Speciale

Leonardo Sciascia / Una storia semplice

25 Febbraio 2019

Sono trascorsi 30 anni da quel giorno di novembre in cui Leonardo Sciascia ci ha lasciati, trent'anni in cui il paese, che lui ha così bene descritto, è profondamente cambiato, eppure nel profondo è sempre lo stesso: conformismo, mafie, divisione tra Nord e Sud, arroganza del potere, l'eterno fascismo italiano. Possibile? Per ricordare Sciascia abbiamo pensato di farlo raccontare da uno dei suoi amici, il fotografo Ferdinando Scianna, con le sue immagini e le sue parole, e di rivisitare i suoi libri con l'aiuto dei collaboratori di doppiozero, libri che continuano a essere letti, che tuttavia ancora molti non conoscono, libri che raccontano il nostro paese e la sua storia. Una scoperta per chi non li ha ancora letti e una riscoperta e un suggerimento a rileggerli per chi lo ha già fatto. La letteratura come fonte di conoscenza del mondo intorno a noi e di noi stessi. De te fabula narratur.

 

“Nessuno ha una vita degna di considerazione di cui non si possa raccontare una storia”, scriveva Hannah Arendt in un saggio su Karen Blixen; e, allargando, si potrebbe affermare che qualsiasi vita diventa degna in forza della storia che la redime. Questo perché, sempre citando la filosofa, la storia “rivela il significato di ciò che altrimenti rimarrebbe una sequenza intollerabile di eventi”. Nel campo letterario vengono alla mente in primis la biografia e l'autobiografia, ma la narrazione in sé possiede l'ambizione (non sempre giustificata) di dare demiurgicamente forma ai fatti disordinati o ciechi e sordi della vita individuale e sociale. Il trionfo universale dello story telling. Allora ancor più l'opera ultima rischia di caricarsi del compito ricapitolativo della vita del proprio autore: una specie di egemonia dell'opera che reimposta con il suo sigillo definitivo l'esistenza del suo creatore arreso. Inoltre l'ultima opera, per un tale forzato difetto ottico, tende a dare il proprio senso anche alla produzione precedente. Un compito gravoso per la sessantina di pagine, pubblicata da Adelphi nel dicembre 1989, ad un mese dalla morte di Leonardo Sciascia, intitolata Una storia semplice. Il lettore deve resistere, addirittura sottrarsi alla forza magnetica dell'opera finale, o un poco lasciarsi andare all'attrazione, seppure con le giuste cautele? Vediamo. 

 

In primo luogo questo racconto lungo è indubbiamente un giallo, genere a lungo frequentato da Sciascia. Il quale ha scritto anche una Breve storia del romanzo poliziesco (poi in Cruciverba, Einaudi 1983), che partendo dall'inchiesta di Daniele sui vecchioni calunniatori di Susanna nella Bibbia, tocca il fondatore Poe, i massimi esempi tra Otto e Novecento, soffermandosi su distinzioni ormai canoniche come quelle tra investigatori intellettuali (ed esteti) e poliziotti borghesi alla Maigret, scuola europea e scuola dei duri americani. La definizione iniziale, mutuata dal Sistema delle arti di Alain, dei polizieschi come “passatempo” in cui “la mente diventa una specie di tabula rasa che passivamente registra tutti quei dati che soltanto la mente dell'investigatore sa e deve decifrare, trascegliere, coordinare e infine sommare e risolvere”, viene tenuta ben ferma; il finale però registra questa dichiarazione: “Ma a questo punto dovremmo parlare dei grandi scrittori che, per divertimento o congenialità, hanno scritto dei gialli. Greene, appunto. Bernanos. E Gadda. Ma è un discorso diverso. Ci basta ora finire con Gadda: che ha scritto il più assoluto giallo che sia mai stato scritto, un giallo senza soluzione.” Dove si collochi lo stesso Sciascia è inutile dire, che tutti i suoi lettori lo sanno. Tuttavia nella Storia semplice sono presenti gli snodi fondamentali del giallo: una telefonata notturna alla polizia quale incipit, i dettagli che non tornano (per esempio la presenza nella vecchia masseria disabitata da anni di un allaccio telefonico o il ritrovamento a colpo sicuro di un interruttore da parte dell'assassino che così si smaschera), il colpo di scena insolitamente da action movie con il duello in ufficio tra brigadiere e commissario, le ricapitolazioni in corso d'opera a beneficio del lettore: “Ricostruiremo”; “Punti da vagliare”; “– Riassumiamo – disse il questore”. 

 

Nel suo saggio storico Sciascia si sofferma molto sui protagonisti dei polizieschi; qui si tratta sostanzialmente del brigadiere Antonio Lagandara, coadiuvato dal professore in pensione Franzò. Una alleanza tra due tipi umani forse additabili a modello positivo nella società italiana mai troppo specchiata. Il primo è un giovane di origini contadine, che ha già fatto una buona carriera per propri meriti, ma ambisce a migliorarsi studiando nel tempo libero per prendere una laurea e magari favorendo così le laboriose elaborazioni dei verbali, tanto faticose per un dialettofono rispetto alla rapidità di altri colleghi. Ma c'è anche lo scrupolo dello scrivano, certamente scrittore di cose e non solo di parole per richiamare una distinzione pirandelliana cara a Sciascia, che lo fa entrare nel novero dei pupilli dell'autore: “il fatto di dover scrivere delle cose che vedeva, la preoccupazione, l'angoscia quasi, dava alla sua mente una capacità di selezione, di scelta, di essenzialità per cui sensato ed acuto finiva con l'essere quel che poi nella rete dello scrivere restava. Così è forse degli scrittori italiani del meridione, siciliani in specie”. Del resto Sciascia ha sempre rivendicato il valore conoscitivo della narrativa, per esempio mentre andava alla ricerca della parola “mafia” in Cervantes e Borges: “È chiaro che non sto rifugiandomi nella letteratura per cercare alibi, ma – come sempre – per capire.” (L'Espresso, 16 marzo 1986).

 

Le origini del brigadiere, all'inizio descritte con ironia perché lo portano a “raccogliere asparagi e cicorie, festosamente” una volta terminato il sopralluogo attorno alla masseria, lo aiutano pure a cercare la verità e a sopravviverle allorché scopre il colpevole nel proprio superiore: “L'atavico istinto contadino a diffidare, a vigilare, a sospettare, a prevedere il peggio e a riconoscerlo gli si era risvegliato fino al parossismo.” Si tratta di un intellettuale suo malgrado, uno scrittore ed ermeneuta siculo che discetta sul punto messo incongruamente alla fine della frase sul messaggio del morto: quel “Ho trovato.” con il punto fermo che gli fa smontare subito la messa in scena del suicidio, la storia semplice voluta dalle autorità. Le quali spingevano per l'insabbiamento, avvertendo il brigadiere-scrittore: “Non facciamo romanzi”; presumendo cioè il romanzo puro cumulo verbale e non invece, come già teorizzato, denso di cose. 

La spalla di Lagandara, decisivo con la sua testimonianza, è il vero intellettuale, il professore che entra nella vicenda in modo fulmineo, presentando la stessa nobile carta d'identità al magistrato inquirente: “– L'italiano: ero piuttosto debole in italiano. Ma, come vede, non è poi stato un gran guaio: sono qui, procuratore della Repubblica... –. – L'italiano non è l'italiano: è il ragionare – disse il professore. – Con meno italiano, lei sarebbe forse ancora più in alto –”. Da ricordarsi con il raddoppiamento, giustamente enfatico, della “g”, nell'interpretazione cinematografica di Gian Maria Volonté (regista Emidio Greco, 1991): “è il raggionare”! 

 

 

Attorno a questa alleanza illuminata, anche di classi sociali, grava una tenebra più o meno fitta. La moglie del morto, da cui è stata a lungo separata, accorre in cerca di eredità, portatrice solo di un'ideuzza razzista (“Era siciliano, e i siciliani, ormai da anni, chi sa perché, si ammazzano tra loro”). Il questore ha fretta di chiudere restando all'apparenza: un “caso evidente di suicidio”, che non va inutilmente complicato: “non farlo montare e sbrigarcene al più presto”; “troncare e sopire” avrebbe detto il diletto Manzoni. I carabinieri, irritati per essere stati avvertiti in ritardo, introducono una nota comica, schierandosi subito (ma per partito preso) con l'ipotesi contraria (e fortunatamente corretta) a quella dei rivali poliziotti. La vita negli uffici non sembra brillare per alacre intensità, come per umorismo: “il questore non è mai in questura a quest'ora”. E ancora, con bella sintassi, ironia e velata indignazione manzoniana: “Ascoltò, cercò sul tavolo una matita e un pezzo di carta; e mentre scriveva rispondeva che sì, sarebbero andati al più presto possibile ma appena possibile, così collocando la possibilità in modo da non illudere sulla prestezza.”

 

Con uno scatto si entra poi nelle complicità e nelle connivenze: il commissario faceva parte della banda che usava la masseria abbandonata come laboratorio per produrre droga ed è l'omicida del vecchio proprietario rientrato incautamente in casa propria. Don Cricco è un prete che, essendo della cricca, cerca di sviare le indagini restituendo forza all'ipotesi del suicidio. Infine, appena il brigadiere ha chiarito il caso, il procuratore tenta un'ultima alzata d'ingegno: “Se provassimo a ribaltare questa storia nella considerazione che il brigadiere mente e che è lui il protagonista dei fatti di cui accusa il commissario?” Proprio questo malinteso pirandellismo che, per forza di loquela, intorbida la verità nel gioco nullificante dei punti di vista, è l'atteggiamento che Sciascia aveva constatato con orrore nel processo a Tortora: “si tratta, ormai, di non riuscire a trovare nelle parole l'argomento, il concetto, il discorso. Le parole davvero volano; e continuano a volare senza identità, come gli UFO, quando si tenta di fermarli in scrittura” (Panorama, 7 settembre 1986). Se la verità viene qui accertata, risulta così scomoda (un tutore della legge dentro a un gruppo criminale che, non si dice, sarà di certo mafioso, visto che detiene un dipinto rubato che, non si dice, sarà L'Annunciazione del Caravaggio) da non rivelarsi assolutamente. Il figlio dell'anziano diplomatico, ritornato in Sicilia, “per sapere come e perché suo padre era stato ucciso, e da chi”, attenderà invano.

 

Il finale è però genialmente affidato a un personaggio del tutto marginale e senza nome. L'uomo della Volvo che ha visto in faccia e riconosciuto il prete come uno degli arrotolatori del dipinto frettolosamente spostato in un casello ferroviario. Questo viaggiatore di commercio e prezioso testimone viene duramente interrogato, trattenuto in cella e vessato dagli inquirenti: il suo tic di riconoscimento da personaggio piatto forsteriano è il grido (“Il malcapitato tornò ad urlare la sua protesta”). Potrebbe diventare un personaggio di spessore narrativo e morale, ma incontrando don Cricco all'uscita della questura, pensa: “E che, vado di nuovo a cacciarmi in un guaio, e più grosso ancora?” Sciascia nel saggio Goethe e Manzoni scrive che “don Abbondio sta lì, nelle ultime pagine del romanzo, vivo, vegeto, su tutto e tutti vittorioso e trionfante: su Renzo e Lucia, su Perpetua e i suoi pareri, su don Rodrigo, sul cardinale arcivescovo.

 

Il suo sistema è uscito dalla vicenda collaudato, temprato come acciaio, efficientissimo.” Don Abbondio è l'uomo della Volvo; a cui però risulta difficile dare torto se lo stato in Italia resta quello dell'Inquisizione e della Colonna infame, dei birri che portano via Pinocchio verso il processo istruito da un folle scimmione, dei casi G8 Genova o Cucchi, Tortora e Sofri su cui Sciascia a lungo medita con sofferenza nell'altro libro del dicembre 1989, quell'A futura memoria che raccoglie i suoi pezzi civili e d'intervento scritti su diverse testate nel corso del decennio precedente. Siamo sempre nell'Italia, “un po' giardino e un po' galera” per dirla con De Gregori, che incarnandosi in vari regimi ha incarcerato i liberali del Risorgimento, ma ha fornito alla mafia “l'egida impenetrabile” di certa magistratura (per non parlare della politica); Sciascia cita in quel caso l'espressione del procuratore del re a Trapani nel 1838 e poi nel 1986 il caso del presidente della corte d'appello di Palermo che, secondo la deposizione d'un maresciallo dei carabinieri, nel suo paese d'origine “teneva molto che non succedesse nulla di brutto... Fino a quando l'alto magistrato era vivo, nessuno si era mai permesso di commettere azioni criminose... I suoi compagni nutrivano un particolare riguardo nei suoi confronti, fino al punto di evitare di commettere azioni delittuose che avrebbero potuto costituire offesa per sua eccellenza” (Corriere della Sera, 16 febbraio 1986). 

 

A tale groviglio di problemi irrisolti e intrecci perversi, di cui la mafia si fa simbolo precipuo, lo stato secondo Sciascia dovrebbe reagire con “decisione, fermezza, intelligenza, concordia tra i diversi organismi della pubblica amministrazione” (La Stampa, 6 agosto 1988), ovvero con tutto ciò che pessimisticamente manca in Una storia semplice, se non in un brigadiere isolato e in un professore in pensione. E più l'azione contro la mafia, epitome di ogni ingiustizia, dovrebbe avvenire senza i metodi prevaricatori messi in campo dal fascismo, ovvero senza quelle forzature del diritto che Sciascia aveva traumaticamente osservato nel caso Tortora, proiettandole (forse indebitamente) sul maxi-processo di Palermo, perché “lo scatto delle manette ai polsi di chiunque venga chiamato o spontaneamente si presenti in un ufficio giudiziario anche per fare una irrisoria testimonianza”, fa allontanare l'uomo della Volvo dalla possibilità di essere un cittadino.   

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