrancoBrambilla, musiche di Demetrio Stratos, con Silvano Piccardi, Gianni Calò, Barbara Nicoli e Pina Irace.