Tonino Guerra. Ultimo canto
Santarcangelo di Romagna ha festeggiato il novantaduesimo compleanno di Tonino Guerra il 16 marzo. Il Museo MUSAS per l’occasione gli ha dedicato una piccola mostra raccogliendo opere scelte tra le tante (disegni, ceramiche, stoffe, sculture) che Guerra ha realizzato con artisti e artigiani soprattutto della Romagna. Il confronto tra grafica, pittura e opere tridimensionali parla di una spinta creativa che non si accontenta della doppia dimensione e cerca una diversa trasformazione delle cose nello spazio quotidiano. Sia le ceramiche, che realizzano fantastiche forme animali e interpretano antiche formelle devozionali, che le sculture, che dallo spunto figurativo transitano nella ricerca dell’oggetto funzionale (la lampada, il portavasi, i cuscini), rinviano alla radice della formazione dell’artista, sceneggiatore e poeta che nell’immediato dopoguerra iniziava la sua avventura con il dialetto scritto in versi e con il cinema della nuova realtà.
Il dialetto di Guerra, con quello di Pasolini, è stato la lingua sacra e libera che, dopo la catastrofe mondiale, permetteva ancora di nominare le cose e la vita senza contaminazioni retoriche, in modo sintetico ed efficace, perciò aderente alla materia di cui parla. Non è un caso che, tornato dall’esperienza del campo di concentramento nel 1945, Guerra portasse al gruppo di più giovani amici santarcangiolesi, composto da Raffaello Baldini, Nino Pedretti, Flavio Nicolini, Rina Macrelli, Gianni Fucci, l’apertura alla poesia di Montale insieme ai primi versi in dialetto. Già nelle primissime liriche, scritte nell’aspro e intraducibile dialetto di Santarcangelo, Guerra cuce immagini dense di riferimenti a materia e colore del mondo. Non si fatica a ritrovarvi quei pezzi di legno vecchio e di lamiere arrugginite che raccoglieva con l’amico pittore Federico Moroni e che ritornano ancora nelle ultime opere plastiche: “M’al pórti céusi bataréll ruznéid, / mo ch’u’l sa Dio quant’è’l ch’i n’i batt!/ “ (Alle porte chiuse dei battacchi arrugginiti, /sa Dio da quanto tempo non battono), scriveva in La cuntrèda (in Préim vérs).
Dopo la drammatica esperienza della linea gotica e dei bombardamenti, Guerra ricomincia così ad accudire con la parola affettuosa e ironica i resti di un trascorso storico e antropologico che la retorica del ventennio non era riuscita a seppellire.
Anche la stagione matura dell’incontro con la Russia, di cui Tonino prediligeva l’immaginario popolare e religioso, ha il suo nucleo fondante nella visione del paese di origine, scalcinato e poverissimo, descritto nelle prime liriche in dialetto con i suoi simboli antichi e popolari: “L’anzal de’ vént ch’l’è sòura e’ Campanòun” (L’angelo del vento che sta sopra il Campanone) (La cuntrèda).
L’esperienza corale vissuta nella giovinezza trascorsa in paese trova un luogo perfetto di espressione nel cinema e si rinnova nella disponibilità di Guerra alla collaborazione e alla condivisione del lavoro anche nelle arti plastiche: la doppia firma che caratterizza molti dei manufatti esposti nella piccola mostra santarcangiolese esprime il sincero rapporto ‘di bottega’ che ha saputo creare con il ceramista, lo stampatore di stoffe, lo scultore.
Al fondo della ricchissima produzione di manufatti vi è l’aspirazione titanica a ridisegnare l’aspetto del mondo (i giardini, le fontane, i mosaici disseminati nelle città che conosce…), ma soprattutto a tutelare l’amatissima valle del Marecchia: qui, all’inizio degli anni Ottanta, Guerra sceglie di tornare a vivere in un luogo della sua infanzia, la Pennabilli cantata anche da Ezra Pound.
Sulla cima di Pennabilli, la sua casa accoglie per tre decenni la lenta sedimentazione di un’idea del vivere senza schemi e riassume in una specie di Wunderkammer moderna la storia dell’estetica del secondo Novecento: un assemblaggio ambiguo e perfetto di immagini e oggetti che associa fotogrammi di Tarkovskij, Fellini e Antonioni a santini da chiesa, icone russe e targhe devozionali contadine; che sovrappone tappeti orientali a stoffe stampate a ruggine sotto casa a Santarcangelo; che accosta oggetti trovati per la strada e nella campagna a quelli religiosamente raccolti nelle case degli amici sparsi per il mondo.
È certo stata l’esperienza del cinema, arte popolare per eccellenza, a portare Guerra a confrontarsi senza timore di contaminazioni con la cultura di massa e con l’ovvietà e la banalità della produzione seriale di cui coglieva l’efficacia comunicativa e di cui non temeva le implicazioni più triviali. A lui si deve l’ultima reinvenzione dell’immagine della Romagna, anche a uso turistico, nella sincera convinzione che parlare a tutti con oggetti familiari e apparentemente facili, ma belli, avrebbe arginato lo sfascio ambientale e sarebbe servito a salvare qualcosa di quel tenero senso dell’uomo e della vita che egli aveva in modo sublime rappresentato nelle sue liriche e nel cinema. Basti da solo il ricordo di due memorabili sequenze di Amarcord che pongono un argine umanamente sensibile e doloroso al grottesco felliniano: il matto che sale sull’albero per gridare “A voi una dóna” (voglio una donna) e l’esplosione della lite a tavola in casa dell’antifascista.
Tonino Guerra è morto ieri mattina a Santarcangelo nella sua casa sopra il “caffè” dove per anni si è incontrato con gli amici. Fino all’ultimo ha ricevuto tutti quelli che si affacciavano sulla porta di casa:
“Mu me la mórta / l’a m fa una pavéura che mai / ch’u s lasa tròpa ròba ch’l’a n s vaid piò: / i améig, la tu faméia, / al piènti de’ pasègg ch’a gli à cl’udòur, / la zénta te incuntrè una vólta snò” (A me la morte / mi fa morire di paura /perché morendo si lasciano troppe / cose che poi non si vedranno mai più:/ gli amici, quelli di famiglia, i fiori/ del viale che hanno quell’odore / e tutta la gente che hai incontrato / anche una volta sola).