Un pessimista di buon carattere / Emilio Isgrò cerca un impiego
Chi ha modo di frequentare Emilio Isgrò ne conosce il carattere. Irriverente, è il primo connotato che viene da associargli: parte non esigua del successo crescente che negli ultimi anni hanno i suoi lavori – in particolare le cancellature cui deve una fama internazionale appunto un po’ sulfurea – si deve al frisson con cui sempre ci fa riflettere sul senso di quel gesto concettuale sovranamente ambiguo che è in sé la cancellatura, e su quello che nello specifico ha “cancellare”, di volta in volta, l’Enciclopedia Treccani, I Promessi Sposi, la Costituzione Italiana o il Debito Pubblico (sfortunatamente, in questo caso, solo in effigie). Così che, confesso, mi ha preso in contropiede la notizia che lo scorso 6 ottobre Isgrò – da sempre un trickster, uno spiritello dispettoso – ha compiuto ottant’anni. L’evento è stato doverosamente celebrato, ma nel suo stile: senza sussiego e senza retorica (o meglio, con retorica ironicamente rovesciata, a sua volta “cancellata”).
La Triennale della sua Milano (nato a Barcellona Pozzo di Gotto, in Sicilia, Isgrò è milanese ormai da più di cinquant’anni) ha ospitato la mostra I multipli secondo Isgrò (promossa da Editalia e curata dal complice più assiduo, Marco Bazzini), fra i quali spiccava una serie di coloratissimi semi d’arancia realizzati in ceramica. Il tema del Seme si è affiancato negli ultimi tempi a quello della Cancellatura: e infatti un gigantesco esemplare, il Seme dell’Altissimo in marmo bianco alto circa sette metri (che ingrandisce l’oggetto reale, come recita la scritta alla sua base, un miliardo e mezzo di volte), commissionato due anni fa dall’Expo e dall’artista donato alla città, è stato per l’occasione collocato in via definitiva nei giardini antistanti la sede della Triennale: come «fondamenta di un’arte civile».
Ma soprattutto è uscito da Sellerio Autocurriculum (pp. 222, € 14), sorprendente autobiografia di uno che, avendo fatto il giornalista culturale per tanti anni, si può dire abbia conosciuto tutti; e in anni in cui valeva la pena, decisamente, conoscere tanta gente. L’irriverenza di Isgrò dà sapore, un sapore certe volte piccantino, alle tante icone nazionali, e non, che ha avuto modo d’incontrare; e del cui carattere – a loro volta –riporta pieghe inedite e sempre curiose. Dall’infelicità di Piero Manzoni, «concettuale dal volto umano», al «sempiterno Umberto Eco in ascesa perenne», dal «trotterellante Palazzeschi» a Paolo Volponi cantante «più intonato» di Montale, dallo «spocchioso» Calvino a de Chirico «attore non inferiore al pittore», da Ezra Pound a John Kennedy. Un Pantheon tutto rivisitato a testa in giù: con una scrittura sempre pungente, che corre a rompicollo da un decennio all’altro. Del resto Isgrò nasce poeta, e all’attività artistica (nella quale non a caso gioca sempre un ruolo decisivo la parola) ha sempre affiancato quella letteraria, narrativa e anche drammaturgica (con l’epocale Orestea negli anni Ottanta messa in scena, per volontà del sindaco Ludovico Corrao, sulle rovine di Gibellina distrutta dal terremoto del Belice nel ’68).
In genere, in libri così fitti di nomi e aneddoti, manca dalla scena il personaggio più importante: quello col nome in copertina. Non è questo il caso. Anzitutto perché Isgrò non manca di parlare del suo lavoro d’artista, di commentare le varie interpretazioni – altrui e proprie – che, nell’ormai mezzo secolo da quando sono apparse, hanno ricevuto le Cancellature. Ma, per evitare di mettersi su un piedistallo, adotta uno stratagemma retorico geniale: presentando questo suo testo come un curriculum, allestito al fine di trovare finalmente un «impiego a tempo indeterminato». In ogni migrante, ancorché di successo come lui, resta sempre un certo senso di precarietà; e Isgrò, irriverente con se stesso per primo, in questo suo testo si presenta proprio come un postulante. Per esempio quando si affaccia dal lunatico Gian Giacomo Feltrinelli, che allora pubblicava gli autori della neoavanguardia e gli aveva fatto sapere di essere interessato alle sue poesie visive (si è venuto a sapere di recente, dal volume dedicato l’anno scorso da Federico Milone alle carte preparatorie dell’antologia del ’61 I Novissimi, riscoperte a Pavia nell’archivio di Alfredo Giuliani, che il nome dell’allora ventitreenne Isgrò figurava nell’elenco dei papabili). Quella mattina, però, trova «l’Editore» con la luna storta. «Tre giorni fa mi hai detto che trovavi bellissime le mie cose e volevi pubblicarle». «Sì, è vero, ma non so se fra tre giorni mi piaceranno ancora come tre giorni fa». Allora il postulante prende la porta con uno scatto d’orgoglio: «Le mie opere sono fatte perché piacciano anche fra tre secoli». C’è tutta l’ambivalenza di Isgrò, in questo scambio di battute. Fra tre secoli non lo so (e non lo sa neppure lui), ma sta di fatto che oggi, a cinquant’anni da quell’episodio, le sue opere sono esposte in tutto il mondo.
Cortellessa: Presenti il sofista siciliano Gorgia da Lentini come tuo spirito guida, Emilio, e non c’è dubbio che tua sia l’attitudine a guardare le cose sempre «di lato e di scorcio». Però c’è anche, in te, una fierezza quasi leonina, e che si deve al tuo carattere «febbrile» (un aggettivo che torna più volte nel testo). Basta guardarti negli occhi per rendersene conto. Ricordi la grande mostra del 2008 al Centro Pecci di Prato, curata da Marco Bazzini e Achille Bonito Oliva, che è stata fra l’altro l’occasione in cui ci siamo conosciuti, e che s’intitolava Dichiaro di essere Emilio Isgrò (capovolgendo e “cancellando” il tuo precedente lavoro intitolato Dichiaro di non essere Emilio Isgrò). In fondo, direbbe Philippe Lejeune, ogni autobiografia si fonda su una dichiarazione di coincidenza fra l’anagrafe e la soggettività. Si afferma la volontà di esserci stati, e di esserci per il futuro.
Isgrò: L’autobiografia si fa alla fine di una carriera, il curriculum all’inizio... Sì, il libro enuncia la volontà di esserci. Non tanto in quanto Isgrò, ma in quanto titolare di un mestiere che rischia di sparire in un assetto, come quello attuale, in cui la vecchia figura dell’artista come intellettuale non può più avere neppure il vizio del narcisismo!
AC: La dichiarazione di esserci è anche uno stratagemma per superare il “complesso del cancellatore”. «Come Penelope», scrivi, «cancellavo di giorno ciò che scrivevo di notte». Una frase che può spiegare pure l’ambivalenza fra scrittura e immagine, fra letteratura e arte, come tentativo di sabotare sempre se stessi, e al tempo stesso ricostruirsi dopo essersi distrutti.
EI: Mi sono sempre riconosciuto in quella novella di Pirandello, Il corvo di Mizzarò, in cui l’uccello si mette a covare le uova al posto della compagna fuggita dal nido. Anch’io mi sono trovato a svolgere ruoli che non avrei mai pensato mi sarebbero toccati…. La cancellatura comunque, ormai lo si è capito, non è quella distruzione che veniva paventata, o esaltata, all’inizio del mio percorso. Sono nato con una musica nelle orecchie che mi ha sempre accompagnato; come avrei potuto distruggere, in nome di una scelta di poetica, ciò che mi dava così grande piacere? Come avrei potuto negare Bellini? È come chi in nome della nouvelle cuisine rinneghi l’ossobuco con risotto. A questo tipo di rinunce non sono mai stato disposto. La cancellatura mi era servita come gesto, come punto di non ritorno, come dire, «ragazzi, più avanti di così non si va; ora torniamo a Giuseppe Verdi!».
AC: O a Garibaldi…
EI: Ecco, sì, viva Garibaldi! Io stesso ho capito col tempo che se si cancella è solo per costruire, per creare. Quello che fa davvero la cancellatura è riproporre una dialettica del linguaggio, nel tempo in cui in apparenza, dopo il crollo dell’idealismo e del marxismo, la dialettica non serve più a nulla. Ma ogni artista, se non di una dialettica in senso classico, ha bisogno di una pendolarità; di essere questo ma anche altro. La possibilità di essere figlio di Dio e figlio, o almeno nipote, di Satana.
AC: Scrivi: «Credo in Dio al mattino, al pomeriggio non più».
EI: Di solito al mattino sono credente, al pomeriggio comincio a vacillare, al tramonto…
AC: … sei un nichilista…
EI: … assoluto!
AC: Alle cancellature si era molto appassionato, ricordi, anche Andrea Zanzotto. Del resto anche lui scriveva qualche volta delle parole con sopra un tratto orizzontale, sulle orme di Lacan…
EI: Era l’aspetto del mio lavoro che più lo interessava, certo. Come Pasolini aveva apprezzato le mie poesie giovanili, ma la cancellatura gli aveva fatto venire una febbre addosso (anche Stefano Agosti, sempre in chiave lacaniana, se ne interessò; anche se lui la ricollegava al bianco di Mallarmé mentre la cancellatura non è questo, non postula il vuoto, interroga la possibilità della parola umana di sopravvivere). Tutta l’opera di Zanzotto, del resto, si può leggere come cancellatoria… l’accumularsi verbale, per strati successivi, è come la stratificazione di colore in una tela informale, che cancella quello che sta sotto ed emerge a tratti.
AC: Magari anche questo è un effetto del codice autobiografico, ma certo per essere una persona che ha conosciuto tutti, alla fine ti presenti come uno che resta sempre “non allineato”, che non si può associare a niente e a nessuno.
EI: Questo isolamento non mi fu tanto imposto dagli altri, ero io a non avere tanta facilità nei rapporti sociali. Ci sono sempre stati affetti, amicizie, questo sì.
AC: Ti descrivi come un timido. Con le donne e non solo. Pur essendo, come dimostri anche in questa occasione, un gran chiacchierone! Molto divertente il racconto della cena con Leonardo Sciascia, in cui rimanete in silenzio tutto il tempo…
EI: Non si direbbe, è vero, ma in effetti sono sempre stato un timido. Perdo la mia timidezza solo quando sono sul palcoscenico, come capita del resto a tanti comici... Comunque è così. Polemico sempre, militante spesso, organico a nulla. Avrei potuto passare la mia esistenza molto quietamente in biblioteca a leggere, a scrivere, e naturalmente a cancellare. Tutto quello che mi è successo è stato preterintenzionale, ha sorpreso me per primo. La cancellatura l’avevo presa subito molto sul serio, per esempio, ma la sua reale portata si è manifestata solo nel corso degli anni.
AC: In ogni stagione la cancellatura acquista un senso diverso. Per esempio a distanza di poco tempo tu cancelli la Costituzione ma, spieghi, solo per mettere in guardia da coloro che vogliono cancellarla; e poi però cancelli il debito pubblico!
EI: La cancellatura non è uno stile…
AC: … infatti… è quello che i filosofi definiscono un dispositivo. Ogni volta può essere usata in contesti diversi con fini diversi…
EI: Solo adesso i critici d’arte cominciano a intenderla in questo modo. È anche frutto della mia sicilianità. La nostra è una cultura che cerca sempre di tenere insieme gli opposti. In Sicilia c’era stato il futurismo, ma con una coloritura bucolica… C’era un futurista piuttosto noto, Giacomo Giardina, che era un pecoraio. Solo in Sicilia sarebbe potuta succedere una cosa del genere. Il barone futurista Jannelli voleva trasformare il teatro di Siracusa in un pascolo. Mio nonno poi, che si chiamava Emilio Isgrò come me, era contemporaneamente anarchico e monarchico… Del resto c’erano anche certi futuristi russi, come Chlebnikov, che andavano in cerca degli etimi slavi più arcaici. Non sono mai stato troskista, anche se mi accusava di esserlo Francesco Leonetti (ma solo perché lavoravo con Arturo Schwarz, che troskista lo era davvero), però mi affascinava, di Trockij, il suo motto secondo il quale «la rivoluzione salta sulle spalle del passato». Perché altrimenti avrei scritto in dialetto l’Orestea di Gibellina? Questa cosa sconvolgeva gli avanguardisti più “allineati”!
AC: L’Autocurriculum potrebbe essere la versione scritta “davvero” dell’Avventurosa vita di Emilio Isgrò, lo pseudo-romanzo concettuale che nel ’74 ebbe in sorte, per un equivoco, di finire candidato al Premio Strega. Mi ricorda le vite degli avventurieri veneziani che aveva antologizzato Giovanni Comisso, uno degli illustri collaboratori cui toccava subire, non sempre di buon grado, il tuo editing quando eri redattore al Gazzettino di Venezia.
EI: Silvano Nigro lo legge come un testo picaresco, e forse non ha tutti i torti. È il mio spirito di bastian contrario…
AC: A proposito di artisti “non allineati”, racconti che ti attraeva la Jugoslavia di Tito. Un regime non certo democratico, e neppure convinto davvero dall’arte moderna, ma che la promuoveva, strumentalmente, in alternativa al conservatorismo del blocco sovietico.
EI: Quelli del Gruppo 63 mi hanno sempre guardato con curiosità. Mi sentivo più vicino a loro che alle avanguardie artistiche di quel tempo. Potevo non condividere certe cose che scriveva Edoardo Sanguineti, gli preferivo Le ceneri di Gramsci di Pasolini, ma capivo bene cosa voleva fare. Quando si ricorda di essere un poeta, certe sue cose sono memorabili [a questo punto Isgrò dice a memoria i versi di Erotopaegnia, «In te dormiva come un fibroma asciutto»…]. Alfredo Giuliani, che era di gran lunga il meno normativo del Gruppo, ma anche Nanni Balestrini, mi hanno sempre avuto in simpatia; fu Balestrini a venirmi a chiedere le prime poesie per il verri. Qualcun altro, certe volte, mi ha guardato invece con una certa impazienza. Come Elio Pagliarani, che prima mi chiamò a collaborare all’Avanti!, ma in seguito mi trattò con una certa freddezza… sicché mi è piaciuto omaggiarlo, a tanti anni di distanza, con una mia cancellatura, Rosso Pagliarani, che è stata appena consegnata, come premio Pagliarani, al poeta Carlo Bordini. Elio era arrivato all’avanguardia quando aveva già scritto cose diverse e in sospetto di neorealismo, e forse voleva mostrarsi sin troppo zelante, ma ricordo bene quando uscì La ragazza Carla. Con tutto il suo cattivo carattere, era il più poeta dei suoi compagni.
AC: Racconti di quando hai esposto in una mostra di Fluxus, ma aggiungi di non aver mai fatto parte di Fluxus, di essere stato vicino ai poeti visivi del Gruppo 70, a Firenze, ma di non essere mai stato dei loro… È come se tu fossi il Groucho Marx dell’avanguardia italiana: non vorresti mai far parte di un gruppo che ammettesse fra i suoi soci uno come te!
EI: Hai toccato il punto… prendiamo il Gruppo 70. Condividevo il loro spirito d’avventura, ma mi sono allontanato da loro quando li ho visti irrigidirsi in un’ideologia. Il côté diciamo sanguinetiano dell’avanguardia, quello organico appunto, non mi è mai appartenuto. Lamberto Pignotti aveva un’idea protonovecentesca di avanguardia, dai principi non si deroga. Io invece derogavo solo da quelli!
AC: Da cosa si può derogare se non dai principi? La forza e al tempo stesso la debolezza dell’avanguardia diciamo “classica” è la radicalità delle sue negazioni. Si fonda sull’esclusione di tutto quanto ecceda la propria poetica. Invece tu cerchi sempre il punto di compatibilità, quello che hai chiamato il momento dialettico, di ogni posizione. A partire dalla tua.
EI: Il mio miglior amico di gioventù era un poeta triestino, Guido Costantini, imparentato alla lontana con Scipio Slataper e forse anche con Svevo, di madre anglicana e padre ebreo, era stato campione di nuoto e aveva fatto la Resistenza, era iscritto al PCI…
AC: … tu non sei mai stato iscritto a un partito?
EI: Mai. Ma ho sempre votato da quella parte. Una volta però ho votato per il manifesto, al tempo della campagna per far uscire Valpreda dal carcere. Ero redattore di Tempo illustrato, che era pieno di comunisti duri e puri per i quali questa cosa fu uno scandalo… pare che avessi fatto qualcosa di politicamente scorretto. Non era stata la prima volta, non fu neppure l’ultima.
AC: Mai stato tentato dall’astensione?
EI: Ora un po’ tentato lo sono, ti confesso. Non so che pesci pigliare. Questa sinistra che divora i suoi figli… Ti parlavo di Guido Costantini, mi colpì molto – avevo vent’anni – quando fu cacciato dal PCI durante la polemica sui medici ebrei accusati di aver complottato per uccidere Stalin. Lui, che era mezzo ebreo, a quel punto si ribellò. A quel tempo ero un militante anch’io, ero cresciuto con un padre e una madre mai “allineati” al conservatorismo democristiano che imperava allora in Sicilia… insomma ero un pecoraio futurista e comunista anch’io. E Guido in quell’occasione mi disse una cosa che ho sempre ricordato: «non bisogna mai partire dal presupposto che il tuo avversario abbia torto; devi ascoltarlo, e se ha ragione devi avere il coraggio di riconoscerglielo».
AC: Parliamo del Seme dell’Altissimo. A proposito della tua «arte civile» dici che il tuo ispiratore è Manzoni – non Piero ma Alessandro – per l’idea dell’arte come educazione. Educazione spirituale ma, soprattutto, civile.
EI: Non ho mai voluto fare un’arte “impegnata”, ma invece mi riconosco in un’«arte civile». Cioè un’arte che sia sempre non impegnata ma impregnata: del sociale che sta tutto intorno. Persino la cancellatura è così: una spugna che ogni volta prende senso dal tempo e dal contesto in cui viene operata.
AC: Nel poemetto I funerali di Corrao, dove celebri la figura del sindaco-demiurgo di Gibellina, ricordi la figura di Saiful, il ragazzo del Bangladesh che lui accolse nella sua casa e alla fine gli tagliò la gola con un coltello. È una tragedia non solo siciliana, non solo italiana. Forse oggi la cosa più giusta da cancellare sono le frontiere di questo mondo sempre più impaurito e aggressivo.
EI: È quello che ho fatto con le mie cartine geografiche cancellate. Ma le frontiere fisiche che si possono cancellare riemergono come frontiere culturali. Oggi lo «scontro di civiltà» di cui parlava Samuel Huntington non è quello fra il Nord e il Sud del pianeta, o quello fra gli scintoisti e gli atei confuciani della Cina e il resto del mondo, ma quello fra la vecchia Europa e quello che non si può non tornare a definire, come una volta, l’imperialismo americano. La posta in gioco è la libertà del mondo. Gli americani non sono più i garanti delle libertà umane. E non dipende da Donald Trump. Lui è l’effetto, non la causa. È un figlio degli anni Sessanta, della Pop Art; Trump è un nipotino di Andy Warhol. La grande arte americana finisce quando tutti credono che cominci, con Pollock e Rothko. Spero che la loro schiacciante egemonia culturale non prosegua come egemonia militare globale, sino a trascinarci tutti nella catastrofe. E spero che sia la migliore cultura americana a impedirlo. D’altra parte Obama è venuto a chiedere lumi alla Merkel… non certo una rivoluzionaria ma una che, seppur convinta che i Berliner Philharmoniker siano un covo di sovversivi, non ha mai fatto loro mancare il supporto che gli si deve.
AC: Vuoi dire che l’Europa riserva nei confronti alla cultura, malgrado tutto, un ruolo che in America è tramontato da tempo?
EI: Per loro conta solo la forza economica, oltre a quella militare. E questo modello sta stravincendo anche da noi, purtroppo. C’è da sperare che questa struttura a fisarmonica che ha l’Europa la faccia sopravvivere. Proprio perché poco coesa, forse, si dimostrerà più elastica di quanto si potesse pensare. Sono suonate tante campane a morto per l’Europa ma non si è ancora sfasciata, no? Magari si sfascia prima l’America. Lo ripeto, Trump è un nipotino di Warhol. Warhol aveva lavorato sull’anonimato (il famoso quarto d’ora di celebrità per tutti) come su un pericolo, o almeno così spero che si possa leggere la sua opera. Ma oggi Trump non esprime altro che l’anonimato assiderante della provincia americana. E il mondo dei social network realizza la profezia irridente di Warhol.
AC: Ti sei trovato in sintonia con Gino Di Maggio, racconti, forse perché lui è nato a Novara di Sicilia e tu a Barcellona di Sicilia. E commenti: «i siciliani non sono mai anonimi, ma omonimi».
EI: Uno, nessuno e centomila.
AC: Quando parli della mafia scrivi «tutto ciò che scrivevo e facevo come artista in qualche modo veniva da lì. Da quello sconquasso, da quella paura». Dall’Italia in frantumi di cui ti parlava Ottiero Ottieri.
EI: Di questo parla L’Orestea di Gibellina. Lo capirono magistrati come il povero Ciaccio Montalto, che di lì a poco dalla mafia verrà ammazzato, e che era venuto a vedere lo spettacolo.
AC: Forse è un moto “manzoniano”, il tuo di darti coraggio. Per Don Abbondio una cosa sola non si può fare, cioè appunto darsi coraggio da sé. Che è invece proprio quello che fa, sempre, il tuo personaggio. Pur non essendo il tuo un temperamento particolarmente ardimentoso, tutto quello che hai fatto si può riassumere all’insegna di questa tempra artificiale. Hai fatto un po’ come il Barone di Münchhausen che, in quella poesia di Zanzotto nella Beltà, si solleva dalla palude tirando sé stesso per il codino.
EI: Sempre preterintenzionalmente, ma sono uno che va fino in fondo. Se una cosa «s’ha da fare», per dirla appunto con Manzoni, si fa. Il Dio in cui credo la mattina, forse, non mi guarderà come un pusillanime. Quando ha cancellato I Promessi Sposi, la riflessione che ho fatto (l’ho scritto nel catalogo della grande antologica che mi ha curato Bazzini, a Palazzo Reale l’anno scorso) è stata sulla sua scelta trasgressiva, lui rampollo dell’aristocrazia illuminista ingessata nei versi neoclassici, di un italiano “popolare” (anche se quella lingua non veniva parlata, in effetti, da così tante persone). Era quella la sua scelta di progresso, anche in senso “illuminista”. È comunque una scelta simile a quella che farà Pasolini quando, rispetto alle Ceneri di Gramsci, adotterà la lingua del cinema. Mi piaceva il grande Lucio Piccolo, barone di Capo d’Orlando e poeta straordinario, che si professava saragattiano (e per lui questa era una grossa trasgressione, lo diceva a bassa voce) e per discrezione non parlava mai del suo più celebre cugino. Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Salvo una volta in cui raccontò un episodio in cui Tomasi, con lo sprezzo tipico degli aristocratici siciliani, a un contadino che a Palermo gli aveva chiesto la strada per andare al Teatro Massimo, indicò la strada opposta. La nobiltà che rivendicava Piccolo era una nobiltà politica, non di sangue.
AC: Sei avverso all’elitarismo, al sussiego appunto aristocratico che ostentano tanti di coloro che seguono l’arte contemporanea.
EI: L’arte purtroppo non è per tutti, lo so io per primo. Ma non ho mai fatto nulla per escludere qualcosa o qualcuno. Non ho mai inseguito il successo immediato, ma ho sempre pensato che quello che andavo facendo, col tempo, sarebbe stato capito, si sarebbe affermato. Ho sempre cercato un’arte inclusiva. Oggi la parrucchiera e il fruttivendolo mi chiedono notizie delle mie cancellature, i bambini corrono dietro alle mie formiche. È meglio, mi dico, aver avuto successo con un certo ritardo. Altrimenti magari mi sarei adagiato…
AC… avresti trovato subito lavoro! Invece lo devi cercare fino alla fine dei tuoi giorni… Il Seme è di per sé un simbolo di speranza, di futuro. D’altra parte, a sottrargli ogni retorica è la sua misura gigantesca. È come un futuro che fosse già presente, e che con la sua incombenza ci schiaccia. Anche in questo caso ci metti di fronte a una dialettica…
EI: … l’ottimismo e il pessimismo… in questi casi si cita sempre Gramsci. Come tutti i siciliani, io sono d’indole pessimista. Non credo in nulla, forse nemmeno in me stesso. Il Seme si chiama «dell’Altissimo» perché si possa pensare a chissà quale trascendenza; ma in realtà questo titolo si deve solo alla cava da cui è stato tratto il marmo, che è quella del Monte Altissimo appunto. Sono un pessimista, ma un pessimista di buon carattere. Mi sono sempre fatto trascinare dagli amori, dagli entusiasmi. Solo uno con un buon carattere può finire per vedere nella cancellatura un campo arato in cui piantare un seme! E mi piace che stia a Milano, l’unica città europea da dove penso possa rinascere l’Italia. Ormai, dopo tanti anni, mi sento un po’ milanese anch’io. E neppure Milano vuole escludere, la sua natura è inclusiva. Anche Milano, insomma, ha un buon carattere!
AC: Mi ha divertito molto l’episodio della tua performance su Garibaldi, Disobbedisco, cui assiste il ministro Alfano che poi ti parla dell’importanza del dissenso ma, ça va sans dire, «al fine di costruire il consenso». Ecco, usando le categorie dell’avanguardia degli anni Sessanta, tu ti senti più un Apocalittico o un Integrato?
EI: Questa è la domanda più perfida che tu potessi fare. Se uno è alla ricerca perenne di un lavoro vuol dire che ha gran voglia d’integrarsi, certo; ma vuol dire pure che integrato non è. Diciamo che sono un apocalittico con un buon carattere.
Una versione molto più breve di questa intervista è uscita il 18 dicembre su «La Stampa»