Scene d’estate / Crisalide: L’esperienza selvaggia

20 Settembre 2018

Quando un vulcano ha le doglie o è scosso da un’attività sismica, non si sa bene che cosa potrà liberare. Potrebbe uscirne dell’innocuo fumo, eruttare una colata lavica, fiottare della cenere distruttrice, o aprirsi una crepa nella terra che rivela una miniera di oro e argento. Nei versi dell’Ars poetica, Orazio usa questa similitudine del vulcano che ha le doglie per riferirsi, in forma ironica, ai risultati modesti di un poeta che promette qualcosa di grande. Egli proclama un’opera magnifica, ma partorisce un topolino: e tutti ridono. Abbandonando l’ironia oraziana, potremmo portare all’estremo l’analogia tra il vulcano e il poeta, supponendo che il secondo è ambiguo come il primo. Quando i poeti hanno le doglie, possono liberare versi e pensieri vacui come il fumo, preziosi come l’oro e l’argento, o devastanti come la lava e la cenere ardente.

Se il teatro è una forma di poesia, ci si potrebbe allora forse legittimamente domandare quanto segue. Anche il teatro è come una montagna che ha le doglie? E se sì, che cosa potrebbe liberare? Qualcosa di grande e arricchente e prezioso, o di piccolo e distruttore e miserabile?

 

Albe/Masque/Menoventi, “Macbetto”, ph. Lorenzo Bazzocchi.


Mi pare che questa domanda costituisca uno dei temi centrali che ispira sotterraneamente quattro degli spettacoli della 25.ima edizione del festival Crisalide, dal titolo L’esperienza selvaggia, andati in scena a Forlì il 14-15 settembre 2018. Mi riferisco a Macbetto, o la chimica della materia di Teatro delle Albe / Masque Teatro / Menoventi, a Luce di Masque Teatro, a Opsìa di Paola Bianchi, a Studio sul mito di Demetra di Teatro Akropolis. Parlando in termini molto generali, infatti, ciascuno di questi spettacoli descrive una sorta di movimento “dal dentro al fuori”. Essi presentano il teatro come un processo di liberazione di un qualcosa che è nascosto nella nostra interiorità, o nel nostro profondo. Il problema è capire che cosa sia questo “qualcosa”. Lo scopo di questo breve intervento è esaminare in estrema sintesi questo problema e parlare al contempo delle quattro proposte artistiche viste/ascoltate a Crisalide.

Prima di procedere, occorre tuttavia fare una distinzione dialettica e metodologica. Il concetto di “liberazione” o del moto dal dentro al fuori non è univoco, perché raccoglie in sé un insieme di fenomeni tra loro molto diversi. Senza entrare in troppi dettagli, perché andremmo altrimenti troppo lontano e complicheremmo inutilmente la questione, noto in questa sede solo che un processo liberatorio può essere o di tipo “grezzo”, o di tipo “elaborato”. Il primo indica un qualunque moto di rilascio di qualcosa in forma non trasformata, né rielaborata. Prendiamo ad esempio una spugna da doccia. Questo oggetto assorbe l’acqua, lo sporco che si trovava sul nostro corpo e il detergente usato per lavarsi. Quando la spugna viene strizzata, essa libera esclusivamente queste tre sostanze.

 

Non si dà, in altri termini, il rilascio di un loro aggregato o di un loro distillato, quindi un’entità che prima non c’era. Di contro, un processo di tipo “elaborato” libera un qualcosa di composito o di più asciutto dagli oggetti e dalle esperienze da cui si era partiti. Possiamo riportare entro questa classe la gran parte dei nostri accadimenti fisiologici e mentali. Il cibo viene assunto dal nostro organismo e raccolto in parte in nutrimento, in parte in escremento, dunque in due aggregati più piccoli e diversi dall’alimento ingerito. O ancora, le informazioni raccolte tramite libri o altri supporti vengono trasformate in nessi, idee, pensieri che le fonti di partenza o non contenevano, o non esplicitavano. Un processo di tipo “elaborato” libera allora qualcosa di diverso e non di identico rispetto alle cose da cui si era partiti.

 

Ora, credo si possa escludere che il teatro attui un processo di liberazione di tipo grezzo. Un poeta o artista performativo trasforma ed elabora sempre la realtà da cui parte, persino nei casi in si colloca in una prospettiva iper-realistica, vale a dire in cui ambisce a dare un’esatta replica del reale e ad annullare il rapporto originale/copia – tema peraltro accennato nella breve ma limpida presentazione di Simone Azzoni del suo libro Lo sguardo della gallina, svoltosi sempre nella 25.ima edizione di Crisalide. Se anche un attore dovesse davvero riuscire nell’intento di assumere le sembianze e i caratteri e altre qualità della persona o cosa o evento che imita, sarebbe comunque ancora possibile distinguere che questa è la “realtà reale” e questa la “realtà imitata”, che sono identiche in tutto meno che, appunto, nella loro essenza più intima. L’una è infatti naturale, l’altra artificiale. Nemmeno un dio sarebbe capace di compiere questo gesto iper-realista, ad esempio creando un “doppio” esattamente identico e sovrapposto alla cosa o alla persona o all’evento in questione, nel tempo come nello spazio. Persino in questo caso paradossale potremmo ancora distinguere con l’immaginazione o un atto di concettualizzazione l’originale e il doppione che è stato sovrapposto. (Se mai ce ne fosse bisogno, ciò costituisce incidentalmente una micro-argomentazione a sfavore dell’ipotesi – prossima all’indifendibile – dell’onnipotenza divina).

 

Teatro Akropolis, “Studio sul mito di Demetra”.


Questo discorso risulta ancora più plausibile se torniamo al problema del moto che va “dal dentro al fuori” da cui siamo partiti. Un poeta o artista performativo non libera sulla scena le sue visioni interiori così come sono state assorbite dall’esterno. Prendiamo a titolo di esempio il racconto della guerra delle Due Rose nell’Enrico VI o nel Riccardo III di Shakespeare. Queste drammaturgie non raccontano l’evento storico reale, pur rispettando spesso fedelmente la storia dell’Inghilterra, bensì riflettono una visione e un’interpretazione degli eventi filtrata dalla sensibilità o dall’intelletto dell’artista. Shakespeare non è come una spugna: non libera da sé solo quello che ha assorbito dall’esterno. Quel che questo poeta restituisce tramite il teatro ha poco a che fare con la storia e i suoi troppo umani avvenimenti.

Assodato allora, in forma certo troppo sintetica e inadeguata, che il teatro non attui un processo di liberazione di tipo “grezzo” e che per esclusione ne compi uno di genere “elaborato”, resta da capire che cosa esso liberi dalla nostra interiorità. Qui non è purtroppo possibile avere una prospettiva univoca e chiara. Gli artisti di teatro sembrano delineare in modi molto diversi, o addirittura contraddittori, la qualità del moto interiore che va dal dentro al fuori. Ciò emerge appunto dal lavoro delle compagnie dei quattro spettacoli di Crisalide che ora mi appresto a sintetizzare.

 

Il Macbetto di Testori a cura di Teatro delle Albe, Masque Teatro e Menoventi presenta una visione cupa sulla ricerca del potere, che a sua volta tradisce qualcosa sull’interiorità umana e sulla sua miseria. Macbeth e sua moglie Lady Macbeth non sono personaggi che vengono spinti verso la potenza da ideali o dal desiderio di altri fini, come la ricchezza o la sicurezza, bensì da puri motori istintuali. Lo spettacolo isola almeno la sessualità morbosa e aggressiva, la brama di sangue, o il crudo bisogno di defecare. Le stesse streghe che nell’originale di Shakespeare portano Macbeth alla rovina vengono presentate come un escremento e non delle entità esterne reali. Esse entrano in scena, infatti, quando Macbeth si mette in disparte e dichiara al pubblico di volersi liberare, cacando, «del troppo che ho dentro». (Questa scelta drammaturgica ha per inciso un effetto interessante: impedisce di deresponsabilizzare il personaggio dalla sua condotta. Macbeth non è portato alla rovina da una perfida divinità esterna, se le streghe sono appunto una sua defecazione). Secondo il Macbetto, dunque, il movimento del teatro che va dal dentro al fuori non descrive nulla di positivo. Noi non siamo altro che sangue e merda, ovvero violenza e malattia, sicché non è strano constatare che la ricerca del potere sia animata da istinti molto bassi e porti solo a compiere il male. E se la vita umana è paragonabile a uno spettacolo, come nell’originale di Shakespeare, ne risulta confermata l’idea che essa non può che rappresentare una tragedia. L’esistenza di ognuno è una vicenda «raccontata da un idiota, piena di rumore e furore, / che non significa nulla».

 

Piero Manzoni, “Merda d’artista”.


Luce di Masque Teatro è invece una performance in omaggio a Nikola Tesla. Il corpo nudo di Eleonora Sedioli è visto di schiena in alto, tra due Tesla coils (bobine di Tesla): due trasformatori in grado di generare piccoli fulmini. Dopo pochi intensissimi minuti, fa la sua apparizione una scarica di luce, i cui impulsi elettromagnetici sono canalizzati direttamente verso la macchina dalla pelle dell’attrice. Se nel Macbetto si mostrava allora che l’interiorità umana contiene ombre e oscurità, qui viene mostrata come generatrice di luce. Il corpo nudo è visto come un naturale conduttore di energia vitale, prossimo quasi all’“albero di elettricità pura” che Artaud sognava nel suo Per farla finita con il giudizio di dio. Un ulteriore aspetto positivo di questa performance è l’eliminazione di ogni confine netto tra l’organico e l’inorganico. Quando la luce fa la sua apparizione, infatti, non risulta più evidente che il corpo nudo e la macchina siano due enti distinti. In quel momento, l’uno e l’altro sembrano costituire una realtà unica. La macchina di Tesla sembra, anzi, diventare altrettanto organica e vitale quanto l’attrice Sedioli.

Anche il lavoro Opsìa di Paola Bianchi è avvicinabile a Luce di Masque Teatro, se è sensato definire entrambe come una “poetica del corpo muto”.

 

L’artista parte da una tela di Andrea Chiesi e dal libro animanimale di Ivan Fantini per tradurre l’una come le altre in dei movimenti coreografici, o più materialisticamente in fremiti e coreografie della pelle. In questo senso, se immagini e parole sono definibili come traduzioni dell’interiorità di chi le ha dipinte / scritte, ci troviamo con Opsìa di fronte alla traduzione di una traduzione. Il corpo di Paola Bianchi libera attraverso il corpo quella che è l’essenza della tela di Chiesi e dei ragionamenti di Fantini. Se si volesse concepire anche il saggio che sto scrivendo come un quarto livello di traduzione, potremmo per inciso definire la critica come la “traduzione di una traduzione di una traduzione”, che cerca di cogliere il nocciolo della questione, più spesso senza riuscirci. Il fatto che in questo processo di traduzione dall’immagine e dalla parola al corpo si riesca a cogliere poco dell’originale da cui si era partiti va visto qui come un pregio, più che come un difetto. Il teatro è del resto un’arte della suggestione e della fascinazione misteriosa, in cui non è necessario comprendere tutto per accedere alla bellezza. Inoltre, sono davvero pochi – forse nessuno – i fatti della vita che si capiscono per davvero. L’arte bella di cui Opsìa è un esempio non fa che intensificare il mistero incomprensibile dell’esistenza.

 

Paola Bianchi, “Opsìa”.


Chiude la mia ricognizione un breve esame dello Studio sul mito di Demetra di Teatro Akropolis. Sulla scia della lettura del mito antico come un accesso all’originario, che si ispira soprattutto alle ricerche di filosofi-filologici quali Giorgio Colli e Alessandro Fersen, il lavoro indaga una delle possibili nascite del teatro dai misteri orfico/eleusini e la natura dei suoi effetti. Demetra era adirata con Ade per il rapimento di Persefone e, spinta dal suo sentimento, inaridì la terra, che non avrebbe portato più frutto fino a quando la dea non si sarebbe riconciliata con la figlia. Solo l’incontro con la mortale Baubò avrebbe condotto Demetra ad abbandonare la sua rabbia. Baubò infatti danzò e si denudò di fronte alla dea, destandone così il riso, cancellandone l’ira e restituendo la vita ai campi aridi. Ora, lo studio di Akropolis non fa che mettere in scena questo momento decisivo ed evidenziare la natura poetico-liberatoria di questa risata al tempo stesso sacra e profana. La danza di Baubò è allora vista come una forma di teatro, anzi una delle prime forme di teatro, che descrive un attimo di passaggio o di scarto positivo da una condizione esistenziale infelice (= l’ira di Demetra e l’aridità della terra) a una felice (= il riso della dea e la restituzione della fertilità ai campi), dunque come un moto redentore. L’artista pare avere il potere di smuovere persino l’interiorità di una divinità e di renderla gioioso da triste che era, come si dice abbia fatto già Orfeo con la sua musica di fronte all’inflessibile Ade.

 

Basta uno sguardo superficiale alle prospettive così sintetizzate per notare che nessuna di loro è perfettamente armonizzabile con le altre. Non si può pensare, ad esempio, che il Macbetto e la sua idea che la poesia del teatro porti fuori alla vista il sangue o la merda dell’esistenza sia compatibile con la prospettiva del corpo generatore di elettricità di Luce e quello portatore di bellezza di Opsìa, o con il riso redentore dello Studio sul mito di Demetra di Akropolis. Né è possibile far combaciare alla perfezione i lavori di Paola Bianchi e di Masque Teatro, anche ammettendo che entrambi condividano la poetica dell’espressività del corpo muto. Vi è infatti almeno un’importante differenza tra le due creazioni. Paola Bianchi pensa che il solo corpo muto basti a dare un’espressione artistica alla nostra interiorità, a tradurre parole e immagini in moti della pelle, mentre Luce di Masque ritiene che questi richieda l’ausilio della macchina e l’intercettazione dei più sottili movimenti elettromagnetici della materia. Infinite altre differenze potrebbero poi essere rilevate, e questo ci mostra quanto ciascun lavoro artistico abita, per così dire, un suo mondo privato e irrelato agli altri.

 

Eppure, consideriamo tutti questi quattro spettacoli come esempio di teatro, quanto meno per semplice convenzione. Li abbiamo infatti trovati allestiti in un festival teatrale e le persone sono uscite da Crisalide convinte di aver avuto esperienze “teatriche”. La pluralità di proposte di così alto livello e qualità ci porta insomma a un’aporia. Se usciamo dalla confortevole ma problematica dimensione della convenzione che sia teatrico tutto ciò che è ospitato in un festival teatrale, non capiamo che cosa faccia sì che proposte così diverse siano tutte riconducibili alla categoria del “teatro”.

 

Renato Guttuso, “La visita della sera”.


Quando ci si trova di fronte a casi di aporia del genere, tre soluzioni sono possibili. La prima è intraprendere una ricerca che cerchi di distinguere quali tra spettacoli siano davvero teatrali e quali non lo siano: se tutti, o alcuni, o magari nessuno. (In quest’ultimo caso, che non è niente affatto da escludere, si raggiunge forse una conclusione inquietante. Il teatro sarebbe un’arte che ancora deve iniziare e la storia dei tentativi di coltivarla che vanno da Tespi a oggi costituisce una collezione di stupendi fallimenti.) Chiamerò questa proposta la “soluzione dogmatica”. La seconda ipotesi è quella della sospensione del giudizio. Dal momento che non riusciamo a capire perché lavori così diversi siano teatrali, dobbiamo rinunciare a capire che cosa il teatro sia e lasciarsi attraversare dall’esperienza degli spettacoli, che è il solo fenomeno accessibile e comprensibile. Tale proposta può prendere il nome di “soluzione scettica”. O infine, il teatro è tutti questi spettacoli e i loro contrari. Come il vulcano di cui si parlava all’inizio, che può sia distruggere che portare alla luce oro e argento, esso porta da dentro al fuori sia visioni spaventose che salvifiche, sia luce che tenebra, sia riso che pianto. Potremmo provare a definire un simile atteggiamento come la “soluzione sintetica”.

 

Nessuno degli spettacoli riesce così ad esaurire la profondità e la bellezza assoluta del teatro, ma ciascuno ne dà un piccolo tassello, parziale ma vero. Eraclito diceva qualcosa del genere riguardo all’anima, asserendo che i suoi confini “non li potrai mai raggiungere, per quanto tu proceda innanzi: tanto profonda è la sua ragione”. Se consideriamo il teatro come l’anima comune di tutti questi spettacoli, risulterà essere altrettanto abissale e sondabile solo per progressive approssimazioni. E se esso è espressione della nostra interiorità, si potrà a sua volta dedurre che anche l’universo interiore che ogni individuo porta con sé è ben più grande di come ci appaia. Uomini e donne non sono isole, ma pozzi senza fondo.

 

Il teatro è forse a tutti gli effetti, dunque, per chiudere riprendendo il titolo del festival da cui siamo partiti, un’esperienza selvaggia, fuori controllo e in apparenza senza limiti o freni. Come da un giardino che cresce disordinato nascono le piante più disparate, così da quest’arte possono germogliare visioni di suprema disperazione e altre di speranza serena. Quando però un artista si convince di aver afferrato, addomesticato e compreso del tutto il teatro, si nutre di un’illusione analoga a quella del domatore che crede di aver ammansito una tigre. Questa strana belva può risvegliarsi di colpo dalla sua quiete in cui il poeta l’aveva finora temporaneamente sedato e aggredire il suo padrone, con morsi possenti e gli adunchi artigli (morsibus adfixae validis atque unguibus uncis).

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