Santo Stefano Belbo, 22, 23, 24 luglio e 5 agosto / Cesare Pavese. Narrare per capire

20 Luglio 2016

 

Nelle pagine dei suoi romanzi e racconti , nel diario, nelle lettere Pavese ha disegnato immagini di luoghi- Santo Stefano Belbo, le Langhe - e ha ritratto figure umane che in quei luoghi erano di casa o che da essi si erano allontanati per poi ritornarvi. Questi luoghi e quelle facce appartengono ormai alla nostra memoria, hanno assunto tratti quasi mitologici; Pavese, come è accaduto ad altri grandi artisti, vive oggi nelle riscritture degli scrittori che sono venuti dopo di lui o nelle creazioni in altre forme espressive, nella musica ad esempio, nella canzone d’autore, nella musica elettronica. La sua voce ricompare nei reading di poeti, narratori e attori.


In occasione della rassegna di iniziative pavesiane Con gli occhi di Cesare Pavese (Santo Stefano Belbo,  22, 23, 24 luglio e 5 agosto) doppiozero ripercorre alcune tracce di questo effetto Pavese, di questa strana corrente magnetica che attraversa le generazioni e sedimenta un senso di appartenenza ad un mondo spesso solo immaginato ma forse proprio per questo più vero di quello reale.

 

In questo primo vero bollore d’estate, tra il frinire indomito delle cicale, rileggo alcuni racconti di Cesare Pavese dopo una lontananza di oltre cinquant’anni e, nonostante l’assiduo lavorio della memoria, che senza fine sfrangia e trituma, interpola ed estrapola, corregge e modifica le tracce mnestiche, ecco balzare dagli alveoli più riposti della mente alcune frasi che mi guardano con occhi fraterni. Una fra tutte: «Sull’aia liscia e soda come un tavolo di marmo saliva il fresco della sera», incipit perfetto di un racconto magistrale, Notte di festa: quell’incipit è un po’ la mia personale madeleine, la chiave che mi apre le porte dei ricordi. Un incipit che io e mio fratello ci siamo ripetuti negli anni a intervalli lunghi o lunghissimi, sentendo sulla pelle quella notte interminabile dal tramonto all’alba, piena di febbricitazioni, di afrori, di musica ballerina e di stelle grandi sfrigolanti nel cielo sopra la campagna e la collina come in un quadro di Van Gogh. Ah, la figura gigantesca del Padre e quella scaltra e volpigna del Professore! Sì, perché io e mio fratello eravamo innamorati della scrittura di Pavese e ce lo rimbalzavamo dandoci sulla voce, assorbendo a grandi sorsate il bacillo inestirpabile della narrazione e della poesia. 

 

E cominciavo a capire (erano gli anni indimenticati del liceo classico e dell’esame di maturità) che gli umani sono creature della narrazione, che ciascuno di noi dalla nascita alla morte non fa altro che narrare, narrarsi e farsi narrare un seguito incessante di storie. E questo continuo narrare ha un duplice effetto e, forse, scopo: primo, quello di creare un’immagine semplificata del mondo rumoroso e multicolore dentro il quale siamo scaraventati, immagine che ci consente di sopravvivere di fronte a questa smisurata complicatezza; secondo, quello di costruire un quadro per quanto provvisorio e mutevole del nostro sé. Ciascuno di noi ha bisogno di offrire a sé e agli altri un’immagine unitaria e coerente che si riassume nel pronome “io” e che costituisce l’attore dei nostri ricordi e il protagonista dei nostri progetti. L’immagine del mondo e l’immagine del sé sono strettamente correlate e mutano nei giorni e negli anni per effetto delle esperienze.

 

Sono molti e diversi gli espedienti che l’uomo impiega per introdurre ordine nel caos naturale: l’arte, il mito, la filosofia, il racconto, il teatro, la scienza, la tecnica. Tutti questi strumenti sono forme di narrazione, che impiegano linguaggi diversi e si prefiggono scopi diversi. E, per tornare a Pavese (ma questo vale per tutti i grandi scrittori), le sue narrazioni sono sempre sul punto di rivelare il significato: di che cosa? Ma della vita, del nostro dolente ed esaltante essere qui per un tempo transeunte, del nostro incamminarci verso la morte, parola quasi bandita oggi dal nostro vocabolario, perché vorremmo procedere, belli, forti e vigorosi, verso l’immortalità. Del resto fu Prometeo a donarci l’oblio della morte, senza il quale saremmo in preda all’ignavia perenne.

 

Si fa strada oggi l’opinione che vede nell’atteggiamento scientifico e in quello letterario un tratto comune: sono entrambi atteggiamenti di ricerca e di progettazione, di scoperta e di invenzione. Ma ci sono alcune differenze di fondo: lo scienziato si accosta al mondo con la forza consequenziale della razionalità e della sperimentazione, mentre il poeta e lo scrittore cercano di indagare il residuo che l’indagine razionale non riesce ad afferrare. Come diceva Montale, «nessuno scriverebbe versi se il problema fosse quello di farsi capire. Il problema è di far capire quel quid al quale le parole da sole non arrivano». La conoscenza letteraria si caratterizza dunque per una protensione oltre le parole, per un corteggiamento assiduo dell’indicibile, che è l’unica cosa di cui in fondo c’interessa parlare. È la ricerca di una verità non fisica, ma metafisica: questa è la differenza di fondo tra ricerca scientifica e ricerca letteraria, che si pongono in posizione complementare

 

La differenza si accentua nella nostra epoca, in cui le verità formali ultime che la fisica classica sembrava sul punto di cogliere si allontanano nelle brume di un paesaggio intriso di casualità, incertezza, approssimazione, in cui oggetto e soggetto della conoscenza si fondono, in cui i confini tra naturale e artificiale sfumano, in cui sembra sempre più difficile scoprire leggi universali, immutabili e definitive conformi a un quadro statico della natura. La natura tutta, e non soltanto il bios, è in continua evoluzione, e l’uomo è costretto dal pungolo del mistero e dello stupore a inseguire e a travalicare. E se è vero che mistero e stupore muovono sia lo scienziato sia il poeta, è vero anche che i loro strumenti sono diversi, come diversi sono gli esiti. Soprattutto non si può ignorare che la complessità dei fenomeni indagati obbliga ad accettare una pluralità di livelli, di descrizioni, di linguaggi. E nessuna di queste descrizioni è l’unica vera: ognuna fornisce una particola di verità, che va integrata con tutte le altre. 

Prendiamo un fenomeno articolato e proteiforme del mondo umano come l’amore, di cui Pavese scandaglia le anfrattuosità più riposte, ma non con il piglio serioso e oggettivante dello scienziato, bensì con il bulino delle parole, dei dialoghi, delle suggestioni emotive in chiaroscuro, che comprendiamo perché sono le nostre emozioni, i nostri palpiti, delusioni, amarezze, tormenti e slanci quelli di cui egli scrive, perché così sentiva e così sentiamo noi, che siamo fatti, tutti, della stessa sostanza, che siamo, tutti, soggetti alle stesse esperienze di vita.

 

 

 

L’amore, dunque. Da una parte tutta la vibratile gamma emotiva sperimentata da chi ama e l’immensa produzione poetica, letteraria, figurativa e musicale che è stata dedicata a questo sentimento; dall’altra una descrizione di “basso livello” del fenomeno amoroso, basata sulle tempeste ormonali e sulle concentrazioni di certi neurotrasmettitori, che alcuni presentano come la “spiegazione vera” dell’amore. Ma chi, anche tra gli scienziati, se la sentirebbe di adottare questo solo punto di vista (per quanto irrefragabile) nelle proprie vicende d’amore, intessute di esaltazione, di pena e di passione? E ancora: certo l’amore è lo strumento di cui la natura “si serve” per propagare la specie, ma chi vorrebbe ridurre il Canzoniere a un seguito di lamentazioni del poeta di fronte al rifiuto di Laura di allestire un nido comune ove allevare una covata di marmocchi portatori dei geni di Petrarca? Si tratta di scegliere il livello di descrizione appropriato, senza mai dimenticare che ve ne sono altri, altrettanto leciti. 

 

La narrazione può rimanere implicita, e costituisce allora la continua attività linguistica interiore del sé, oppure esplicitarsi nel racconto orale o scritto, nella conversazione, nel dialogo. Il racconto esplicito può assumere le forme del resoconto scientifico, che si distingue dai prodotti letterari per una tendenza all'univocità, alla coerenza logica e argomentativa, alla formalizzazione, anche matematica, e alla conformità con i risultati dell’osservazione e della sperimentazione. Nella letteratura invece le domande rigorose sul come e sul perché e i nessi consequenziali della logica vengono attenuati o sospesi. Anche la narrazione letteraria ha una sua coerenza e un suo rigore, che però non escludono la contraddizione e l’ambiguità, anzi le coltivano: perché nella letteratura, e più ancora nella poesia, la verità si afferma negandosi, appare e scompare, si manifesta per problemi più che per soluzioni, si distende nel silenzio e nell’enigma oltre che nell’ostensione. Il senso della narrazione è racchiuso nel non detto quanto nel detto ed è il fulgore oscuro del non detto che illumina e dà senso al detto. Per tornare a Pavese, si vedano i racconti Viaggio di nozze, Misoginia, Le tre ragazze, dove la verità (qualunque sia il valore e il significato di questo termine così abusato) sfavilla enigmaticamente per allusioni, che il lettore afferra e intuisce perché dentro di sé quella verità la coltiva già, la presagisce in modo inarticolato ma irrefragabile e con l’aiuto delle parole e dei silenzi riesce un pochino a chiarirsela, fino ad esclamare «sì, è proprio così».

 

È raro che Pavese enunci in modo esplicito un principio “filosofico”. Un esempio si trova nelle Tre ragazze: «Davvero credo che ogni cosa accade in noi senza che noi possiamo nulla: e che ragione e volontà sono parole; che non c’è chi si perde o si salva, ma quali siam nati tali sempre restiamo». Ritroviamo qui un’eco di Umberto Saba: «Ma quello che poi sempre decide è la fatalità interna».

Il mondo ha senso e insieme non ne ha: questa doppia e contraddittoria verità, che la scienza non potrebbe sopportare, e nemmeno afferrare, è invece nutrita e fortificata dalla natura enigmatica e allusiva della letteratura, e in genere dell'arte, e trova rispondenza nel nostro più intimo sentire. Quest'ambiguità, e la capacità di tollerare l'ambiguità senza traumi o fratture, sembra estendersi un po’ a tutta la cultura contemporanea, che trova nella struttura policentrica o acentrica della Rete la sua metafora fondante oltre che il suo sostegno e veicolo di diffusione.

 

La scienza fisico-matematica, al contrario, ci ha sempre più abituati a descrizioni univoche e asettiche assai lontane dalla narrazione ordinaria, a resoconti freddi e distaccati, in cui ogni contingenza e ogni vivo processo germinativo sono ingessati nell'armatura dell’impersonalità e della consequenzialità logica (parlo della fase di sistemazione, perché nella fase di creazione anche l’attività scientifica si presenta pregna di emozione e di calore). Da quando il discorso della scienza, staccandosi dal tronco principale della narrazione, ha acquisito una sua specificità, da quando arte e scienza si sono fronteggiate pretendendo ciascuna di fornire la “verità” sul mondo, il conflitto tra le due ha assunto la forma elementare e spesso sterile dell'opposizione dicotomica. L’esposizione scientifica viene da molti ritenuta superiore alla narrazione letteraria, ma se questa modalità, che vorrebbe essere oggettiva e imperturbata, impersonale e distaccata, può essere giustificata in fisica, non lo è in altri ambiti simbolici e linguistici, ai quali pure è stata via via estesa per un malinteso senso di emulazione e dove rischia davvero di soffocare quanto vi è di vitale in nome di una pretesa e irraggiungibile oggettività, appunto, “scientifica”. 

Quanto palpitare di sentimenti, quanto serpeggiare di tormenti e tribolazioni in racconti come Amici, L’idolo o Carogne, che sugli umani e i loro anfratti interiori, sulla solitudine disperata dei reduci o dei carcerati o sulle tribolazioni dell’amour passion ci dicono più che interi trattati di psicologia. E il nostro interesse va comunque e sempre verso i nostri simili, cioè verso noi stessi, così come ci vediamo riflessi nello specchio oscuro della narrazione.

 

Temporale d’estate ci mette di fronte all’eventualità agghiacciante che in certe condizioni saremmo anche noi capaci di atti enormi e definitivi, regredendo a uno stato primitivo regolato dal cervello rettiliano. Eppure oggi, nella diffusa cultura del postumano, in nome di una sorta di “utopia della vita esatta”, una schiavitù cui molti si piegano per accidia o volonterosa illusione, si tende sempre più a privilegiare gli aspetti razionali della nostra attività e a trascurare il fervore narrativo. Infatti il potenziamento delle nostre facoltà di cui si fanno corifei i postumanisti è diretto ad accrescere il nostro sapere e le nostre capacità cognitive: non per narrare, ma per risolvere i grandi problemi della scienza. Evidentemente i teorici dell’ibridazione uomo-macchina, come Marvin Minsky, Hans Moravec, Ray Kurzweil e tantissimi altri, vogliono incrementare le conoscenze scientifiche e non scandagliare le profondità dell’uomo. Essi dimenticano o trascurano la massima di Wittgenstein: quand’anche tutti i problemi della scienza fossero stati risolti, i problemi dell’uomo non sarebbero stati neppure sfiorati. E per sfiorare, almeno, questi problemi bisogna continuare a narrare: Gesù insegnava per parabole, Gregory Bateson sosteneva l’importanza fondamentale delle storie nell’insegnamento e nell’apprendimento, George Steiner affermava: «È perché possiamo raccontare storie che l’esistenza vale ancora la pena di essere vissuta». E per Norbert Wiener certe discipline, come la psicologia, l’antropologia e la sociologia, non possono e non devono essere formalizzate, ma debbono essere narrate.

 

Il raccontare non è il semplice e rozzo preliminare dell’asettico e rigoroso resoconto scientifico: è invece una modalità viva e consapevole, che ci fa capire come il mondo non si possa rappresentare con un unico linguaggio e da un unico punto di vista. La molteplicità descrittiva cui ci costringe la complessità del reale non è un fastidioso inconveniente passeggero, che si dileguerà quando l’unità soggiacente sarà finalmente disvelata. Forse il reale è unitario e si narra a sé stesso con un unico linguaggio, ma a questa edenica unitarietà noi non abbiamo accesso: inseguiamo la chimera dell’unità soggiacente, ma dobbiamo accettare di buon grado e con riconoscenza le narrazioni articolate e contraddittorie, che talvolta tendiamo a rifiutare in nome della coerenza razional-computante, perché esse rispecchiano più fedelmente il mondo, la sua evoluzione e la nostra storia nel mondo così come noi vi abbiamo accesso. In tal modo, dopo un lungo cammino, saremo tornati da dove siamo partiti: alle scaturigini del racconto. Se il raccontare è legato al tempo esistenziale e alla finitezza della vita, allora si può ravvisare un’altra differenza rispetto al resoconto scientifico tradizionale, che invece si svolge nel non tempo delle cosiddette verità assolute, prive di ogni riferimento ai singoli esseri umani e alle loro vicende.

Torniamo dunque ai grandi narratori: Kafka, Pirandello, Bassani, Musil, Dostoevskij, Proust, Pavese e i tanti altri che si sono sporti sull’orlo della profondità per scrutare sé stessi, offrendoci poi una particola di verità, frammentaria e parziale, ma fulgida e preziosa.

 

Gorizia, luglio 2016

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