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Diario 5 / C'è chi balla e chi ha seminato fiori

7 Maggio 2020

Cosa resterà della lingua di questi giorni di cui tanto si è scritto? 

Delle metafore belliche: la guerra, la trincea, l'attacco, gli eroi, il nemico.

Di quelle calcistiche, che tanto non mancano mai, in questo paese di uomini, spogliatoi e bar.

Di quelle horror catastrofiste: il mostro invisibile, lo tsunami, la bomba atomica. 

Delle parole da “avvocato del popolo” metamorfizzato in “notaio del popolo” (congiunti mutuati in “parenti fino al sesto grado”, traslato direttamente dai manuali di diritto di successione quando si devono rintracciare gli aventi diritto all'eredità o dai siti di compilatori di alberi genealogici). 

Delle frasi speranzose, dolenti, commosse delle pubblicità che fanno leva sui sentimenti più a buon mercato in un unico, infinito, polpettone che frulla insieme assicurazioni, sughi, telefoni, energia, supermercati, acque minerali, divani: spot accomunati da inviti motivazionali, proclami roboanti, lirismo per la bellezza perduta, tutti identicamente colati nel medesimo stampo #covid19. Identici persino nella musica, la solita marcetta un po' sognante con molti violini oppure la rarefazione delle note di pianoforte suonate molto lentamente. Le parole sono: attività, ripartenza, progetti, futuro, orgoglio, vicinanza. E su tutto, sempre, la parola “italiani”. 

Mai come in questi giorni la melassa da spot appare falsona e suona irritante. Italiani che devono pagare le bollette, comprare 'sta benedetta roba, farsi appiccicare nuovi contratti. E che, chiusi in casa e collegati a rete e tv, incazzati e preoccupati come sono, non si lasciano certo incantare da questa sbobba. Mi chiedo (e non sono la sola) come li abbiano messi assieme questi spot: con brainstorming da casa e montaggi in fretta e furia? Testi scritti nella notte in preda a visioni mistiche e apocalittiche? E chi li ha vistati e approvati, a che pensava? Davvero gli è sembrata buona 'sta roba? Nessuno si è posto qualche scrupolo da psicologia di massa per una massa improvvisamente reclusa e claustrofobizzata? 

E della lingua medicale (contagi, TI intese come terapie intensive, DPI, covid-hospital, respiratori, sierologici, OSS, RSA, ATS), cosa resterà? Quanto a lungo, ancora, parleremo e ragioneremo girando attorno a questi termini?

E di quella statistica (curve, picchi, plateau, bollettini vari)?

Dell'orrendo, e ormai arrivato a livello di guardia, paternalismo alla base della grande campagna di propaganda per l'attuazione del lock-down (tutto il martellamento sullo state a casa, mettete le mascherine, proteggete voi e gli altri, tenete duro, ce la faremo ecc. ecc. scandito dai talk show, dai programmi di intrattenimento, dai tg, con la cadenza di un rosario, murmure, insinuante, ossessivo da trance, oppure urlato, scritto in cap lock, in forma di ordine condito da parolacce e punti esclamativi), so per certo cosa resterà per me.

A me, resterà l'orrore di aver scoperto come possa nascere il totalitarismo in poche, semplici, mosse. Come sia possibile che, nel giro di 48 ore a dire tanto, ci si possa ritrovare, da paese democratico e abbastanza progressista, a nazione di questurini e controllori degli altri. Con diritti sospesi e una caduta nell'abisso sempre più paranoica e cupa.

 

Fuori: tricolori, inni di Mameli e mezzi di soccorso o della polizia. Dentro: italiani, mangiare italiano, produci italiano, vai in vacanza in Italia, dai una mano all'Italia. 

Per fortuna, forse sono le ultime ore.

Anche se commissari, dottori e ministri hanno messo tutti in guardia: “comportatevi bene altrimenti richiudiamo”, “noi abbiamo fatto la nostra parte ora dipende da voi”, “due settimane per osservare numeri e contagi, poi vedremo”.

Un tono da padroni delle vite altrui, che pretendono di normare legami, libertà di movimento, diritti all'aria e alla luce.

Di nuovo il linguaggio: quando Arcuri dice “ora tocca a voi” non tiene conto dei mesi di sacrifici, con perdita di lavoro, studio, affetti, libertà, sicurezza, di milioni di persone. Come se fossimo stati a casa per scherzo, per capriccio, per finta.

 

 

Continua a farmi molta impressione la foga e l'applicazione con cui molti si lanciano nella denuncia dei comportamenti scorretti dei propri simili e vicini. Con l'avvicinarsi della parziale riapertura, si riacutizzano timori, sfiducie, i “moriremo tutti”, i “penitenziagite”, gli antichi “mamma li turchi” (ma i turchi, stavolta, siamo proprio noi). Continua a farmi impressione la gente che dalle proprie bacheche stila liste di quelli che ha incontrato in giro, con tanto di dettagli sulle mascherine viste, sui guanti, sulla velocità di movimento, sull'aria che avevano, sulle facce da impuntiti che hanno riscontrato... 

E loro che ci facevano in giro? Come hanno fatto a vederli? E che faccia avevano, loro?

Sempre in giro, questi, oh.

 

Magia, il primo giorno di riapertura non succede il finimondo. Le persone che lavoravano da casa continuano a lavorare da casa, le scuole sono sempre chiuse, i negozi pure, non ci sono gli studenti che arrivano in città perché le facoltà pure sono chiuse, i mezzi non sono stati presi d'assalto, non c'è questa frenesia di correre fuori ad abbracciarsi, baciarsi, stringersi la mano. Che strano, eh? Ci sono solo un po' più persone in giro rispetto agli ultimi giorni di chiusura totale, che adesso ci si può spingere un po' più lontano da casa senza rischiare il multone.

Bene, almeno posso smetterla di fare a raggiera tutte le vie attorno a casa mia, il giro dell'isolato, il mio circuito da criceto in gabbia.

 

La mattina della riapertura circola in rete un video di Milano, Porta Venezia, che mostra una decina di ragazzi in strada – distanziati e con mascherina d'ordinanza – mentre ballano sulle note di “Sweet Dreams” degli Eurythmics rimixato e mandato dal primo piano di una casa. A me mette molta allegria: la trovo una piccola cosa allegra, umana, innocua, una manifestazione liberatoria e aggraziata di pochi minuti. Apriti cielo! Accuse, acidità, riprovazione sparse sui social a piene mani. Viene evocata la mancanza di rispetto verso i morti, si piange perché ci sono (testuale) “dei coglioni che non rispettano le regole, o forse i veri coglioni siamo noi che le rispettiamo”, dal sud piovono rimproveri verso il nord (“pensate se lo avessimo fatto noi!”). Si mobilita il sindaco Sala che dà una bella strigliata ai ragazzi e ai “presunti dj” da balcone (strano, dopo due mesi di inni e canzoni dai balconi che hanno fatto scuola nel mondo). Dice ai ballerini che la strada non è la loro, che ha mandato i controlli, che ha fatto una diffida e che se si continua così, “come sul set di Grease o di La La Land”, si passerà a misure più forti. Insomma, restando nell'abito cinematografico, si pone un po' come il reverendo di Footloose. Non si balla in strada a Milano, neanche cinque minuti. Neanche in sicurezza.

 

Il sindaco, con questa uscita genere “a Milano non si balla”, vuol forse far dimenticare l'adesione a Milano non si ferma? 

Fu un errore, pazienza. Nessuno sapeva, all'epoca, cosa stava per abbattersi sulle nostre teste. Erano due mesi e mezzo fa, non è vero che si poteva facilmente prevedere: siamo stati i primi.

Seguire l'onda che continua a colpevolizzare alla cieca non serve. Ci si concentri, semmai, su quello che ancora manca, che non è ancora stato fatto, che non è cambiato. Sappiamo cos'è. 

Di sicuro, non sono dieci ragazzi che ballano.

 

Milano, fuori, è percepita come Wuhan dei tempi bui. Certe volte capita di parlare con chi è altrove e sentirsi dire “Ma che sta succedendo lì?”, come se ci fossero davvero i monatti del Manzoni.

 

Eppure la città, in questi giorni è viva e bellissima. Mi sorprende, a tradimento, nel primo pomeriggio di martedì, a Porta Nuova, sotto la torre Unicredit lucida e deserta che riflette Palazzo Lombardia e il Bosco Verticale, ai piedi delle gru che stanno tirando su il grattacielo dell'Unipol, davanti gli edifici ex brutti e rovinati un tempo centri direzionali ora ricoperti e diventati bellissimi, all'angolo di Melchiorre Gioia con via della Liberazione.

Una prateria piena di colori che sembra quella di certe conche appenniniche: papaveri, iris, fiorellini gialli, blu, viola, bordeaux, rosa, bianchi, tremuli nel vento primaverile, nel silenzio della città ancora molto vuota. A milioni, umili e piccolini, in boccio o già belli spampanati, un'esplosione multicolor di una sapiente semina di cui non sapevo nulla, che sembrava aspettarci appena usciti di casa e finalmente liberi di spostarci, per lasciarsi ammirare fra il verde delle aiuole non troppo rifinite, attraverso qualche fiocco bianco dei pioppi in sospensione, sullo sfondo del canto di uccelli distinguibile senza i rumori del traffico.

Chi ha preparato questo regalo per noi?

La città è viva, c'è chi balla e chi ha seminato fiori.

Godiamoci un po' di questa bellezza. Direi che sì, stavolta ci spetta.

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