Mostre / Lettera da Londra e Praga

23 Dicembre 2018

“E oggi abbiamo uno speciale ribasso del 20% per i profumi: potrete comprare Hugo Boss, Paco Rabanne, Caroline Herrera”. “I nostri gratta e vinci sono destinati a finanziare imprese di beneficienza, prendete, uno, dieci, venti”. La tirannide low-cost trasforma ogni viaggio in una televendita che si svolge a un centimetro dal naso del viaggiatore, che ha un bel trincerarsi dietro libri, cartine, guide turistiche, giochi, playstation. Alla fine, comunque, qualcosa di quella infernale sarabanda commerciale arriva, e rimane nella mente come il ritornello più cheesy della stagione. Londra, in piena brexit, è presa d’assedio dalle forze di sicurezza, mentre si replica ogni giorno l’ispezione a qualche fatiscente casamento nelle periferie, come Hackney, a forte presenza musulmana. I musei sono blindati: ogni borsa è controllata, i bagagli sono ormai sgraditissimi: i viaggiatori si arrabattano con storages improvvisati che rapinano il malcapitato visitatore, domandando una somma di denari pari all’ingresso in una disco d’élite a Mayfair.

 

Passati i continui stop, la ricompensa è notevole. La Tate Britain allestisce la prima mostra completa, dopo molti anni, dedicata a Edward Burne-Jones, all’incrocio tra eredità preraffaelita, Arts & Crafts, impegno sociale e strepitose raffinatezze. La tentazione decorativa è sempre evidente in opere dalla ipnotica composizione, avvinte a una sempre maggiore preziosità formale. Memorabile il ciclo dedicato al Roman de la Rose, vicenda d’amore e morte centrale per la sua immaginazione, come le trame del ciclo arturiano. Ogni ambito di attività era centrale per l’artista vittoriano: vetrate da chiesa, dal gotico fascino, insieme a tappezzerie, gioielli, clavicembali istoriati sono il bersaglio della sua tavolozza. Una immersione in un mondo fatato, che pure teneva conto esattamente dei dati di un momento storico e sociale travagliato, come raccontano esattamente le figure di alcuni quadri, ad esempio nella serie di Il re Cophetua e la mendicante. La relazione tra arte e mondo della pratica è uno dei fili di questa stagione di mostre londinese. Alla National Portrait Gallery l’obiettivo in una esposizione di grande interesse è per il Family Album di Thomas Gainsborough, ritratti di amici e parenti, in cui il pittore, maestro del ritratto, metteva in scena parenti e amici in pose che poi sarebbero tornate nelle tele dedicate alla high society.

 

Memorabile alla National Gallery il confronto tra Giovanni Bellini e Andrea Mantegna, in una mostra magnifica, in cui sono indagati i nessi tra bottega e creatività, nella costruzione dell’identità del Rinascimento del nord italiano, tra Mantova e Venezia. Alla Tate Britain, finalmente, va in scena un grande solo show per la immensa Anni Albers, finalmente liberata dal duo obbligato con il marito Josef. Confinata, con le altre Bauhaus Girls, alle arti tessili, in una direzione della prestigiosa scuola decisamente maschilista, si pose al telaio per tessere alcune linee del Novecento, in cui, profeticamente, la pratica artigianale si metteva insieme al design industriale. Tra Germania, Stati Uniti e Messico, fu maestra di oggetti, tra tappeti, borse, arazzi, in cui spesso rifuse la sua passione per gli adobe e le altre strutture dell’architettura tradizionale in Messico, tema su cui rifletteva con grande acutezza la recente esposizione Josef Albers in Mexico, realizzata lo scorso anno dalla Fondazione Guggenheim a Venezia. Anni ha avuto in Italia due anni fa una bella dedica alla Fondazione Sozzani di Milano, ed è centrale in questa esposizione londinese, il suo ruolo di profeta dell’immagine bidimensionale, saccheggiata nel mondo digitale in ogni possibile modo da decenni.

 

Opera di Edward Burne-Jones.


Il nitore estremo dei suoi progetti non si disgiunge mai dall’acutissima ricerca di una poetica astratta, che si incrocia con una vita che è allo stesso tempo appartata e nel cuore degli eventi, come dimostra anche il suo magistero nella scuola di avanguardia del Black Mountain College, da cui sono emerse figure centrali dell’arte statunitense del dopoguerra. Memorabile, infine, al Barbican Modern couples, accompagnata da un ottimo catalogo curato da Jane Allison e Coralie Malissard, che riflettono con grande acutezza sul nesso tra Art, Intimacy and the Avantgarde. Il risultato è un libro romanzesco, edito da Prestel, che si legge come una cronaca di interni e esterni dell’avanguardia. Coppie, quindi, di artisti e scrittori, ma anche legami a tre, e a quattro, spesso profetici, e prolifici nella produzione, ma anche devastanti nella gestione. Molti legami sono noti, altri, spesso ad altissima temperatura erotica, assai meno frequentati. Colpisce il legame tra Til Brugman e Hannah Höch, Nancy Cunard, cui si deve la scoperta di Samuel Beckett, insieme al pianista nero Henry Crowder. Notevolissimi angli affondi americani con i trii costituiti da George Platt Lynes, Monroe Wheeler e Glenway Wescott che echeggia questa complessa relazione nel magnifico romanzo Il falco pellegrino, edito in Italia da Adelphi, e PaJaMa, due uomini e una donna, legati dalla creazione di eroticissime immagini fotografiche negli anni ’40.

 

Unico legame italiano, quello tra Filippo Tommaso Marinetti e la grande Benedetta; non da meno l’impatto dell’eccentrico duo surrealista ceco costituito da Toyen e Jindřich Štyrský, autori di opere piagate di erotismo. Il loro universo di falli e penetrazioni, con ambigui voyeur, mi accompagna al prossimo mefitico low-cost, in cui vendono alberi di natale mignon a colori fluo per finanziare una scuola in Ghana. Praga, assediata dai turisti, ma solo tra il Ponte Carlo, Mala Strana e le vie dello shopping, rende omaggio alle sue avanguardie con tre magnifiche mostre. Anna Pravdová cura magistralmente una amplissima retrospettiva di František Kupka, già vista al Grand Palais a Parigi, e ora in scena alla Narodni Galerie. Una visione che parte dai primi lavori simbolisti a Praga, per passare alla satira sociale a Parigi, all’impegno insieme al grande geografo anarchico Elysée Reclus, per l’illustrazione di una sua monumentale Storia dell’uomo. Poi un periodo fauve, con le mirabili gigolettes e prostitute come La ragazza di Gallienne, per poi passare alle astrazioni, luminosa mappa di visioni, in cui l’artista ha dichiarato la sua vocazione maggiore, a cui è rimasto fedele fino alla fine della sua esistenza.

 

I legami cechi con la Francia sono il fil rouge di questa stagione e compaiono anche al centro di una altra interessante mostra al Palais Kinsky, Bonjour Monsieur Gauguin, benissimo organizzata dalla stessa curatrice, che analizza, a partire dal titolo di un’opera celebre conservata alla Narodni Galerie, la relazione tra gli artisti cechi e la Bretagna, nel momento in cui la malia dei luoghi aveva sedotto gli artisti parigini. Al centro le magie grafiche di Mucha, con magnifiche immagini pubblicitarie, insieme a molti altri autori meno noti. Il maestro Art Nouveau, peraltro, è celebrato nella magnifica Casa Municipale, con l’esposizione della Epica Slava, notevolissima serie di teleri dedicati a momenti capitali dell’epopea orientale, tra ortodossia, miti e leggende. Al Museo delle Arti Decorative va in scena Hana Podolska, leggenda della moda praghese, con abiti, film, immagini, in una storia che parte da una piccola sartoria, arriva al grande successo, e viene poi spazzata via dalla storia, tra nazismo e stalinismo. Al Veletržní Palác, edificio razionalista dove si trova la maggiore raccolta di arte moderna della città, un nuovo, felice, allestimento, rilegge l’arte ceca e slovacca del Novecento, incrociando i dati degli artisti, insieme alle vicende della danza, dello spettacolo, della poesia, della grafica, dell’editoria d’avanguardia. Al piano ultimo una memorabile installazione di immagini e fotografie dell’invasione sovietica di Praga, con al centro l’opera di Josef Koudelka. E poi tra poco ripartono le offerte speciali e c’è da prendere un altro affollatissimo low cost, che ha solo due ore di ritardo.

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