Guerra Fredda alla giapponese

28 Ottobre 2015

In ventotto anni può succedere di tutto: per un essere umano è la certificazione conclamata dell'età adulta, siamo uomini e donne fatti e finiti, con una vita già piena alle spalle, le responsabilità del lavoro, magari con una famiglia e il conseguente passaggio di testimone alle generazioni future già in via di consegna. A ventotto anni siamo ancora giovani, eppure per quanto riguarda le forme d'arte, le espressioni creative in generale, è un'età che spesso rientra nella categoria della maturità, di tutto rispetto insomma, se non addirittura obsoleta. Quando si parla di videogiochi, ventotto anni sembrano quasi impossibili, si tratta di una corsa all'indietro nel tempo che rasenta il ridicolo se consideriamo le attuali tecnologie di intrattenimento digitale. Ventotto anni fa, nel 1987 vide la luce il primo titolo di una serie che negli anni successivi sarebbe diventata di culto per milioni di appassionati, si tratta del franchise Metal Gear. Il papà della serie è il game designer giapponese Hideo Kojima, classe 1952, oggi considerato giustamente un pioniere del gaming moderno e il cui talento creativo è apprezzato anche al di fuori degli ambienti videoludici, come conferma la sua collaborazione con il regista Guillermo Del Toro per un recente progetto, poi mandato in fumo dal publisher Konami per divergenze interne tra lo sviluppatore e le politiche aziendali del marchio nipponico. Ma tant'è, per fortuna Kojima è riuscito comunque a sfornare nel settembre 2015, nove anni dopo l'ultimo titolo della serie Metal Gear Solid IV – Guns of the Patriots, un vero capolavoro: Metal Gear Solid V – The Phantom Pain.

 

Le ragioni per cui milioni di giocatori in tutto il mondo sono rimasti affascinati dalla distopia bellico/spionistica inventata da Kojima – che non ha nulla da invidiare ad altre saghe pop come Star Wars o in letteratura a cicli narrativi come Harry Potter – sono la capacità del game designer di fondere un universo fittizio intrigante e personaggi decisamente sopra le righe a eventi storici reali, inoculando i suoi giochi (oggi come oggi un termine sempre più obsoleto per il genere di esperienza che offrono agli utenti) con il germe delle spy stories letterarie e di una narrativa di genere sempre più influenzata dal linguaggio del cinema e della televisione.

 

Metal Gear Solid V. Ground Zeroes Camp Omega (Guantanamo)

 

Riassumere a beneficio dei lettori vicende e personaggi della serie Metal Gear è una fatica tanto inutile quanto noiosa, e in questa rubrica non si fanno recensioni ma si trattano temi specifici legati a videogiochi e realtà quotidiana o di cronaca. Nel caso dei videogiochi, senza l'intenzione di spezzare lance a favore del medium, è sempre arduo difendere la credibilità o la “profondità” di una categoria di intrattenimento che – almeno sulla carta e soprattutto in Paesi “colti” o sedicenti tali come l'Italia – è ancora considerata appena un gradino sopra la pornografia quanto a rispettabilità, nonostante il nostro sia il decimo mercato al mondo in termini di fatturato derivante dei videogiochi, con oltre quindici milioni di gamers calcolati nel nostro territorio – una panoramica esaustiva si può trovare sul sito dell'AESVI (Associazione Editori Software Videoludico Italiana). Eppure basta avere letto (o visto nelle loro trasposizioni cinematografiche) qualche storia firmata da autori come John Le Carré, Len Deighton o meglio ancora Tom Clancy e Frederick Forsyth per rendersi conto di come il genere spionistico abbia invaso buona parte della narrativa complottistica e distopica moderna. I videogiochi, essendo di per sé una specie di “spugna” della cultura popolare per come assorbono influenze da altre forme creative, riescono a trasformare la fruizione passiva in coinvolgimento diretto senza dimenticare – soprattutto per chi li considera un'alternativa ormai consolidata allo storytelling classico – l'importanza di una solida narrativa alla base delle vicende “interpretate” dal giocatore stesso.

 

Nel caso di Metal Gear Solid V – The Phantom Pain, la distopia messa in scena da Kojima riguarda l'Afghanistan agli albori dell'occupazione sovietica nella prima metà degli anni Ottanta (con un prequel molto suggestivo uscito nel 2014, Ground Zeroes, ambientato nel 1975 a Camp Omega a Cuba – in pratica Guantanamo – dove il protagonista deve infiltrarsi per salvare due prigionieri, la “traditrice” Paz e Chico, un bambino soldato). Il protagonista Snake, che esteticamente ricorda parecchio il Kurt Russell di 1997: Fuga da New York (il leggendario Jena Plissken, anche se in originale il suo nome è appunto Snake Plissken), è un veterano dei campi di battaglia e una vera e propria leggenda negli ambienti militari: soprattutto, Snake ha smesso di servire cause e ideali delle grandi potenze – tra defezioni e doppi giochi non si riesce a stare dietro alla sua mitologia personale – ed è il capo di un esercito di mercenari senza patria, i Diamond Dogs, che operano da una base segreta al largo delle Seychelles, in un tratto di Oceano Indiano in acque internazionali.

 

Metal Gear. Plissken

 

L'intreccio di The Phantom Pain è tanto affascinante quanto scombussolato, e alterna momenti di crudo realismo e violenza esplicita a incursioni di umorismo surreale tipicamente nipponico ed elementi di tecnologia fantascientifica e sovrannaturale (come i super soldati dai poteri assurdi al soldo di Cipher, un'organizzazione segreta con ambizioni di conquista globale attraverso la destabilizzazione delle aree “calde” del pianeta). Quella di The Phantom Pain è una storia di vendette personali, in cui troviamo non solo riferimenti lampanti a classici del genere bellico e spy story come I mastini della guerra, romanzo di Forsyth del 1974 (soprattutto per la parte del gioco ambientata in Congo, che ricorda molto il fittizio stato africano di Zangaro nel libro citato), ma anche allo “spaghetti western” (l'Afghanistan di Kojima ha i colori caldi e l'atmosfera di un film di Sergio Leone, e uno dei comprimari del gioco – Revolver Ocelot – è un ex spia russa, e sembra pronto a sfidare Clint Eastwood a duello o a rapinare un treno in corsa). Tuttavia, ciò che rende affascinante e a suo modo unico The Phantom Pain oltre alla qualità della produzione (meccaniche di gioco fluidissime, una cura per i dettagli e una grafica davvero strabilianti) è proprio la mole di documenti complementari che accompagnano la narrazione al di là del gioco stesso: Snake trova disseminate per la mappa delle audiocassette che aggiornano il giocatore sullo stato degli eventi mondiali nella cronologia semi inventata da Kojima, che passa da fatti storici documentati a tematiche complesse e terribili come appunto i bambini soldato e l'orrore di un mondo perennemente in guerra. Nonostante sia concesso al giocatore l'approccio tattico più libero possibile, il gioco premia le infiltrazioni non letali, assegnando più punti dopo il completamento di una missione senza avere lasciato vittime sul campo – tutto dipende dall'abilità del giocatore a non farsi scoprire.

 

Dante's Inferno. Minosse

 

Se da una parte quello dei mercenari non è certo un argomento nuovo, con la frammentazione dei conflitti in tutto il mondo dopo la Seconda guerra mondiale e durante la Guerra Fredda, è sicuramente un tema sempre attuale: i vituperati contractors al soldo del migliore offerente nell'Iraq post occupazione americana ne sono un esempio, come lo sono i foreign fighters della nuova guerra mondiale contro i fanatici di Isis, tra l'altro un argomento trattato di recente in un bel reportage di Benedetta Argentieri sul Corriere della Sera. E non c'è niente di anomalo né immorale se dopo avere trascorso qualche ora con The Phantom Pain si rispolvera un documentario di Werner Herzog e Denis Reichle del 1984, La ballata del piccolo soldato, sui Contras e i bambini soldato che fronteggiavano i sandinisti in Nicaragua, oppure Beasts of No Nation, film prodotto da Netflix e distribuito a fine ottobre 2015, diretto da Cary Joji Fukunaga (che molti forse conosceranno come regista della prima stagione della serie tv True Detective) incentrato sull'addestramento di un bambino soldato in una nazione africana non specificata. The Phanotm Pain è la dimostrazione che al giorno d'oggi è impossibile considerare le forme di intrattenimento di massa – libri, film e televisione – come universi divisi in compartimenti stagni, e che basta alzare di qualche tacca l'asticella dei nostri pregiudizi nei confronti di mezzi espressivi destinati al grande pubblico – quindi di per sé snobisticamente “meno alti” – per cogliere stimoli e approfondimenti capaci di spaziare dal passatempo puro a una profondità forse inaspettata. Un altro esempio di qualche anno fa, meno riuscito ma lodevole in ogni caso, fu il molto giustamente discusso Dante's Inferno, un gioco d'azione ambientato nel mondo dantesco, in cui il poeta fu trasformato dagli sviluppatori per esigenze di mercato in un muscoloso crociato di ritorno dalla Terra Santa, il cui scopo era salvare l'anima dell'amata Beatrice dalle grinfie di Satana dopo essere stata violata e uccisa mentre aspettava il suo ritorno. Perché lodevole? Perché stilisticamente riproduceva in modo incredibile le incisioni di Doré (il tribunale infernale di Minosse era davvero da brividi) e perché il gioco fu venduto insieme all'edizione Penguin dell'Inferno, tradotto dal poeta americano H. W. Longfellow (uno dei Fireside Poets) e considerata tuttora la migliore traduzione inglese del poema. Ma ovviamente questo valeva per il mercato americano, da noi sono stati capaci solo di criticarlo perché Dante è intoccabile. Non so, ma che un adolescente del Wyoming vada in giro per l'inferno a malmenare demoni e altre aberrazioni con la possibilità – poi magari non sfruttata, s'intende – di dare sfogo alla curiosità e conoscere l'opera di Dante come altrimenti non potrebbe fare, secondo me merita solo rispetto – o almeno un po' più di considerazione. Alleggerire il peso della cultura non significa sminuirla, è solo un altro modo per renderla più appetibile in tempi come questi, dove tutto è semplificato e velocizzato. Meglio Dante crociato muscoloso che la Divina Commedia in 140 caratteri su Twitter, e lo stesso vale per Metal Gear Solid V – The Phantom Pain e gli orrori della guerra e dei bambini soldato. È più di un videogioco, è un'esperienza che può fornire strumenti di approfondimento.

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