Su Facebook
Su Facebook (:duepunti) è il nuovo ebook di deep, la nuova collana tutta digitale di duepunti edizioni. Un saggio agile e veloce che permette di lanciare uno sguardo trasversale sul social network più famoso di sempre e che in questi giorni festeggia i suoi 10 anni.
L'autore del libro è Flavio Pintarelli, classe 1983, digital strategist, blogger, redattore per Lavoro Culturale, collaboratore di Medium (e di doppiozero).
L'ebook, che da un punto di vista del concept e della composizione introduce alcune interessanti novità formali, si presenta come un saggio di teoria dei media e ci aiuta a comprendere come, facendo leva su interfacce e su un'organizzazione delle informazioni ben elaborata, Facebook contribuisca a informare i nostri legami sociali, disegnare la nostra esperienza on-line e ridefinire la relazione tra sfera pubblica e sfera privata.
Su permesso dell'autore e della casa editrice ne pubblichiamo qui un breve estratto.
Soggettività e fisionomia delle relazioni sociali
In un volume intitolato Per una genealogia del virtuale. Dallo specchio a Facebook (2011) la filosofa Maddalena Mapelli utilizza la nozione foucaultiana di dispositivo per analizzare i social network. In questa accezione il termine dispositivo deve essere inteso come una serie di «macchine per far vedere e per far parlare generate all’incrocio tra saperi, pratiche (techne, arti) e poteri» (p. 45).
La tesi della Mapelli è che i social network possano essere considerati come un tipo particolare di dispositivi, ovvero dei dispositivi-specchio, e per questo inseriti all’interno di una serie storica precisa di pensiero che l’intero volume cerca di ricostruire. Cosa implica dire che i social network sono dei dispositivi-specchio? Significa innanzitutto riconoscere il modo in cui questi strumenti permettono all’utente di attivare meccanismi con cui produrre effetti di soggettivizzazione piuttosto precisi, perché resi possibili dal design dell’architettura informatica del servizio.
Quando ci si registra a Facebook è necessario infatti completare una serie di operazioni; una delle operazioni più importanti consiste nella compilazione di un formulario in cui viene chiesto all’utente di inserire alcuni dati atti a rappresentarlo di fronte agli altri utenti del social network. La raccolta di questi dati è essenziale per tracciare i grafi sociali che costituiscono la base della profilazione degli utenti. I grafi sociali sono le visualizzazioni delle relazioni di ogni utente internet, la mappatura dei modi in cui ogni utente è in relazione con altri utenti.
È in questa possibilità che riposa la ragione del grande appeal commerciale che la piattaforma di social networking creata da Mark Zuckerberg offre ai propri inserzionisti.
All’utente viene anche chiesto di inserire due immagini: una detta “di profilo”, ovvero un avatar; l’altra detta “di copertina”, ovvero un’immagine significativa di grandi dimensioni, che campeggia nella parte alta del profilo di ogni iscritto. L’immagine dello specchio utilizzata dalla Mapelli è particolarmente utile per capire come si organizzano i processi di soggettivizzazione in Facebook. Lo specchio infatti è un oggetto in grado di rappresentare (cioè presentare e insieme rappresentare) la nostra immagine. Questo significa che da una parte lo specchio ci restituisce ciò che appariamo essere in un dato momento e nello stesso tempo mostra il modo in cui provvediamo a creare un’immagine di noi stessi da esporre allo sguardo del mondo. Il concetto di self-branding (autopromozione) si basa proprio su questa duplice funzione che i social network offrono ai propri utenti.
Da una parte si utilizza il carattere non mediato del medium per presentarsi in modo diretto e orizzontale a un pubblico – sia esso un datore di lavoro, il bacino di potenziali utenti di un prodotto o di un servizio o, più semplicemente, le nostre cerchie di amici e conoscenti – e dall’altra parte si usa lo strumento tecnico per costruire un’immagine precisa attraverso il controllo delle informazioni che si decide di condividere negli spazî pubblici.
Così caratterizzato, lo spazio virtuale aperto dai social network – all’interno del quale ci muoviamo sempre più spesso – si colloca in equilibrio sul confine che delimita lo spazio pubblico da quello privato e così ne determina un sostanziale ridimensionamento, aprendo a nuove, inedite dimensioni. Possiamo farci un’idea della forma assunta da questo confine se pensiamo a una zona franca dall’estensione variabile. Una sorta di “terra di nessuno” in cui il carattere pubblico e quello privato delle informazioni che condividiamo si scambiano costantemente di posto, si mescolano, si confondono e si ridefiniscono seguendo le linee di sviluppo delle piattaforme informatiche.
Prima di mostrare con un esempio gli equivoci a cui una parziale comprensione di questi meccanismi può dare luogo, vorrei soffermarmi su un aspetto importante che si innesta su questa linea di ragionamento. Ogni social network struttura le relazioni sociali tra gli utenti sulla base di principî chiari, definiti dall’architettura informatica del singolo servizio. Queste relazioni possono essere simmetriche, gerarchiche, asimmetriche, prevedere gradi differenti di vicinanza e lontananza e in generale, anche sulla base delle specifiche fisionomie che assumono, è possibile determinare grazie a loro in che modo uno spazio virtuale può essere considerato più o meno pubblico o privato. Facebook, il servizio attorno cui ruotano la maggior parte delle riflessioni di questo saggio, è uno strumento che permette strutture differenti di relazioni sociali.
Quella principale, detta amicizia, è una relazione di tipo simmetrico: quando un utente si connette ad un altro utente ne diventa amico e questa è un’azione reciproca. Tuttavia il limite di amicizie permesso a un profilo personale è di 5 000. Capita che alcuni utenti particolarmente influenti possano raggiungere questo limite: per questo motivo Facebook ha messo a punto una funzione che consente di ricevere gli aggiornamenti di un determinato profilo. In questo modo, anche se un utente ha raggiunto il limite di amicizie consentite è possibile riceverne gli aggiornamenti come se si trattasse di un normale feed RSS.
Così facendo però non è possibile effettuare azioni sociali per interagire con l’utente di cui si ricevono gli aggiornamenti: apprezzamenti tramite il pulsante mi piace e condivisioni sono perciò impossibili. Questa forma di relazione, contrariamente a quelle denominata amicizia, ha un carattere asimmetrico in quanto predispone che un utente funzioni da emittente e l’altro utente da ricevente di un segnale. Comprendere come si strutturano le relazioni all’interno di un servizio social ci permette di capire meglio come e in che misura questo può essere utilizzato come uno strumento di carattere privato e quando invece assume una funzione specificatamente pubblica. Questa consapevolezza è fondamentale sia per i singoli utenti, che ai social network (e ai loro sistemi di registrazione e archiviazione delle informazioni) affidano una parte sempre più consistente dei loro dati, sia alle organizzazioni, che utilizzano i social network per gestire la loro immagine pubblica.
Proviamo a mostrare attraverso alcuni esempi come è possibile declinare questa consapevolezza di fronte a una situazione critica: la vicenda dell’alterco che ha visto opporsi, su Twitter, il giornalista freelance del «New York Times» Andrew Goldman e la scrittrice Jennifer Weiner mi pare un’interessante illustrazione di questo punto. È importante mettere in luce, in particolare, il modo in cui la redazione del giornale ha gestito la vicenda dal punto di vista della policy sull’uso dei social network. Infatti, in un memo in terno alla redazione, l’associate managing editor for standards Philip B. Corbett ha ricordato come i giornalisti del «Times», anche quelli freelance, siano tenuti a mantenere un contegno esemplare sui social network in quanto si tratta di piattaforme pubbliche in cui i lettori sono portati naturalmente ad associare l’attività del giornalista a quella della testata.
Ecco il passaggio in questione: “Innanzitutto dobbiamo sempre trattare Twitter, Facebook e le altre piattaforme di social media come se fossero attività pubbliche.
Indipendentemente delle vostre restrizioni sulla privacy o della quantità dei vostri follower, qualsiasi contenuto che pubblicate on-line può facilmente essere condiviso con un’audience molto più vasta. In secondo luogo, voi siete giornalisti del Times e il vostro comportamento online deve essere consono in quanto tali. I lettori assoceranno inevitabilmente ogni contenuto che pubblicate sui social media con il Times.”
Si può discutere molto a lungo se questo tipo di impostazione sia più o meno corretta, ma quello che certamente le si deve riconoscere è l’evidente contributo in direzione della creazione di uno spazio deontologicamente corretto all’interno degli ecosistemi social, oltre che un elevato livello di comprensione delle dinamiche sociali in atto.
[…]
Insomma credo sia necessario riflettere con più attenzione sul tipo di relazioni sociali che costruiamo sui social network per capire come questi strumenti influenzino il modo in cui i soggetti che li utilizzano costruiscono la propria immagine. Questo non soltanto perché i social network stanno diventando sempre di più l’eco-sistema in cui noi presentiamo noi stessi e il nostro “saper fare” agli altri, ma soprattutto perché siamo noi, con le nostre azioni, a costruire, plasmare e determinare l’aspetto di questo ecosistema.
Gli spazi resi disponibili sulla rete sono perciò assimilabili a beni comuni della conoscenza di cui dobbiamo farci carico contribuendo, per quanto ci è possibile, a utilizzarli in maniera costruttiva, opponendoci alle strettoie in cui le infrastrutture ci costringono – come ad esempio la riduzione del tempo di elaborazione del pensiero determinata dai meccanismi di stimolo senso-motorio che costituiscono uno degli aspetti fondamentali del funzionamento dei social network.
Essere coscienti del modo in cui questi meccanismi mettono in forma la nostra esperienza del mondo determinando, di riflesso, l’immagine che ci costruiamo significa anche prendere coscienza di come gli ambienti digitali siano diventati sempre di più spazi di conflitto in cui le azioni di ciascuno sono determinate dalla sua posizione relativa in un sistema di differenze di potere. Tuttavia, seppur soggetti all’arbitrio di forze all’apparenza soverchianti, circondati da visioni distopiche di futuri ipercontrollati, possiamo ancora dare vita a strategie di resistenza per sfuggire alla cattura dei dispositivi e ridisegnare i rapporti di potere a cui siamo legati.