Speciale

I linguaggi della conoscenza storica / Raccontare la Resistenza

21 Aprile 2016

Esistono strategie narrative seduttive che incidono sul senso comune e sul sapere storico diffuso, e arrivano a proporre un passato liofilizzato, esangue, senza spessore. Ma non basta criticare questo tipo di narrazioni: bisogna competere con loro, appropriandosi delle loro seduttività: gli storici devono scendere in quell'arena e trasmettere i contenuti delle loro ricerche, altrimenti rimangono fine a se stesse, si esauriscono in una retorica monumentale e non incidono nello spazio pubblico. Ripercorrendo settant'anni di dibattito storiografico si rimane colpiti dalla congruenza tra i vari linguaggi che hanno raccontato la Resistenza e ciò che gli storici parallelamente hanno detto e scritto sullo stesso tema: i paradigmi di riferimento sono cambiati e cambiano sulla base della sensibilità e della cultura politica del momento.

 

La primissima fase che possiamo individuare è quella che va dal 1945 al 1948. Pensiamo al neorealismo italiano, ai film Roma città aperta (1945), Paisà (1946) e Il sole sorge ancora (1946). Sono opere nelle quali la narrazione della Resistenza è tutta costruita sulla sua spontaneità. Certo, i partiti ci sono, ma non appaiono decisivi: quello che è evidenziato è un moto dal basso di ribellione contro fascisti e tedeschi. E lo stesso sguardo, in quello scorcio di tempo, viene proposto dalla storiografia, anche se all'epoca è ancora molto legata alla memorialistica: sono i protagonisti i primi a scrivere. Sono decine e decine i libri a uscire a ridosso dei fatti. Un esempio su tutti, Vecchi partigiani miei di Piero Carmagnola, scritto da un ventenne (!) ai propri compagni di lotta che chiama, appunto, “vecchi partigiani miei”. Quasi tutti i volumi di questo periodo escono con case editrici minori, e quasi nessuno ha una tiratura importante, ma si tratta di un tentativo dal basso di raccontare “a caldo” queste esperienze partigiane vissute in prima persona. Parallelamente, la narrativa vera e propria – penso a Uomini e no di Elio Vittorini (1945) o a L'Agnese va a morire di Renata Viganò (1950) – ci mostra un'ansia di riappropriazione di un'esperienza di grande rilevanza, difficile da metabolizzare, che ha segnato in profondità la storia del paese e che può diventare un patrimonio dal quale attingere per una nuova religione civile italiana. Il paese si sta scrollando di dosso vent'anni di fascismo, sta riassaporando la libertà in tutta la sua dimensione più creativa. Non è solo un problema culturale, è anche un problema politico: è la ricostruzione; è la Costituzione; è il voto. L'affluenza alle urne è oltre il 90%: la voglia di protagonismo, di contare, di affollare in massa le sezioni elettorali, è una vera e propria molla. Cinema, memorialistica e letteratura sono dentro questo schema, partecipano al disegno di una nuova Italia.

 

 

Tra il 1948 e la fine degli anni Cinquanta si assiste a qualcosa che è molto simile a una rimozione. I racconti della Resistenza diventano esigui, rapsodici: è come se sparisse dal dibattito culturale, ed è come se sparisse anche dalla politica. Penso al ministro democristiano Giuseppe Rufo Ermini, che nel 1955 manda una circolare dicendo che il 25 aprile bisogna festeggiare la nascita di Guglielmo Marconi... Il mondo è subordinato alle logiche della Guerra fredda e alla contrapposizione tra Stati Uniti e Unione Sovietica, in Italia i comunisti sono rinchiusi in una sorta di ghetto culturale. Solo di un film vale la pena parlare: Achtung! Banditi! di Carlo Lizzani (1951). Per avere un'idea del clima dell'epoca è sufficiente pensare al festival di Sanremo: a Vola colomba di Nilla Pizzi, del 1952, o a Vecchio scarpone, dell'anno successivo, due canzoni che ci mostrano un retaggio nazionalistico che viene direttamente dal fascismo. L'unico intervento rilevante che viene fatto sulla lotta di liberazione è radiofonico, quando Franco Antonicelli legge la sua recensione alle Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana (edito da Einaudi nel 1952). E l'unico libro che ha un significato e che è destinato a rimanere, è un “monumento”: Storia della Resistenza italiana di Battaglia, del 1953. La Resistenza qui è esaltata come un secondo Risorgimento, come un qualcosa di inattaccabile, enfatico, ed è una difesa rispetto agli attacchi che la lotta di liberazione sta subendo in quella fase, una fase in cui la Resistenza, in sostanza, è stata rimossa. 

 

Questa dimensione si disintegra nelle giornate del luglio 1960, che passeranno alla storia per le rivolte in piazza, a partire dagli scontri con la polizia in seguito alla tentata organizzazione a Genova (città medaglia d'oro della Resistenza) del congresso del Movimento sociale italiano, che sta dando il suo appoggio al governo Tambroni. In questi giorni, nello spazio pubblico italiano e nelle piazze, riemerge con forza l'antifascismo.

 

Tra il 1958 e il 1962 assistiamo all'apparire di una filmografia straordinaria: è una stagione di grande creatività del cinema italiano, al cui interno la dimensione dell'antifascismo pervade quel tipo di commedia all'italiana, come in Tutti a casa di Luigi Comencini e con Alberto Sordi (1960). È un momento prodigioso, e lo è anche dal punto di vista musicale. La canzone Casetta in Canada, del 1957, viene letta come un esempio di subalternità culturale assoluta dai Cantacronache, gruppo di musicisti, letterati e poeti che sorge proprio quell'anno a Torino: ed è a questo gruppo che si deve un nuovo modo di cantare la Resistenza. Con i Cantacronache emerge una nuova canzone antifascista, e non è solo una questione di un nuovo genere legato alla musica leggera, ma di una vague che coinvolge tutti (anche il compositore Luigi Nono, per esempio). L'antifascismo diventa il capovolgimento del paradigma fascista, vale a dire del “ciascuno al suo posto” che aveva segnato il ventennio: le donne con le donne, i bambini con i bambini, gli studenti con gli studenti – ciascuno doveva essere subordinato al vertice della gerarchia totalitaria, in un'organizzazione della società che accompagnava “dalla culla alla tomba”. 

 

 

Nell'antifascismo si realizza la rottura di questi compartimenti stagni, e anche quella dei generi musicali. Fiorisce un nuovo genere che è la rottura dello schematismo gerarchico degli anni precedenti. Pensate ai melodici degli anni Cinquanta, che reiteravano lo schema strofa/ritornello/strofa/ritornello. E poi arrivano Luigi Tenco, Gino Paoli, Sergio Endrigo, Umberto Bindi... una generazione di cantautori che disintegra quest'ordine. 

La rivoluzione dei generi la possiamo vedere anche a teatro, nei tre atti unici dell'opera di Fenoglio e nei temi che affronta. Il dubbio, l'angoscia, la radicalità di una scelta individuale: la lotta partigiana non è un monolite, ma una scelta che va reiterata dopo i rastrellamenti, dopo le fughe, dopo le battaglie, assillati dall'incubo ricorrente della morte. 

 

In quei pochi anni l'antifascismo si appropria di una nuova modernità di linguaggi, e alla base di questo tramestio c'è il boom economico. Dal 1951 al 1961 l'Italia, un paese contadino, è diventato la quinta potenza industriale del mondo. È una trasformazione non solo economica, naturalmente, ma culturale e antropologica. Sparisce tutto quello che si era costruito intorno al familismo in una società contadina. Nel 1958, quando Domenico Modugno a Sanremo canta Volare, si propone l'immagine del cambiamento. Il fermento culturale intorno al quale si aggrega tutta questa vitalità è l'antifascismo, nella sua capacità di suggerire nuovi percorsi sperimentali, anche nel cinema (pensiamo a Una vita difficile di Dino Risi, del 1961, o a Il terrorista di Gianfranco De Bosio, di due anni successivo). In questo senso la storiografia si adegua alla nuova realtà, con consapevolezza ma non con la vivacità che ci si aspettava rispetto a questo tipo di fioritura: tende a prevalere su tutto il resto l'attenzione all'organizzazione del partito, all'ideologia, ai “programmi”, e quello che viene scritto dagli storici negli anni Sessanta non coglie la complessità, sintetizzabile nel “paradigma Fenoglio”. Che per venire raccolto dagli storici dovrà aspettare gli anni Novanta, dovrà aspettare Claudio Pavone (Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, 1991). 

 

Poi arrivano gli anni Settanta, e il clima politico subisce una rivoluzione. Soprattutto nelle piazze e nelle università arriva “l'antifascismo militante”. Anche il cinema prende l'espressione plumbea degli anni Settanta: le opere prodotte sono lo specchio, più che di quello che raccontano rispetto al passato, dell'epoca in cui sono state prodotte. Pensate al film di Valentino Orsini Corbari (1970), la storia di un partigiano veramente esistito, in cui, ad esempio, assistiamo alle discussioni tra i partigiani “in banda” che sembrano quelle sul Libretto rosso di Mao Tse Tung che si facevano all'epoca. In un'altra scena del film, quando il padrone di una fabbrica viene appeso a testa in giù, ci fu un grande tumulto nelle sale di tutto il paese. Nel 1975 esce Il sospetto di Francesco “Citto” Maselli, una storia ambientata nel ventennio che introduce una cifra ideologica, quella di un comunismo pesante, invasivo. Tra i protagonisti c'è Gian Maria Volontè, che in quegli anni presta letteralmente il suo volto al cinema “di denuncia” (come Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, 1970; La classe operaia va in paradiso, 1971). I film in quel periodo parlano del presente, basti pensare a Uomini e no, il film di Francesco Rosi (1970) tratto dal libro di Vittorini, e a L'Agnese va a morire di Giuliano Montaldo, che nel 1976, rifacendosi al romanzo della Viganò, parla del protagonismo delle donne, in totale sintonia con due libri che escono proprio negli stessi mesi sulla lotta di liberazione: La Resistenza taciuta (a cura di Anna Maria Bruzzone e Rachele Farina, 1976) e Compagne. Testimonianze di partecipazione politica femminile (a cura di Bianca Guidetti Serra, 1977). 

 

 

Vediamo un'impressionante convergenza tra riflessione storiografica e narrazioni, come se queste ultime fossero in qualche modo subalterne al lavoro degli storici. C'è però una pellicola che rompe questo schema: nel 1982 esce La notte di San Lorenzo dei fratelli Paolo e Vittorio Taviani, e in questo film la riflessione sulla guerra civile italiana anticipa l'intervento che Claudio Pavone farà tre anni più tardi a un convegno a Brescia, e che sarà la base per il suo monumentale volume che abbiamo già citato (Una guerra civile, 1991). Anche nella scena musicale c'è grande fermento: c'è l'opera degli Stormy Six (che si rifà al modello terzointernazionalista), c'è il movimento di autoriduzione per entrare gratis ai concerti, ci sono le canzoni di Claudio Lolli, e poi le contestazioni a Guccini e Vecchioni perché “si vendevano al capitale”... e poi c'è Parco Lambro: è proprio in un festival musicale che nel 1976 si consuma l'ultimo atto di questo tipo di percorso, e si sgretola il gruppo extraparlamentare Lotta continua.

 

E poi, il vento cambia di nuovo. Gli anni Ottanta sono un decennio in cui anche in tv inizia ad affiorare una visione afascista, se non filofascista, della storia. Nel 1984 esce il film di Pasquale Squittieri su Claretta Petacci, che segue la serie di Nicola Caracciolo intitolata Tutti gli uomini del duce. Ed è proprio Caracciolo a innamorarsi di una visione che propone in Galeazzo Ciano, genero del Duce, un possibile oppositore di Mussolini: nonostante tutte le immagini dell'Istituto Luce ritraessero un Ciano sempre allegro, tronfio, l'audio che le commentava nella trasmissione lo descriveva come schiacciato nella sua opposizione al fascismo. Il revisionismo strisciante, insomma, comincia a essere davvero presente nello spazio pubblico, soprattutto grazie alla televisione di massa. Negli anni Settanta la tv pedagogica aveva proposto prodotti molto belli, come Nascita di una formazione partigiana di Ermanno Olmi (1973) o Processo per stupro, un documentario del 1979 che racconta un processo nel quale per la prima volta le donne si costituiscono parte civile. Poi, solo quattro anni dopo, nasce Drive in, una trasmissione strutturata sulla presenza di donne nude: un'idea diametralmente opposta, che valorizza la presenza femminile solo grazie al richiamo erotico del loro corpo.

 

In questo periodo si insiste molto su un carattere “non italiano” della Resistenza. Lo storico Renzo De Felice sostiene che i “veri” italiani allora non scelsero, ma si riconobbero in una dimensione di terzietà: né partigiani, né fascisti. Il racconto di un'Italia epica, secondo De Felice, non sta in piedi. Su questo impianto comincia il “processo alla Resistenza” che esplode negli anni Novanta, gli anni della “seconda Repubblica”, quando la Resistenza viene cancellata. Il presidente della Camera dei deputati Luciano Violante tiene il celebre discorso sui “ragazzi di Salò”, si celebrano la battaglia di El Alamein e la resistenza di Cefalonia con la stessa enfasi, mettendo insieme carnefici e vittime, e in questo interstizio c'è spazio per un lavoro come Il sangue dei vinti di Giampaolo Pansa (2003), in cui la Resistenza è raccontata oramai come un'opera di bassa macelleria. Pansa colleziona una serie di stupri, omicidi, nefandezze, e la Resistenza diventa così violenza brutale, fine a se stessa, senza che ci sia nessun tentativo di interpretazione storiografica. Televisione e cinema si allineano, nonostante si assista a diversi sussulti nel tentativo di proporre degli antidoti alla nuova vulgata revisionista. Il caso Martello di Guido Chiesa (1991) racconta una Resistenza emblematica: non sono più protagonisti i partiti, le masse e gli operai, ma è un individuo, con tutta le sue difficoltà, a liberarsi del suo passato, con il peso dei ricordi, delle recriminazioni, dei rimpianti. Il partigiano Johnny (2001), sempre di Chiesa, è ispirato fedelmente al romanzo di Fenoglio, e anche qui abbiamo la storia di un uomo solo, carico di dubbi e di perplessità. È una Resistenza dubbiosa, difficile, che si confronta sempre con la morte, nei discorsi, in una pallottola che sta per arrivare... Forse questa è una dimensione più vera, che ci restituisce la cifra umana di quell'esperienza. Il mondo è cambiato, e si vede. L'uomo che verrà di Giorgio Diritti (2009), credo che sia il miglior film che ci sia stato sulla Resistenza negli ultimi anni. Il regista, bravissimo, ha saputo assorbire tutto quello che il dibattito culturale gli ha proposto. Non c'è più la Resistenza celebrata né quella dei partiti, ma quella degli individui e delle comunità che riconoscono i propri codici culturali e rifiutano quelli degli “altri”, dei fascisti e dei tedeschi, e che sono in grado di aprirsi ai partigiani che a loro si oppongono. È davvero un film efficace, e qui c'è la sintesi di tutto quello di cui vi ho parlato: fare interagire la padronanza del proprio linguaggio con il clima del presente e con quello che la storiografia propone. Sono forse questi gli ingredienti che fanno un piccolo capolavoro.

 

A teatro, nello spettacolo Mai morti di Renato Sarti (2002), poi, i corpi dei protagonisti sono importantissimi. Bebo Storti in scena propone un personaggio gonfio, obeso, greve, come l'emblema del fascismo. E la dimensione biopolitica del fascismo come dominio del corpo era già in Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975): Pier Paolo Pasolini la estremizzava, usando la metafora del sesso-controllo. I corpi ammazzati, messi in scena (raccontati già da Fenoglio) sono uno dei crocevia sui quali la fisicità restituisce concretezza alla conoscenza storica. Si tratta di fare attenzione: nella sola dimensione cartacea la Resistenza si scioglie nel nulla, mentre la forza seduttiva del racconto sta anche nei corpi.

 

Intervento tenuto in occasione della presentazione del concorso Accendi la Resistenza. Storie di uomini e donne in guerra (Istoreto, Torino, 20 ottobre 2015). Il concorso si concluderà con la presentazione/premiazione dei lavori proposti, presso il Polo del '900 a Torino il 6 giugno.

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