Negev, nel lontano 1978 / Lettere dal kibbutz nel Negev

24 Novembre 2019

Un altro secolo, un altro mondo

 

Elena, mia moglie, ha trovato alcune lettere che le scrissi nel 1978, rifugiato in un kibbutz del Negev per tentar di guarire un po’ da una Italia che sarebbe arrivata in pochi giorni al rapimento e all’assassinio di Aldo Moro.

Quando giunsi nel kibbutz, vi trovai un’altra realtà, una realtà in pericolo anch’essa, ma così diversa da quella che mi aveva ormai intossicato.

I sensitivi sentono l’odore della polvere da sparo, vedono il fumo delle micce, ma non prevedono quanto siano lunghe… Imparai molto, nel kibbutz, per la prima volta non da turista, e conobbi da vicino una delle tante forme di socialismo destinate, presto o tardi, all’esaurimento.

Quel lignaggio di socialismo del deserto era ancora un Pianeta lampeggiante sperimentalità, abitato da coraggiosi che tentavano addirittura di salvare l’amore, ma ripudiando le strettoie egocentriche della famiglia darwiniana.

Ho lasciato le lettere così com’erano, cambiando solo i nomi per non coinvolgere i miei vecchi amici, oramai vecchietti come me.

 

Roma, 19 novembre 2019

 

Negev, 9 marzo 1978 (N°1)

Elena mia,

 

non so quando ti arriverà questa lettera: ti prego comunque di conservarla che poi mi serve da promemoria. Se ci riesco te ne mando una al giorno e il gioco (quello della memoria) è fatto. Porta al Monte la Nikon F2 che è oramai superata.

Come ti posso avviare, mia poverina, sulla strada della serena disperazione del socialismo del deserto? Fallito o trionfante?

Il profumo della polvere del Negev lo conosci: non sai che qui in kibbutz ti scrivo su carta da lettere gratis per tutti. Ci sono due spacci, uno che offre cose necessarie ma bruttarelle: carta come questa, buste, fiammiferi, carta igienica, sapone, stracci, aspirina… Prendi e te ne vai. Un altro invece, contiguo e non sorvegliato da nessuno, contiene cioccolato (marca “Pinocchio”, morissi qui!), biscotti: robe penosamente belle e tristemente buone. Si paga: nel senso che si fa un elenco di quel che si è preso, lo si firma e lo si mette in una cassetta. A fine mese si sgancia un po’ meno di “argent de poche”.

La povertà personale esteriore è assoluta: hanno i sandali tenuti dal pollicione e basta là. Polvere del deserto dovunque. Sono l’élite del Paese e lo sanno: ma sono l’élite di un Paese neonato e sono perciò infantili e complicati.

Hanno un affetto, pauroso, per i bambini (sento in questo momento i tuoni delle cannonate di prova che, lontano, nel deserto, sparano a intervalli per tutta la notte: vedessi che stelle! Leopardi e le cannonate). Hanno dunque un affetto pazzesco per i bambini. La felicità dei quali non trova nessun limite. Sono nuclei di benessere assoluto in un universo buio di stelle e spari. Avrai già capito che io, questo posto, non l’ho ancora visto di giorno. Stelle, spari e profumo di polvere e di eucalipti.

Insomma, questa sera il kibbutz ha fatto uno scherzetto ai suoi bambini. Come sempre, li hanno portati a letto, i papà e le mamme, ai bunker con i fiorellini dipinti sul cemento armato, cioè le case collettive dei bambini. I tecnici bambinologi li hanno presi in carico con aria truce: “tutti in pigiama i bambini e i grandi a casa loro!”. È la litania di tutte le sere per creare nei bimbi il “senso di gruppo”. Tutti in pigiamino, ma stavolta con strani ammiccamenti dei papà e delle mamme. Infatti, guidati sapientemente dai bambinologi, appena via i parenti biologici, i bambini si sono tolti i pigiamini, hanno rimesso scarpe e vestiti e sono… scappati nel deserto. Una ventina. Hanno acceso un falò e una grandissima scritta (preparata dai bambinologi), che ha stampato a lettere di fuoco, nel buio del Negev, la scritta, fiammeggiante, “Pace ai bambini” o qualcosa del genere.

I genitori sono arrivati, come per caso, e hanno partecipato un po’ alla festa; i bambini ci hanno regalato succo di pompelmo e patate cotte nella cenere, canzoncine (quelle di trent’anni fa, socialismo infantile, e infine l’Internazionale) e tutti a letto, sul serio, i bambini.

Dopo, per noi grandi, c’era la “riunione politica” (finita all’una di notte). Ho partecipato. Sono perfino intervenuto. Stesse nostre facce di qua dal mare, senza speranza, gli stessi boccoli grigi da bambolone marxiste. Hanno anche riso molto, non so di cosa perché non ho capito nulla. Protestavano, contentissimi, contro il governo, l’opposizione, il loro partito di minoranza di sinistra nel quale, a sua volta, il kibbutz è una minoranza ancor più di sinistra. Relatore, venuto da Tel Aviv, era il direttore del quotidiano socialista di qui: “Al amishmar” cioè “La sentinella”. Lo hanno conciato per le feste. Quella lì sembrava una riunione del Nucleo Aziendale Socialista della RAI.

Però, siccome è gente che sta nel suo salotto (enorme, per 200 persone), ci sono: thè, pasticcini, bibite, poltrone ecc…

Notizie climatiche della notte in camera mia: sono nudo, con la finestra aperta. Fanno non meno di 30 gradi. È arrivato il hamsin.

Lunedì vado a Gaza a una riunione coi palestinesi. Forse non riesco ad andare a Eilat. Andrò in Galilea da Alberto (fra 10 giorni). Domani in pullman andrò a visitare Ber-sheva, la capitale del deserto.

                    Aldino

 

Negev, 10 marzo 1978 (N° 2)

Elenuccia adorata,

 

è il mattino successivo a quello della lettera n° 1. Sento il bisogno di dirti ancora qualcosa.

Fa ancora caldissimo. Tutti sostengono che è la norma e dicono di guardarsi dalle infreddature. Tutti vuol dire… Meir, l’unico con cui  io possa parlare, per ora. Il kibbutz è costituito per lo più da sabra figli di sabra. I figli di Meir e Jeudith sono 3 (11, 4 anni e 7 mesi) e sono la terza generazione che nasce e vive nel kibbutz: la terza! Pochi qui conoscono le lingue straniere; si parla esclusivamente ebraico stretto. Meir, che parla l’inglese, il francese e l’italiano, è un deviante?

Ieri, in preparazione del Sabato, c’è stata la consueta distribuzione gratuita di leccornie: meline acide, perette marcette, formaggini tipo Milkana. Si va lì con un sacchetto di plastica, si raccoglie a volontà (c’è anche roba buona) , e si porta a casa. È una specie di limbo: la gente non ride, sorridicchia

Le casette per le coppie, o individuali, sono distantissime le une dalle altre: come se non si tollerassero a vicenda. È la cosa meno socialista, anzi, meno sociale che abbia visto. Ma poi dopo, mangiano insieme nella lussuosa sala da pranzo comune (hadar aokel).

Io ho una stanza con doccia, armadi ecc. tutta per me. È ai limiti estremi del kibbutz: fuori c’è sabbia, fino all’ultimo orizzonte, nel senso stretto della parola. La stanza è una casetta isolata, arredata in modo spartano, ma arredata. Non ha chiave (anche la porta è un fantasma!). La moglie di Meir (sono le 8) è arrivata con una sorpresa: la prima colazione. Si vede che non hanno creduto che al mattino prendo solo il caffè.

 

La colazione è: 4 fette di pane nero:

 

1. Yogurt (spalmato) + aglio + verde del finocchio

2. Yogurt + cetrioli

3. Yogurt + pomodori

4. Yogurt + ravanelli

 

Amen

Aldo

P. S. Stamane ho fatto la doccia col riscaldamento solare! Però qui è ovvia…. È l’acqua fredda che non c’è!

Vado  a Beer-sheva , che è  qui vicina. Il nome di questa città, modernissima ma antichissima d’origine, significa, credo, Pozzo n. 7, o forse anche i Sette Pozzi.

 

 

Negev 10-3-1978 (N°3)

Elena mia adorata,

questa non è la terza lettera del 10 marzo! È ancora sera, ma, prima di dormire, voglio buttare giù alcune osservazioni essenziali per non  dimenticarle. Sono idee tristi ma, forse, importanti.

1°) l’ospedale di Beer-sheva e l’università Ben Gurion: due Israele a confronto. Il giudaismo e il mondo;

2°) ho forse scoperto perché nel kibbutz amano così paurosamente i bambini;

3°) ho intravisto in molti luoghi ingranaggi che paiono nascosti sotto la sabbia;

4°) la natura sta cambiando. C’è una ripresa della selezione naturale? Causata, forse, anche dagli irrigatori a goccia;

5°) ondata dopo ondata di immigrazione, Israele torna un paese normale. Diventa normale nel bene e nel male;

6°) la guardia di notte  al cancello  è un operaio salariato: un beduino. La minacciosa torre di guardia arrugginisce inutilizzata, in attesa di tempi peggiori;

7°)  penso con amarezza e nostalgia ai bei tappeti persiani di casa nostra: nemmeno loro hanno un “perché” superiore agli sconfinati tappeti d’erba di qui, però questi qui di erba, coltivazioni e boschi nuovi, zittiscono, anno dopo anno, le voces clamantes in deserto.

Domani analizzerò, almeno in parte, quanto sopra ho tratteggiato. Vado a dormire.

 

Bene, è la mattina dell’11 marzo. Sabato. Come succede, i pensieri che sembravano tanto chiari e importanti di notte, alla mattina diventano irrilevanti. Oppure, quel che è peggio, difficili da descrivere. Alla fine della giornata siamo drogati dai “traumi delle percezioni” (migliaia di miliardi di unità), alla mattina invece prevale il mondo interno che è… quello che è, grigio o colorato, dipende da lui.

 

Sabato 11, pomeriggio. È venuto il freddo, e con il freddo è arrivata una tempesta di sabbia. Molti alberi stroncati. Non si vede nulla, bruciano gli occhi ecc. (Leggere “I sette pilastri della saggezza”, vedere “Rommel, la volpe del deserto”). La solita vecchia tempesta di sabbia, è inutile descriverla.

L’ospedale di Beer-sheva, costruito negli anni Sessanta, è fatto, come ricorderai, in modo tale che beduini ed ebrei si mescolino in casette basse che riparano, ma non separano del tutto, dal deserto. Le finestre, anche perché il sole non disturbi, vanno dal livello del pavimento fino a quello del ginocchio delle persone in piedi: da quelle finestre si può, ma solo sdraiati o accovacciati, ammirare lo sconfinato difuori. È un tentativo di fusione, l’ospedale, con la natura e con chi la abita. È un ospedale di estrema sinistra e “ecologico”. Esprime la speranza in un mondo migliore, ma non molto diverso da quello dei millenni passati dalle genti del deserto. Qui, anche nel kibbutz, lo giudicano brutto: e, anche per questo, un giorno o l’altro sarà buttato giù.

Davanti all’ospedale c’è l’università “Ben Gurion”, finita da poco. Quel palazzo costituisce la critica architettonica del vecchio (?) ospedale: non ha finestre ed è una fortezza tremenda, massiccia, tutta di cemento: luci e ombre sono accentuate qua e là dall’intonaco, bianco dove batte il sole e nero dove c’è l’ombra. È cupa e alta, ma molto bella.

L’università rappresenta l’esclusione completa dal mondo esterno, la lotta contro tutto e contro tutti. È il momento attuale, temo. Sull’ingresso una lapide proclama: “un giorno ti farò tornare nella Terra d’Israele e là fonderò la mia roccia” (Isaia…).

Il kibbutz è lo stupefacente, ma aberrante prodotto fisico di un’ideologia che non lo comprendeva dapprincipio, figuriamoci poi in quella di oggi.

Le ideologie, create per cambiare gli uomini, servono poderosamente, ma in un senso opposto a quello che si proponevano i loro creatori: travisano le cose per fare in modo che gli uomini restino all’incirca uguali a prima.

Come si fa a convincere ebrei di città a vivere nel deserto? Si crea con Ber Borochov il sionismo socialista che però non cambia tanto gli ebrei in agricoltori quanto piuttosto rende possibile ad alcuni intellettuali metropolitani sopravvivere in mezzo alla sabbia senza nemmeno cambiare troppo!

Dove puoi vedere Borochov qui nel Negev? Non nell’abitante del “kibbutz-stetl”, che è, tutto sommato, un normale ebreo, preso in sé e da solo, ma nella secrezione metallica che lo fa sopravvivere qui. Essa è, in gran parte, sepolta e nascosta sotto la sabbia, ma, a tratti, affiora: sono intrichi di tubi, fili elettrici, valvole che, con l’aiuto di computer, rendono minimo e automatico l’impiego dell’acqua, da quella per le case a quella per la coltivazione delle patate che, irrigate goccia a goccia, vengono perfino esportate in Germania! Il kibbutz, con le sue centinaia di ettari irrigui, è una chiazza di vita, un’oasi artificiale circondata dal deserto, come sai. Quello che non sai è che esso si sposta lentamente nello spazio e nel tempo, lasciandosi dietro una… scia di detriti del passato. Questa affascinante “unità biologica” ha infatti attorno a sé… la desolazione lunare. Quando le case sono vecchie, si rifanno più in là; quando un terreno non rende più, si spostano i tubi altrove. Vecchi filari di cipressi, morti perché non più irrigati, case del 1943, fatte di sabbia come quelle dei beduini, sono a due chilometri da qui, desolate e abbandonate. È il kibbutz dell’epoca dei fondatori. Lungo il tragitto verso il kibbutz di adesso, si trovano baracche di legno cadenti (siamo nel 1948, l’anno dell’indipendenza e dell’immigrazione di massa), poi il kibbutz attuale (casette del 1955, con uno stile universalista ed ecologico simile a quello dell’ospedale di Beer-sheva) e, 500 metri più in là, il kibbutz di domani in costruzione, con le “case più belle e più grandi”, che saranno arredate alla “zarfatì” (alla francese… ma che vorrà dire mai, mi chiedo con spavento?!). Qualcuna è già finita e spero che la vedrò.

Ci sono 300 o 400 mucche, numerate con la targa, che non stanno né all’aperto né al chiuso, sotto una tettoia in un immenso piazzale, ai piedi di un silo, gigantesco, che si vede da lontanissimo. Mangiano una miscela di scarti di cotone (coltivato nel kibbutz) e bucce d’arancia (coltivate nel kibbutz che ne estrae anche il sugo, che viene venduto in scatola in città). La merda che cagano le mucche profuma orribilmente di arancia e serve per concimare gli aranceti. Il latte anche lo vendono, e le autobotti partono al mattino lasciando per strada un enigmatico profumo d’arancia. Tutto il ciclo è frutto di uno studio della università di Beer-sheba, la fortezza scientifica senza finestre.

 

Riassumo  con un diagramma a blocchi per chiarire gli elementi principali:.

  

 

Questo meccanismo dinamico scarroccia nel deserto come una portaerei nella bufera. Per esempio esso modifica (e anche forse in modo mostruoso) leggi di natura: il deserto irrigato si è adesso riempito di rane (i nostri girini si chiamano in ebraico roscianim, cioè in romanesco “capoccette”, me lo ha insegnato un bambino), e, oltre alle rane, si vedono certe lucertolone sempre più gigantesche. Un ritorno al Triassico?

La gente del kibbutz inesorabilmente ma lentamente si trasforma assieme alla natura, si trasforma per tornare all’indietro: le casette di sabbia diventano trilocali arredati alla francese! Mentre regredisce, pretende testardamente che il collettivismo si incarni nei figli. Di qui le cure, credimi mostruose, di cui circondano le loro creature. Che però, appena fatto il servizio militare e l’università, vanno in città e non tornano più. Il kibbutz è passato da 85 membri nel 1942 a 85 membri nel 1978 (cifre indicative). Nel 2000 ci sarà ancora il kibbutz? Forse sì, ma un po’ più in là. Qui nel kibbutz si muore due volte: fisicamente e ideologicamente.

Per questo hanno parecchia paura della morte. Per questo gli Arabi, che sono anche loro il nulla, ma un nulla diverso che muore come noi europei solo una volta, hanno invece ancora qualche speranza!

 

Un bacio dal vostro marito e padre nel deserto.

Aldo

 

 

12 marzo (ore 1 del mattino) (N°4)

cara Elenuccia,

ecco il sommario,  del quale mi devo poi ricordare:

1°) l’attentato all’autobus nel giorno in cui sono arrivato: finora non sono riuscito a capire di preciso che cosa è successo. La gente sembra abbastanza abituata a queste efferatezze e non manifesta gravi reazioni. E poi qui sono kibbutznikim di “estrema” sinistra e soldati;

2°)  oggi lavoro: non è un inizio eroico. Mi hanno messo in cucina, alle dipendenze di un minorato mentale turco (si chiama Vidìco);

3°)  sono all’inizio del quarto giorno di kibbutz (soltanto!) e ho una grande sensazione di solitudine e anche di paura. Non capisco il perché.

4°)  lagente di qui mi fa invidia e pena: sembrano rudi e infantili, ma sono intellettuali (nel senso marxista del termine);

5°)  ho fatto il giro delle case nuove già abitate (4 o 5, arredate alla francese…). Sono uguali e identiche fra di loro, ma ognuno crede di avercela messa tutta ad arredarsela con la propria personalità. Ma noi? Non siamo, come comportamento, assai simili? Hanno ognuno un immenso apparecchio ad alta fedeltà (più bello del nostro). Con centinaia di dischi di musica classica. Tutti sentono Vivaldi, Bach ecc. Hanno anche loro le canzoni della Resistenza. Libri se ne vedono un po’ meno dei nostri nelle casette perché il kibbutz ha una gigantesca biblioteca comune.

Le case nuove sono uguali, uguali, uguali identiche e loro le vedono differenti! È orribile! Il loro livello di vita, che mi sembrava povero, è invece altissimo e triste. Ma il nostro?

6°)  Il kibbutz sarebbe l’ideale per un mondo spopolato. Un uomo da solo lavora 30 ettari, mantiene 4 o 5 mucche, centinaia di polli ecc.: conseguenze della produttività. Peccato che il mondo sia, invece, sovrappopolato. Ogni persona qui col suo lavoro dà da mangiare a 20-30 famiglie (almeno). Gli indiani non riescono, lavorando a mano la terra, nemmeno a procurare il cibo a se stessi. Dimenticavo di dire che qui lavorano poco, o abbastanza poco. Almeno così sembra, ma potrò giudicare solo alla fine di questa giornata. Comunque la gente non sembra per niente affaticata.

 

Ore 14 (pomeriggio)

Ho

lavorato dalle sei del mattino alle ore 14. La lettera è stata cominciata questa notte, per questo porta la data di oggi. Questa mattina avevo dato un giudizio errato perché troppo affrettato. Si fa fatica, molta fatica: loro sono abituati, ecco tutto. Io no.

È inutile che ti parli dell’attentato all’autobus: tu, certamente, a quest’ora ne sai molto più di me. Mi sembra che molti mentano a se stessi più della norma accettabile e che ci sia anche una certa ipocrisia. E finta sicumera.

Ipocrisia. Per esempio: mettere uno appena arrivato a sciacquare i piatti come hanno fatto con me, sembra una sciocchezza, ma forse invece serve a indagare se l’ospite è abbastanza ipocrita (anche lui) da non esclamare, come farebbe qualsiasi persona sincera: “Ma andatevene tutti a cagare! Ma come, uno viene qui, vi vuol vedere all’opera, vi dice: “non capisco se non lavoro anch’io” e voi lo mettete al casermaggio?” Certo che io non so fare nulla. Ma, loro, volevano solo sentirsi dire “Todà Rabbà” (grazie mille), “tov me’od” (molto bene), “Kol be-seder” (tutto a posto) tutto il giorno da uno incazzato dentro di sé come una belva, ma capace di far finta di nulla! Bene, li ho accontentati. Credono che io sia un “haver” (compagno) con i fiocchi, quei coglioni. E invece li controllo, da vicino, senza pietà, nella speranza di riuscire a scacciarli per sempre dai miei sogni eterni di ragazzo del 1945.

Lo sai che:

  1. Hanno il coraggio di fare, esattamente, tutto quello che mi raccontavano nel 1945? Il progetto è totale e completo da parecchio tempo! Lo modificano, ma la finzione rimane identica!
  2. Hanno anche loro uno zoo che è “tenuto dai bambini, perché imparino ad amare gli animali”? Dei quali animali da trastullo invece se ne fregano, quei piccoli bastardi: vanno in bicicletta tutto il giorno come i nostri figli, e, appena sono un po’ più grandicelli, seguono con passione il campionato italiano di pallone (“Juventuz, Juventuz!”). Amare gli animali: le migliaia di polli che il kibbutz vende al mercato vengono caricati sui camion durante la notte: quando è buio i polli, colti nel sonno, vanno dormicchiando verso la mannaia (automatica). Mi vuoi dire perché allora raccontano a ogni poveraccio in visita: “abbiamo deciso di far tenere ai bambini uno zoo perché imparino ad amare gli animali”? Forse, quando i piccini cresceranno, i polli saranno trasferiti di giorno, cloroformizzati?. Contadini-noncontadini. Ecco cosa vogliono essere;
  3. Siccome quegli assassini terroristi hanno fatto quel po’ po’ di strage, gli israeliani hanno chiuso tutte le strade per Gaza e la Cisgiordania. Sperano di beccare i fuggiaschi. Così ho scoperto che qui ci sono operai salariati arabi (nessuno però mi dice quanti!) che oggi non sono potuti venire (reclusi come sono nei loro ghetti di Gaza) e perciò non sono pagati. Mi hanno detto che gli operai arabi non mangiano con gli altri nella sala da pranzo perché… è troppo piccola. Ipocrisia. Li chiamano ovdim (operai) quelli che lavorano a pagamento! Hai capito il socialismo? Invece loro si chiamano poalim (lavoratori) nel senso del progresso dell’uomo, marxista ecc.

Un caldo bacione dal tuo 

Aldo

P.S. Sperotu abbia ricevuto da un bel po’ il telegramma che ti ho spedito per rassicurarti che non stavo sull’autobus della morte, non si sa mai. Era un autobus di linea e hanno ucciso tutti i passeggeri, compresi gli arabi e i turisti.

 

Negev, 13 marzo (N. 5)

Cara Elenuccia mia,

credo di averti scritto, e spedito, ieri una lettera terribile contro il kibbutz e non la sconfesso. Temo di aver esagerato e fatto qualche errore: correggerò tutto in questa e nelle prossime lettere. È ciò che mi propongo di fare, giorno per giorno, in questo mio “diario” che presenta molti vantaggi. Questo sistema epistolare che ho adottato infatti, utilizza le ore di solitudine (spesso in kibbutz si sta soli nella propria stanza). Lavoro dalle 6 alle 14 (sempre in cucina!), poi, fino alle 18, non vedo nessuno. Ovviamente alla sera in campagna si va a letto (cioè nella propria camera) molto presto. Puoi così calcolare che ogni giorno ho almeno 4 ore di solitudine. È molto per un posto… collettivista. Lo scriver lettere a mano permette di essere più onesti. Dico a te ciò che penso della giornata passata, e, non avendone più il testo, a loro volta le correzioni possono essere sbagliate, cioè oneste al quadrato.

Ieri sera alle 21, dopo cena, Meir mi ha fatto andare con lui nel “campus” di un liceo dell’Hashomer Atzair (la Giovane Guardia), poco lontano di qui. È il campus dei kibbuzim del Negev nord-occidentale. È, naturalmente, una meraviglia delle meraviglie: le stanze, per 4 studenti, sono… quasi lussuose.

Classi e prato, stanze e piscine e campi da gioco che si succedono senza interruzione in un panorama idilliaco. Ti ricordi dei campi da tennis di Eton, quella distesa sconfinata tracciata dal braccio della guida che intanto ci ripeteva le parole famose: “Qui fu vinta la battaglia di Waterloo”.

Giovani eccezionali e impegnati che discutevano: ma non ho capito nulla. Poi Meir mi ha detto che discutevano su come aggregarsi al kibbutz di Kerem Shalom, non appena finito il dodicesimo anno di scuola (la nostra terza liceo). Mi sono sembrati belli, impegnati e di un livello eccezionale, superiori ai nostri barcollanti e fessi diciottenni, migliori anche dei bambini e dei “vecchi” (oltre i 40 anni) di qui.

Kerem Shalom, mi ha spiegato Meir, è un kibbutz di “collettivisti oltranzisti”, fondato più a Sud da figli di kibbuznikim che si sono accorti di tutto ciò che ti ho scritto ieri (ipocrisia socialista, produttivismo ecc.). Però Kerem Shalom, dopo pochi anni di vita stentata, sta già morendo (è ridotto a 50 persone) e chiede aiuto all’estrema sinistra del movimento.

Meir nel suo piccolo è un eroe. È molto stimato e credo diventerà sempre più importante. Con il passaggio all’opposizione del “Maharah” tutti i nodi (tra gli altri quelli che ti ho detto) stanno venendo al pettine. Per chi è realmente di sinistra il silenzio patriottico non è più ammesso. Avviene così che Meir e i suoi amici hanno inventato una nuova forma di recalcitranza, diversa da quella degli anni Cinquanta che spaccava il movimento collettivista (e molti, indignati, tornavano nei paesi di provenienza o andavano a vivere in città perché erano di sinistra!). Obbedienza assoluta al kibbutz, ossequio delle forme, compiere il proprio dovere più di quanto sia necessario: manifestando però, sempre, le proprie idee per quanto siano lontanissime da quelle, non dico del governo, non dico del “Maharah”, ma anche dell’“Hashomer Atzair”. Forse perché i fatti gli stanno dando ragione, a Meir, lo vedo circondato da profondo rispetto: un rispetto che io non ho da nessuno in Italia. Perché, forse, non ho fatto mai più del mio stretto dovere!

Ieri e questa mattina ha fatto molto, molto freddo: hanno acceso i caloriferi. La tempesta di sabbia continua senza sosta: è abbastanza esasperante. Fischia tutto il giorno e tutta la notte: la stanza, i letti, i capelli, gli abiti sono pieni di una impalpabile cipria rossa (che scricchiola fra i denti).

Ho scoperto (o credo di aver scoperto) il trucco principale di questa forma così particolare di collettivismo: la piccolezza (da 100 a 300 membri) del kibbutz. La sua “ripetitività”. La sua filosofia (apparentemente immutabile) che gli permette di riprodursi, sia pure in condizioni diverse da quelle di partenza. È una nuova unità biologica che sostituisce la famiglia naturale che loro hanno abrogato. L’altro trucco è proprio l’isolamento. Mi diceva una soldatessa (ex “Pantera nera” d’Israele) che odia il kibbutz: “Non lo sai che non hanno nessun contatto con nessun villaggio, neanche il più vicino, che non faccia parte del movimento collettivista?”.

Come tutte le organizzazioni sclerotizzate si è dedicato all’autoconservazione. Ne è stato premiato, per ora. Il paradosso è che serve moltissimo a spostare sempre più lontano i “confini verdi” del paese. È vero che non hanno contatti con i loro vicini, ma un giorno qui arriverà la normalità. Non ci sarà più spazio vuoto di sabbia fra un centro e l’altro. L’avventura sarà finita.

Questi fatti e questi meccanismi sono stati, sono e saranno incompatibili con gli arabi e, figuriamoci, i beduini. Che da tutto questo ricevono solo benefici materiali (lavoro ben pagato ecc.), ma alienazione totale. Come avevamo già capito, hanno i marziani sbarcati in casa, che non li fanno partecipare al loro Pianeta rosso. Tutto ciò è talmente complicato che per qualcuno questa realtà non esiste neppure. Ad esempio per i “volontari” : per loro il kibbutz è un campeggio e basta. Lavorano, mangiano, scopano e non si fanno domande. Nessuno del resto spiega loro nulla. Quelli del kibbutz non usano spiegare molto a chi non è del movimento. Salvo Meir non mi fanno mai domande sull’Italia. Hanno un lampo di curiosità solo quando sanno che sono della “televisia” (Meir, sapientemente, ha diffuso questa voce). Mi chiedono se arriverà una “troupe” o se scriverò un articolo! La Nikon F2 mi sarebbe servita per… beffare questi paesani che adorano Shostakovic. Potranno mai uscire dal loro egocentrismo totale?

È vero, hanno realizzato, forse, una delle più grandi conquiste della storia: ma ora sono affascinati dal loro sogno, paralizzati dall’alta coscienza che essi hanno di sé.

Credo che resterò qui, nonostante i disagi e il freddo, perché l’interesse cresce ogni giorno di più.

Però non mi è passata l’angoscia

Un bacio dal tuo 

Aldo

 

P.S. Oggi dovevamo andare a Gaza, nulla da fare per i noti avvenimenti! Stare qui è anche rassicurante! Per questo, loro, stanno qui chiusi dentro il kibbutz. c.v.d.

Il deserto di notte è nero, punteggiato dalle luci in fila delle recinzioni dei kibbutz. Credo che gli invasori giudaicomarziani marcino lentamente formando giganteschi triangoli. Sui vertici dei quali essi fanno perno per i successivi spostamenti! (da “Guerre dei mondi” di H.G.Wells, credo).

Mentre il Negev muore coltivato e lascia la sua carcassa verde e boscosa a chi lo voglia piangere, gli arabi sperano nella Provvidenza di Allah, o nei microbi di Wells?

 

Negev 14 marzo ore 17,21 (N. 6)

 

Cara Elenuccia mia,

ho lavorato (in cucina) fino alle 14, ho dormito, ho fatto una bella doccia. E ora ho ancora tutto il tempo per scrivere, prima di andare a cena. Jehudith, la moglie di Meir, è ammalata: forse, con l’ambulanza del kibbutz, verrà portata a Beer-Sheva. Complicazioni da influenza?

Comincio a conoscere gente e quindi non sono più del tutto solo con me stesso. La solitudine però è dentro il kibbutz: come e quale, non so ancora! Ti ricordi il buio del kibbutz Lohamei- Ha-Gettaot? Quello cioè fondato dai combattenti dei Ghetti polacchi sopravvissuti, che avevamo visto nel viaggio dell’ormai lontano 1968? Le casette con i vecchietti in letti scompigliati alle sette di sera? È più o meno così, anche qui, sul far della sera.

I bambini, dicono, sono educati collettivamente. Non è vero, non è vero del tutto. Dalle ore 17 o anche prima stanno con i genitori nelle loro “casette per due”. Quando piove e fa freddo (e nel deserto piove e fa freddo sempre quando ci sono le tempeste di sabbia) non possono giocar fuori e perciò rompono i coglioni “dentro” le casette per due. È un casino. Il bello è che l’organizzazione collettivista è così perfetta che non è possibile far cambiare nulla a nessuno in particolare, senza far saltare tutto il kibbutz (come sembrano aver dimostrato con la loro secessione, e poi con il loro fallimento prematuro, gli “estremisti” di K. Shalom).

In realtà (come dimostra l’educazione collettivista del kibbutz, la follia genitoriale, il “campus” di Magen) questi ce la stanno mettendo tutta per creare l’uomo nuovo. Cosicché io faccio amicizia soprattutto con le ragazze della pre-militare. Le avanguardiste - chiamiamole con il loro nome, per la miseria – sono reclutate in città (Tel Aviv ecc.) e sbattute nei kibbutz per 4 mesi: poi le mandano nei campi militari veri e propri, cosa fatta capo ha. Sono simpatiche (avanguardisti uomini non ne ho conosciuti). Una certa Jael di origine Romena che è stata 4 anni a Parigi mi spiega molte cose in francese. Ha molto buon senso, cultura (18 anni) e scetticismo.

Chiedo a Meir: “Ma gli arabi di Gaza dove lavorano?” e lui mi risponde: ”Lavorino solamente nello costruzia delle caso”. Bene, riferisco a Jael che sghignazza e mi dice: “Ma perché pensi che ti tengano chiuso in cucina? Secondo me, non vogliono che tu veda gli ovdim. Che lavorano dappertutto. Anche nei campi. Cioè a fare i lavori di fatica”. Gli arabi di Gaza, perché quelli di Nazareth (israeliani) mangiano anche loro nel kadarahochel. E hanno anche loro la puzza sotto il naso: perché sono specializzati e comandano i loro confratelli (più fortunati o sfortunati?) che sono stati “liberati” 20 anni dopo e sanno fare solo i manovali!

In conclusione gli 85 membri, effettivi, del kibbutz funzionano così :

 

 

È chiaro che i compagni del futuro, che qui è già presente, sono dirigenti superspecializzati, tolleranti e anche protetti dalle leggi. Uomini nuovi che, lottando per una nuova società migliore e più uguale, hanno fatto un mucchio di errori, conquistando peraltro posizioni di rilievo (proprio come noi!).

Nell’aranceto lavorano 8 arabi di Gaza: li ho visti più volte fra le frasche del paradisiaco bosco degli alberi con i frutti d’oro. Chi li comanda è un ebreo marocchino (simpatico, si chiama Marek) immigrato da un anno e da 6 mesi nel kibbutz. Non è ancora votante. Gli ho chiesto se mi voleva nel pardès (aranceto e anche paradiso) e mi ha risposto che ha qualche problema: non vuole, per motivi di opportunità, mettermi a fare lo stesso lavoro degli arabi. Che è invece l’unico lavoro che so fare io, quello del manovale. Non è contraddittorio, anche se reazionario, tutto ciò? E pensa che vivo in un kibbutz di estrema sinistra. Però credo che nel resto del paese sia, paradossalmente, meno contraddittorio, perché le contraddizioni costituiscono la normalità! Pagano poco chi lavora di più, come dappertutto. Se si lamentano, gli tolgono anche il lavoro. Così tutto è molto più onesto, anche se reazionario.

Lo sai che il mercante di arabi, arabo di Gaza, non vuole che le ragazze (ebree come Jael) si facciano scopare dagli arabi sporcaccioni? “Ce n’era uno” mi ha raccontato Jael “che mi sussurrava sempre le porcherie: mi piaceva. Il suo padrone mi ha intimato di lasciarlo stare. Gli ho risposto che sono maggiorenne (18 anni). E allora lui mi ha precisato che l’arabo (28-30 anni) era immaturo!”.

Domani vado a Gaza e Kerem Shalom ecc. poi ti scriverò. Ma tu, perché non ti sei fatta viva? Mi manchi. Vado con Meir a parlare con capi Arabi e con molta altra gente interessante.

Aldo

P.S. Rinuncio a un viaggio in cammello fin giù nel Sinai: sono sicuro di non farcela.

Con Jael e un ebreo negro (volontario, con un orecchino di diamante, originario della Martinica) abbiamo deciso di “criminalizzare” il club del kibbutz (giochi d’azzardo, whisky e luci basse e musiche di sottofondo). Che è invece un posto dove alla sera si bevono aranciate, si mangiano salatini e si sbadiglia. Si può leggere però la collezione completa di “The cow”, una pubblicazione tecnica americana sull’allevamento delle mucche.

Qualcuno, del kibbutz, comincia ad ammiccarmi. Si sta spargendo la voce che sono “divertente”.

 

 

Gevulot, 15 marzo (N. 7)

 

Cara e adorata Elenuccia,

oggi è una giornata meravigliosa, serena, calda. Fiori dovunque gialli rossi blu. Tutto verde e felice. Questa mattina sono andato a vedere il computer che regola i 1500 ettari di terreno. È collegato via input-output elettronico solo con i terminali dei tubi più grossi. Poi il resto delle informazioni è dato dall’acqua stessa che scorre per impulsi (credo). Centraline idrauliche, fiori neri enormi fatti con i tubi. Pulsano come arterie umane, uno dopo l’altro, e irrigano dove c’è necessità. Termometri e barometri. Pace e primavera, vecchietti e bambini, prodigi tecnologici e deserti “redenti”. È realtà o illusione?

 Ho saputo della invasione per rappresaglia nel Libano che qui, tutti, si aspettavano dopo l’atrocità dell’autobus. Nessuno mi aveva accennato di questa tragica aspettativa. Perché? Quelli del kibbutz mi sono sempre simpatici. E li stimo anche perché sono eroici. Ma li amo un po’ meno. Perché sono come me, o non molto meglio. Non li ritengo peggiori, sono solo più sfortunati. Sarebbe bene che la smettessero di essere così laboriosi e sportivi, sorridenti e idraulici, e fossero un po’ più avviliti: come noi! Oppure addirittura inferociti?

Oggi ho chiesto a una perché non vanno a Gaza a fare una manifestazione contro la rappresaglia. Mi ha risposto (la fasulla): “A che servirebbe?”. Non ho voluto ribatterle: “Va là che non ci andate perché, se lo fate, ve li sognate i soldi che vi passa il governo per fare la vostra grotta Gino nel Sahara!”. Ti ricordi della vecchia Grotta Gino a Moncalieri, il burlesco ristorante con schizzetti d’acqua sui clienti in una vecchia e falsa grotta? Dopotutto sono loro ospite, sono molto gentili e imparo un sacco di cose per il resto del la mia vita. E tutto gratis, figurati un po’! per prudenza le ho risposto così: “Niente, succederebbe, niente. Però vi prendereste una gran bella soddisfazione!”. Questo paese diventerà inabitabile. Anche l’Italia lo è, ma ci ritornerò tra poco, credo, se non disturbo.

E poi non è tanto inabitabile, per ora, l’Italia. È ingovernabile.

Gaza. Ho parlato con il dottor Haida Abdel Shufi, un medico presidente della Mezzaluna rossa araba. È un ardente palestinese OLP o ancora peggio (o meglio?). Non vede soluzioni: è contro il viaggio di Sadat a Gerusalemme. Anche Meir lo è. Ho cercato di dire che, dopo tutto, almeno, ora, gli israeliani non sono più così sicuri e cominciano ad avere qualche dubbio, non già soltanto “complessi”, com’è loro abitudine (prima di inferiorità, poi di superiorità, poi di inferiorità… e così via). Mi hanno dato ragione entrambi: ma mi hanno anche fatto capire, con lo sguardo nero e profondo degli orientali, misterioso e impenetrabile, il loro seguente pensiero inespresso: “Ce ne sbattiamo le palle di quello che fanno o non fanno gli israeliani e anche di quello che pensano. Qui sta per succedere un casino memorabile”. Casino memorabile vuol dire “bagno di sangue”.

Io non vedo, purtroppo, alternative. E quando ci sarà stato il nuovo massacro, alla fine il mondo non sarà né migliore né peggiore! Meno tubi neri, fiori, bimbi che giocano con cuccioli “appositi” (vedo troppi cuccioli, ma nessun cane vecchio. Secondo me, quando sono vecchi, li ammazzano), vecchi felici e orgogliosi dei loro figli: “e pensare” pensano “che credevo fosse una pazzia! Invece qui è meglio di qualsiasi ospizio!” e biascicano biscotti e roba senza pagare con aria avida. Non fanno nulla, i vecchi, per nessun motivo. I vecchi genitori dei kibbutznikim dico. Quelli che sono invecchiati nel kibbutz invece, i poalim, continuano a lavorare come matti, anche a 90 anni, probabilmente procurando danni irreparabili. Ma hanno la camicia largamente aperta sul collo grinzoso e l’aria di chi sa tutto.

Gaza. I poliziotti israeliani hanno rastrellato i beduini nel deserto del Sinai, dall’altra parte cioè del confine con l’Egitto, e li hanno sbattuti nella striscia di Gaza, senza bestie e senza cammelli. Solo tende, tende, tende nere.

Ti faccio notare che Gaza non è famosa né per gli ampi spazi né per la scarsità di popolazione (150.000 abitanti solo la città più 450.000 profughi).

 

Bene,

li hanno spostati, formalmente, solo da una parte all’altra di una strada.

C’è un piccolo, ma non insignificante particolare da aggiungere. Dove stavano prima i beduini, è il deserto del Sinai, casa loro (grande come mezza Italia). Dove adesso li hanno ficcati, è una aiuola spartitraffico, al di là della quale, dopo l’autostrada, c’è la Striscia.

Poi hanno costruito attorno alla Striscia una rete di protezione lunga chilometri e dalla parte di Israele scorrono automobili, ragazze coi coscioni di fuori, cappellacci colorati. Tanta, tanta bella gioventù. Poi verranno quelle carogne dei loro bambini (biondi quasi tutti, ma perché? Perché?) e poi quei cari, cari barcollanti vecchietti (donne per lo più col cachet bleu nei capelli e occhiali a cuore) in mezzo alle aiuole fiorite.

 

 

Quelli con cui mi lamento della faccenda dei beduini nello spartitraffico si giustificano (e come no) in 2 modi:

  1. abbiamo bisogno di una fascia di protezione di 1/8/10/20/30/40/50/…/ chilometri (meno sono i chilometri più il mio interlocutore è di sinistra, i chilometraggi alti contrassegnano le destre) che protegga le frontiere della nostra amata terra assediata;
  2. abbiamo costruito un Centro di Riabilitazione per Beduini.

 Il Mapam non è d’accordo perché: il Governo non ha previsto nemmeno un centesimo di risarcimento ai beduini minideportati. Sono convinto che il disaccordo delle sinistre filopionieristiche è determinato dal fatto che, se il governo ci casca a riconoscere un risarcimento ai beduini, per motivi di lottizzazione, di conseguenza si beccano qualcosa anche i kibbutz: coscioni, cappellacci, bulldozer ecc.

Ormai temo che qui si stiano accorgendo che non li amo più di quanto non ami me stesso.

Domani (ore 16) allento perciò la pressione e mi ritiro a Eilat sul Mar Rosso. Non credo che mi fermerò ancora molto.

Credo che tornerò in Italia quando avrò finito i soldi, se peggiorerà il tempo, se continuerà la guerra, se mi diranno di non andare in un kibbutz da altri amici perché troppo vicino al confine col Libano ecc.

Un bacio

Aldo

P.S. Raccomanda a Lina di dimenticare tutto quello che le ho raccontato da piccola su Israele

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