Pivano, Vittorini, Briasco / "I celebrate myself". L'io nella narrazione statunitense

21 Giugno 2017

Così ammonisce Nonciclopedia: “La letteratura americana è vivamente sconsigliata a chi ama la letteratura”.

Tale controindicazione può forse farci sorridere, ma non si esaurisce nella sola boutade. Quanta letteratura nordamericana invade gli scaffali dei megastore del centro e i bancali degli autogrill! Quanto risultano ‘alla moda’ molti fra i nuovi titoli e i nuovi autori, che dopo una faticosa lettura non presentano alcun merito se non quello di provenire da oltre oceano! E quanti scrittori continentali scrivono ‘all’americana’, confondendo l’americanità con l’americanata.

 

Non tutti gli scrittori di blockbuster sono americani, è ovvio. Fra gli scrittori nostrani (si pensi al caso Ferrante, da cui prende spunto Stefano Jossa per uno splendido articolo sullo stato attuale dell’Università) e stranieri (Ruis Zafon e Pennac sono i primi a venirmi in mente) non mancano certo le galline dalle uova d’oro. Tuttavia, è innegabile che dal mondo anglosassone, e statunitense in particolare, giungano i più grandi successi dell’editoria mondiale degli ultimi anni, spesso supportati dalla potenza di fuoco di Hollywood. Gli esempi non mancano di certo: da Dan Brown a Stephen King, da John Grisham a James Patterson, dall’oscenità (nell’accezione che più vi aggrada) delle cinquanta sfumature di E. L. James al soft porno per adolescenti di molta letteratura young adults.

 

In questa giungla letteraria vige la legge del più forte e del personalismo assoluto, mentre fra gli abitanti della periferia dell’impero americano-centrico sorge talvolta il dubbio che per poter passare per scrittori oggi si debba quantomeno vivere a New York o Los Angeles (sul Midwest, alcuni hanno ancora qualche dubbio). La sovrabbondanza e l’incessante rinnovamento di titoli e nomi può confondere, spaventare e demotivare anche il lettore più esperto (e non solo, beninteso, più snob), nonché costituire un sintomo incontrovertibile di un fatto: che le belle lettere abbiano preso casa in altre patrie letterarie, che verso tali lidi occorra dirigersi quanto prima, in fuga dall’egemonia dello stereotipo a stelle e strisce.

 

Goodbye America, dunque; era ben giunta l’ora di sottrarsi al tuo imperialismo culturale. Eppure, questa posizione di giustificabile ripiegamento e di lodevole apertura al ‘diverso’ può irrigidirsi in rifiuto massimalista, in una forma di allergia acuta verso qualsivoglia espressione di americanità tout court. Ciò non renderebbe giustizia al valore estetico, in particolare, della produzione letteraria statunitense; un atteggiamento di refrattarietà assoluta in questo ambito equivarrebbe a una pericolosa e masochistica mutilazione intellettuale.

 

 

Per scongiurare il rischio di tale ipercorrettismo culturale, ben venga allora la ristampa di Viaggio americano di Fernanda Pivano (Bompiani, Milano 2017 [prima ed. 1997]). Due interventi sul Melville del Benito Cereno e di Moby Dick aprono questa raccolta di articoli di critica militante, che vuole essere una personale rassegna della migliore narrativa e poesia del Novecento, in particolare “di quegli autori a volte quasi dimenticati che hanno fatto la storia della letteratura americana” (p. 9). Fra di essi, si fatica a ritenere Hemingway o Fitzgerald, Lee Masters o Henry Miller, passibili di damnatio memoriae; tuttavia, la nota traduttrice illumina angoli bui delle esistenze e dell’opera di questi autori, fedele a un’idea di critica che (con buona pace dei fondamentalisti dell’accademia), alla luce del metodo del suo maestro Malcolm Cowley, si fa “storica, biografica, psicologica, sociologica ed etica, spesso tutte queste cose insieme” (p. 58). La Pivano scrive di Coca Cola e di beat, di hippie e di Kurt Cobain, conscia (e come darle torto?) che l’attrazione per questo Paese nasca da media extra letterari e passi anche per altri canali e mitologie (cfr. il capitolo “Il mito dell’America in Italia: gli anni sessanta”, p. 285); la cultura (pop) come prosecuzione della letteratura con altri mezzi.

 

Nel mare magnum di letteratura accademica rigorosa e non sul tema, la Pivano si distinse sempre per una essenziale originalità metodologica, che la rese costante bersaglio di critiche e che si fonda sulla centralità della lingua e sulla pratica della traduzione che la impegnò tutta la vita. Che si possa perdonare una certa confusione (e non certo ingenuità) di metodo, in virtù della sua eccezionale esistenza, nonché della sua abile e pioneristica attività di traduttrice?

L’insofferenza della Pivano nei confronti di un metodo critico rigoroso trova forse le sue radici biografiche in un piccolo trauma liceale: una bocciatura in italiano, alla quale non scampò nemmeno il suo compagno di classe Primo Levi e dalla quale scaturisce la sua essenziale “sfiducia nelle scuole” (p. 622). Excusatio non petita: il racconto di questo episodio è riportato in chiusura del volume, come a voler giustificare, con il sorriso sulle labbra, l’anarchia di fondo dell’indagine letteraria della Pivano.

 

Eppure, c’è da scommettere che questo libro possa regalare, anche all’americanista più navigato, qualche nuova scoperta (come lo stesso Malcolm Cowley), sensazione o suggerimento. Leggiamo infatti con una certa invidia il resoconto di incontri, interviste, cene con alcuni fra i più straordinari scrittori e artisti del Novecento americano, di cui la Pivano mostra spesso di conoscere passioni, hobby, ossessioni e bizzarrie varie. Il fascino della lettura di Viaggio americano risiede proprio in tali curiosità e piccolezze, che, se da un lato possono non costituire un’illuminazione ermeneutica, dall’altro non possono non incuriosire e ammaliare. A distanza di quasi otto anni dalla morte dell’autrice, questa raccolta ha insomma il sapore del memoir, di una gustosa e ricca autobiografia per incontri. Una cena con Henry Miller e una sua amante si trasforma così in quadretto settecentesco, quando un amico dello scrittore “diventato poi un leader politico” (p. 139) flirta con la sua compagna, mentre la Pivano e Miller conversano di letteratura; uno straniante Bukowski in versione ‘casalinga’ emerge dal ricordo di un pranzo a casa dello scrittore, in cui egli dispone “le posate con più grazia di tante massaie svogliate” e beve acqua alla ciliegia “[p]er far piacere” alla moglie (p. 407).

 

 

Molte strade si offrono alla perlustrazione della letteratura americana contemporanea. Si può seguire la Pivano nella wilderness statunitense, tenendo insieme i sentieri solo in apparenza divergenti di letteratura, politica, società e cultura; oppure si può procedere come Fabio Vittorini, che allarga gli orizzonti della letteratura e prende a vagare per i vicoli che la ricongiungono alla settima arte, al fumetto, al videogame, alla pubblicità.

 

Nel suo Narrativa Usa 1984-2014. Romanzi, film, graphic novel, serie tv, videogame e altro (Pàtron editore, Bologna 2015), Fabio Vittorini indaga con l’astuzia del flâneur (la prefazione del libro si apre non a caso con una citazione tratta dai Passages benjaminiani) la narrativa statunitense dell’ultimo trentennio. Non ci si lasci trarre in inganno dall’ordine apparentemente caotico e poco accomodante degli argomenti trattati: del flâneur, Vittorini riprende solo le movenze, ma non certo l’asistematicità o l’incoerenza. Nelle rappresentazioni artistiche di ogni forma e valenza, egli intravede i segni di uno Zeitgeist che pone l’elemento narrativo come fondamento delle sue manifestazioni e che oltrepassa i confini, ormai desueti, della narrazione in senso stretto. Archeologo del presente, l’autore cataloga ogni forma di vita narrativa prodotta in Usa dall’‘84 e la inserisce in una trama di relazioni spesso inaspettate, non per questo arbitrarie, mentre intreccia la sua personalissima analisi con riflessioni teoriche di auctoritates quali Agostino, Benjamin, Lukács, Ŝklovskij, Ricoeur. Senza soluzione di continuità fra gli universi comunicanti e intermediali che disegna, Vittorini legge il nostro mondo all’insegna della categoria della narratività e ne abbozza un profilo storico che si dimostra utile, non scolastico; illuminante, non solo suggestivo.

 

Ciò che stupisce (ma non è l’unico elemento a destare piacevoli sorprese) è innanzitutto la periodizzazione proposta dall’autore, che individua in particolare nel noto spot ‘distopico’ (Orwell docet) della Apple del 1984 il simbolo di una “svolta narrativa” (p. 17) che segna il confine fra due epoche della narrazione americana; un caso precoce di “uso dello storytelling per la costruzione del brand” (p. 23). Non solo: il 1984 è anche l’anno delle Olimpiadi di Los Angeles, di sei opere-racconto di Keith Haring, di Neuromancer (leggasi anche: new romancer) di William Gibson. Il ruolo della tecnologia in questa vera e propria rivoluzione, intesa come “principio di piacere liberato dalla gabbia naturale della riproduzione”, è tutto meno che secondario. Sotto il segno di una tecnologizzazione pervasiva si presenta anche l’ultimo capitolo del saggio, che individua nelle serie TV e nella nascita dei social media una “doppia svolta” (p. 173) nel racconto del presente.

 

L’ordine cronologico, unico principio seguito nella dispositio del saggio, permette al lettore di seguire senza troppa difficoltà le acrobazie dell’autore, benché non sia banale tenere sott’occhio la moltitudine di salti concettuali e tematici esibiti. Personalmente, per quanto convinto e affascinato dall’originalità e dall’intelligenza del testo, nutro qualche dubbio sulla fondatezza di quella che Vittorini definisce “la svolta mediagenica” degli anni ’90, della quale non riesco a cogliere le specificità e che mi sembra rappresentare piuttosto un’evoluzione di quella “svolta narrativa” (o postmoderna) individuabile negli anni ‘80. Inoltre, per quanto sia stimolante e decisiva una ricognizione nella foresta sconfinata della narrazione contemporanea, ancora più urgente sarebbe forse un’indagine che desse per scontata questa ‘iper-narrativizzazione del reale’, per ritornare a indagare le peculiarità proprie del campo letterario: una ricerca delle differenze nel gorgo indistinto della narrazione (onni)presente. Benché a questa riflessione venga indotto dalla lettura del testo di Vittorini, tale mancanza non è ovviamente imputabile al suo libro, che si prefiggeva altre sfide e obiettivi.

 

 

Se Vittorini strattona il lettore per un braccio e lo getta nella confusione della metropoli della narrativa statunitense, Luca Briasco lo prende invece per mano, per guidarlo attraverso un tour dei monumenti della civiltà letteraria americana degli ultimi cinquant’anni.

 

Americana. Libri, autori e storie dell’America contemporanea (Minimum Fax, Roma 2016) è una raccolta di schede-libro di quaranta opere di prosa statunitensi (una per autore, con l’eccezione di Carver e Oates), a partire dalla classica raccolta di racconti di John Barth La vita è un’altra storia. Il libro si rivolge al lettore curioso, non accademico o esperto del settore. Le schede sono suddivise in sette sezioni che raggruppano i testi in base a etichette eterogenee, prive di confini cronologici, quali “Le vie del postmoderno”, o “L’avanguardia, o quel che ne rimane”. La scelta dei libri, come ammette l’autore nella sua premessa, è parziale e dolorosa, ma non casuale (p. 8). In questa rassegna del tutto soggettiva ritroviamo infatti molti dei giganti degli ultimi sessant’anni di letteratura americana, da Pynchon a DeLillo, da McCarthy a Foster Wallace. Le schede, dal tono programmaticamente didascalico, riassumono in parte la trama dell’opera, ricollegano il singolo testo al resto della produzione dell’autore, approfondiscono elementi della poetica dell’autore o della corrente estetica di appartenenza, riportano citazioni (a volte paragrafi interi) dai romanzi.

 

Il saggio di Briasco riesce perfettamente nel suo scopo di invogliare “ad andare in libreria e comprare una qualsiasi delle opere che ho tentato di analizzare” (p. 8). Originale è anche la sua idea di una narrativa americana che ultimamente guarda al passato per gettare le basi del suo futuro. Ciò che traspare dall’opera di Briasco è infatti, al di là della struttura ‘a compartimenti stagni’ del testo, il ruolo di numerosi e sorprendenti corsi e ricorsi storici nella letteratura americana recente; in primis, la persistenza, il rifiuto, la riscoperta del realismo. Le etichette di cui Briasco si serve non sono meri simulacri e nel corso del libro si definiscono man mano i termini più scivolosi: particolarmente utile è in questo senso il chiarimento sulla categoria di ‘minimalismo’ che propone in merito a Meno di zero di Bret Easton Ellis (p. 112). Non mancano intuizioni feconde e brillanti anche per il lettore più smaliziato, quali la rivelazione di parentele letterarie dissimulate; quella fra Thoreau e Auster, per esempio(p. 68), è una delle più originali.

 

Apprezzabile è anche l’inserimento nel canone di Briasco di scrittori ‘commerciali’ quali Stephen King (It), Philip Dick (Ubik), James Ellroy (American Tabloid) e Jim Thompson (L’assassino che è in me), solitamente snobbati dall’accademia, ma dalle influenze imprevedibili e pervasive per autori di ogni genere. Manca forse, alla fine di questa cavalcata, quel senso di “sistema” (p. 7) letterario che Briasco aveva annunciato nella premessa; la collezione di saggi si dimostra tuttavia una serie ragionata di interventi ad hoc, per nulla scontati o dal tono meramente promozionale.

 

 

La scelta di saggi qui proposta è soggettiva e arbitraria; tuttavia, i tre autori rappresentano differenti approcci possibili alla cultura e letteratura americana: più introduttivo e aperto quello della Pivano, più impegnativo e interdisciplinare quello di Vittorini, più tradizionale e strutturato quello di Briasco. In queste tre guide, accomunate dalla conoscenza profonda della lingua e dalla serietà con cui restano fedeli al metodo adottato, non troviamo traccia di ingenuità.

 

Ora, al termine della nostra breve escursione nel paesaggio letterario americano, ci ritroviamo con una domanda. Come scrive Briasco, la narrativa statunitense “forse non più egemone […] continua a esercitare un fascino e una capacità di attrazione quasi universali” (p. 43). Verrebbe da chiedersi i motivi di tale successo.

 

Una caratteristica che accomuna i tre testi nella loro irriducibile diversità di approcci è l’insistenza sulle figure degli autori, a dimostrare l’inevitabilità di un personalismo che, al di là delle etichette onnicomprensive o eccessivamente semplificatrici della critica, resiste e prolifera nella produzione letteraria contemporanea, americana in particolare. E al quale la critica o la storiografia letteraria non sembrano davvero sapere come sottrarsi. Dietro a questa tendenza globale si cela forse l’essenza della letteratura statunitense, che ha cantato (creandolo?) l’io fin dai suoi albori poetici, per tradurre poi l’individualismo in progetto politico, sociale ed economico, fino alle sue conseguenze più estreme.

 

Mentre in Europa si profetizzava sulla fine del soggetto e sulla morte dell’autore, negli Stati Uniti i Grandi Narcisisti (come li definisce David Foster Wallace in Considera l’aragosta) quali Mailer, Updike, Roth, prosperavano e scrivevano frasi come la seguente: “Di me solo…canto, mancandomi altre canzoni” (J. Updike, Midpoint, Canto I). Alla fine, hanno avuto ragione loro: l’io (o almeno una retorica dell’io) è rimasto in piedi, si è rafforzato, ha preso a vivere di vita propria. Ha però anche assunto un peso specifico, spesso insostenibile e soffocante, dal quale la stessa letteratura americana può mettere, paradossalmente, in guardia. Scrive Saul Bellow nel suo romanzo L’uomo in bilico:

 

Noi lottiamo perpetuamente per liberare noi stessi. O, per dirla in altri termini, mentre sembriamo così attentamente e anche disperatamente aggrappati a noi stessi, preferiremmo di gran lunga abbandonarci. Non sappiamo come. Così, talvolta, ci buttiamo via, quando in realtà quello che veramente vogliamo è cessar di vivere così esclusivamente e vanamente per noi stessi, impuri e ignari, volti a osservarsi nell’intimo e incatenati al nostro io.

 

Alla fine del libro, la chiamata alle armi priva definitivamente il protagonista Joseph della sua libertà personale. Si chiude così, senza troppa ironia, il suo diario:

 

Questo è il mio ultimo giorno di borghese. Iva m’ha fatto le valige. È evidente ch’ella vorrebbe vedermi far mostra d’un po’ di dolore per la mia partenza. Per amor suo, lo vorrei anch’io. E mi dispiace moltissimo di lasciarla, ma non di lasciare tutto il resto. Non sono più responsabile di me stesso, e questo mi fa molto piacere. Sono in altre mani, affrancato da ogni dovere di decidere di me stesso, liberato dalla libertà.

Urrà per il regolamento!

E per il paternalismo!

Evviva l’irreggimentazione!

 

L’ossessione dell’individuo; ovvero l’ossessione di liberarsene.

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