Fantascienza postcoloniale / L'afrofuturismo di Nnedi Okorafor

13 Febbraio 2021

Nnedi Okorafor è una scrittrice nigeriano-americana, classe 1974, nativa di Cincinnati e figlia di genitori nigeriani fuggiti negli USA alla fine degli anni Sessanta, a causa della guerra civile tristemente famosa per il genocidio del Biafra. La sua carriera di scrittrice comincia però nel XXI secolo ed è costellata di successi, a partire dal premio Wole Soyinka per la letteratura in Africa conseguito nel 2008, a cui sono seguìti: World Fantasy Award nel 2011, Hugo nel 2016, Nebula nel 2016, Locus nel 2018 e Eisner nel 2020. Infine eccola tradotta in Italia: Laguna per Zona42, Chi teme la morte, la profezia di Onye per Gargoyle e Binti per Mondadori, a cui si aggiunge i racconti contenuti nell’antologia Le visionarie (Nero editions), curata da Ann e Jeff VanderMeer, e nello speciale “Storie” di Internazionale, n. 1339, dedicato alla fantascienza contemporanea. Fantascienza, quindi, quella di Nnedi Okorafor, o, meglio, afrofuturismo. Ed è lei stessa in una TED Talks a illustrarci la differenza tra la science-fiction tradizionale e questa sua nuova incarnazione attraverso l’analogia tra l’intelligenza umana e quella del polpo: nel grande albero dell’evoluzione i polpi e gli umani si sono separati prestissimo e quindi la loro intelligenza per quanto li accomuni ha fondamenta distinte, scritte nel passato remoto del nostro pianeta.

 

E se la fantascienza, sempre secondo l’autrice, con le sue domande “sulla vita, l’universo e tutto quanto” (per citare, con rispetto e devozione, il grande Douglas Adams) si pone spesso come una forma di scrittura politica estremamente efficace, non tutta la fantascienza ha le stesse basi, che, sempre secondo Nnedi Okorafor, sono occidentali, maschili e “bianche”. Diverso il caso della sua saga dedicata al personaggio di Binti, invece, in cui ci si muove a partire da cosmologie, cultura e sprititualità africane che si sono fuse con la tecnologia e i suoi derivati letterari fino a creare un universo narrativo originale, un universo afrofuturista (termine coniato già nel 1993 dal critico e scrittore Marc Dery). Si può quindi parlare di un’appropriazione degli scenari sci-fi da parte della cultura afroamericana, in cui agli sbocchi pessimisti di certa narrativa fantascientifica si sostituiscono futuri in cui scienza e tecnica si mischiano con la cultura afroamericana per immaginare mondi alternativi non necessariamente peggiori del mondo reale.

 

 

Binti è uscito in Italia nel 2019, con traduzione di Benedetta Tavani, e raccoglie in un’unica pubblicazione le tre novelle, più un racconto, che Nnedi Okorafor ha dedicato a partire dal 2015 all’omonimo personaggio: “Binti”, “Binti: fuoco sacro”, “Binti: ritorno a casa” e “Binti: la maschera della morte”. Un’opera che al netto di qualche forzatura si fa apprezzare sia per la forza del personaggio sia per il tema di fondo, una sorta di riflessione post-colonialista sui rapporti tra oppressi e oppressori. Oscillando tra la fantascienza “per adulti”, il romanzo di formazione e la young adult, l’afrofuturismo di Nnedi Okorafor trova così la sua vera forza nell’ambientazione e negli argomenti trattati, per la speculazione visionaria sul futuro remoto dell’umanità all’insegna della convivenza (problematica) tra culture diverse; e lo fa attraverso il racconto in prima persona di una ragazza poco più che adolescente, ma con problemi molto più che adolescenziali. Binti è un’eroina in bilico tra successo e fallimento, dalla vita estremamente complicata, tanto che l’otjize con cui si cosparge il corpo, una mistura di pigmenti usata per proteggere l’epidermide, nella narrazione si carica di significati simbolici che stanno a segnare la sua connessione con le radici ancestrali, pur nel distacco e persino nella mutazione a cui andrà incontro.

 

Dalla sua la giovane Binti vanta un’intelligenza superiore, un incredibile talento matematico-mistico, ma si porta appresso anche un marchio da freak per aver violato tabù su tabù ed essersi persino mescolata con gli alieni. Oscillerà così per tutto il libro tra le ultime e le prime posizioni della classifica, cambiando punto di vista e prospettiva in quella che è anche un’odissea (spaziale) dell’identità. Un concetto, quello dell’identità, di cui sarebbe necessario ripulire l’immagine prima che il pianeta deragli del tutto in questa sua enfasi da lite condominiale il cui destino apocalittico sembra inevitabile, se non cambieremo la rotta in tempo. Questo, almeno, è quello che sembra suggerirci l’autrice.

 

 

Binti è una ragazza di etnia himba, popolazione africana che esiste davvero ed è imparentata con i namibiani herero, che furono le vittime di uno sterminio perpetrato dalle autorità coloniali tedesche all’inizio del Novecento. Ma nella finzione romanzesca di Nnedi Okorafor, ambientata in un futuro così remoto da essere diventato, mi si perdoni il paradosso, ancestrale, quasi magico, gli himba sono sottomessi ai superbi kuosh, una civiltà inventata dall’autrice che, come dice la stessa Nnedi Okorafor in un suo tweet, non rappresenta i colonizzatori europei. Comunque sia e chiunque siano gli “infiammabili” kuosh, gli himba per certi versi non sono da meno degli oppressori e hanno anche loro una tribù di ultimi con cui rifarsi, nomadi che possono guardare dall’alto in basso e di cui è meglio non fidarsi.

 

 

La gerarchia delle etnie, delle nazioni e delle specie senzienti e odianti si riproduce inoltre su scala interstellare, cosicché quando Binti va a studiare alla Oomze, la più prestigiosa università dell’universo, incontra una razza di meduse spaziali anch’esse superbe e vendicative, in lotta con i kuosh per motivi così vecchi da essersene persa la memoria. Man mano che la storia di Binti va avanti e la vediamo alle prese con gli alieni (nel primo e più bel romanzo della serie), poi con l’università multietnica in cui lei stessa sarà contemporaneamente studentessa eroina e studentessa emarginata, quindi sulla Terra alle prese con la sua famiglia e gli odi etnici, Binti perderà un pezzo della sua identità e acquisterà in cambio qualcosa di nuovo. E se attorno a lei gli himba si mettono al riparo da quei kuosh che a loro volta odiano le meduse (ben ricambiati, per altro), e tutti si tengono alla larga dai nomadi, e vanno a complicarsi l’esistenza fino a che l’unica parola possibile sarà diventata la parola “guerra”, in noi che leggiamo questa saga ambiziosa permane la sensazione che nel mondo contemporaneo la diffidenza, l’odio e i muri tra persone, culture e nazioni continuino a essere eretti senza che nessuna Binti, per quanto dotata ed empatica, potrà mai armonizzare le nostre teste matte.

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