Vite postume del libro

15 Ottobre 2015

Un recente articolo del New York Times ha annunciato al mondo che il libro di carta non è morto. Ripresa in Italia da La Repubblica, la notizia ha fatto un rapido giro dei social, dove gli integrati hanno lautamente sbeffeggiato gli apocalittici con variazioni sul (notoriamente scivoloso) tema del ride bene chi ride ultimo. Il falsetto di questo dibattito tra posizioni appiattite da un’irresistibile forza centrifuga, fino a ridursi a sagome grottesche, è in sé degno di nota. Da un lato il sottotesto è la dubbia teoria della disruptive innovation: è come se tutti aspettassero una qualche dirompente invenzione tecnologica o di business model, capace di sparigliare tutto e poi riassettare la filiera e il mercato editoriale in forme altre e impreviste. Da quel momento in poi il libro gutemberghiano entrerebbe nella classe dei dead media, in buona compagnia tra il betamax e il jukebox. È in tutta evidenza un’aspettativa indotta da un clima ideologizzato: tradisce una visione aggressiva del mercato da parte di soggetti accentratori, che ambiscono a sgominare la concorrenza con un barbatrucco. È anche in un certo senso una profezia autoavverantesi, almeno finché le spinte verso la concentrazione e l’oligopolio nel mercato del libro continueranno a essere molto forti, con o senza aggiunta di innovazione. Il fronte opposto sembra semplicemente reazionario: rivendica il conservatorismo dei bei tempi e degli antichi mestieri, rifiutando di tener conto del cambiamento dei comportamenti di lettura e più in generale della transizione in atto nei meccanismi di circolazione della conoscenza.

 

Ma torniamo alla notizia. Com’è già stato osservato da alcuni commentatori d’oltreoceano, il pezzo del NYT riproduce in reltà il punto di vista dei grandi player del mercato editoriale mondiale, membri della Association of American Publishers, effettivamente colpiti da una vistosa flessione delle vendite di eBook nell’arco dell’ultimo anno. Omette però diversi dati altrettanto significativi. Per esempio il fatto che nello stesso periodo la quota di mercato digitale dei selfpublisher ha subìto un calo di gran lunga più contenuto, o che quella dei piccoli e medi editori è rimasta relativamente stabile. O ancora che la quota di Amazon ha guadagnato più di otto punti percentuali. E soprattutto che quella perduta dai 1200 editori della AAP, che in ogni caso coprono meno della metà del mercato, è stata di fatto occupata dalle vendite di eBook pubblicati da soggetti editoriali indipendenti – sono libri in larghissima parte addirittura sprovvisti di ISBN – che registrano un aumento importante, pressoché speculare rispetto alle perdite dei grandi editori.

Un quadro dunque ben diverso, e di gran lunga più complesso, rispetto alla presunta generica esplosione della bolla digitale, contrapposta senza sfumature alla ripresa della buona vecchia carta.

Per interpretarlo, sarebbe utile tener conto ad esempio della politica dei prezzi degli editori che, deliberatamente, rincarano i libri digitali per non intralciare le vendite di quelli stampati, con risultati davvero banalmente prevedibili. Di fatto, il segmento di prezzo al di sotto dei cinque dollari è ormai di esclusivo dominio degli indipendenti, mentre la media sia per i medio-piccoli editori sia per i grandi è salita oltre i nove dollari, con picchi formidabili. Dal punto di vista del lettore, ci vuole proprio una robusta dose di nonchalance o una motivazione di ferro per pagare tanto l’accesso a una cosa che ha un costo marginale tendente a zero.

 

Possiamo ricavarne una riprova dal caso dei servizi a sottoscrizione che hanno sperimentato nel mercato del libro il modello Netflix o Spotify. L’attuale problema di queste piattaforme digitali non è la disaffezione dei lettori, ma anzi, specie in alcuni settori, l’eccesso di domanda. Come ha rivelato il fondatore di Smashwords Mark Coker, ad esempio, Scribd ha escluso dall’offerta illimitata in abbonamento oltre l’80% di titoli rosa ed erotici perché gli affezionati al genere sono lettori particolarmente forti. Paradossalmente, a ritmi di vendita elevati, a causa delle royalties troppo alte, il modello di business si è rivelato non più redditizio, e sulla stampa di settore si comincia già a vociferare di una probabile evoluzione verso il modello delle pay tv, con un’offerta base e pacchetti dedicati per genere.

 

C’è uno spettro molto ampio di sfumature intermedie tra l’estinzione della stampa e il flop del digitale. Si tratta in genere di prospettive molto più verosimili di questi estremi, perché è piuttosto improbabile che una tecnica antica e consolidata come la stampa segua lo stesso destino di innovazioni effimere e acerbe come il cinema muto o la macchina da scrivere elettronica. Ma è altrettanto improbabile che le modalità del suo uso e della sua diffusione resistano inalterate di fronte a mutamenti profondi come quelli a cui assistiamo, sia sul piano tecnologico sia su quello strutturale della produzione di valore. È un quadro complicato e controverso, che sconfessa regolarmente le ipotesi affrettate e richiede strumenti di analisi ben calibrati. Ecco perché sugli annunci funerari a proposito del libro di carta o dell’ebook sarebbe proprio utile una moratoria.

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