Le parole che non salvano / Antonia Pozzi. Poesia che mi guardi

20 Ottobre 2016

È il 3 dicembre 1938 quando la bicicletta di Antonia Pozzi si ferma per l'ultima volta nei campi che costeggiano l'abbazia di Chiaravalle, alle porte di Milano. La neve ricopre il manto erboso e si mangia tutti i rumori per donarle, finalmente, quella pace tanto agognata, mentre un piccolo rigagnolo le scorre accanto, portandosi via la sua anima inquieta. “Suonano i passi come morte cose / scagliate dentro un'acqua tranquilla / che in tremulo affanno rifletta / da riva a riva / l'eco cupa del tonfo”. 

Un tonfo che risuona in lei da 26 anni, il tonfo del non, “della mia casa non nata”, “il lamento dei non uccisi”, dei figli non avuti da un amore non vissuto. 

Sedeva sui banchi del liceo Manzoni di Milano, Antonia, quando si innamora perdutamente del suo professore di latino e greco, Antonio Maria Cervi, che, per primo, le mostra il lato materico delle parole, la vita che scorre tra le righe, sotto la penna, nella carne. 

 

Inizia allora una relazione tra quella giovane e brillante studentessa, un po' rigida e insofferente, e quel maestro da lei descritto, in una lettera all'adorata nonna Nena, come “una gran fiamma dietro una grata di nervi, un'anima purissima anelante”. Rapporto, il loro, fortemente osteggiato dal padre di Antonia, un avvocato filo-fascista, che non vedeva di buon occhio il legame tra la giovane figlia e quel mentore cui tante poesie – molte delle quali furono poi manomesse dall'autoritario pater familias – erano dedicate . 

Il trasferimento di Cervi a Roma segna la fine della nascente relazione, che da quel momento si trasforma in uno scambio epistolare, protratto fino al 1934, ma che non abbandonerà mai davvero Antonia. “Navighiamo a incontrarci”, scrive in una poesia del '33 che ha come titolo un “Ricongiungimento” che non avverrà più. 

I primi anni Trenta segnano anche l'ingresso della Pozzi nell'ambiente universitario – è iscritta alla facoltà di Lettere della Statale – dove frequenta assiduamente le lezioni di filosofia di Antonio Banfi, entrando nella cerchia dei cosiddetti “banfiani”, tra cui spiccano Vittorio Sereni, Giulio Preti, Remo Cantoni, Alberto Mondadori, Enzo Paci e Luciano Anceschi. Un ambiente sicuramente stimolante, ma anche poco incline a comprendere la sensibilità di Antonia, che si sente consigliare da Banfi di passare al romanzo storico e da Paci di “scrivere il meno possibile”. 

 

Ma come fare a storicizzare, a razionalizzare, o addirittura a non scrivere “qualcosa che metteva di mezzo la pelle”, come dice Dino Formaggio, più volte definito dalla Pozzi “fratello della mia anima”? Come restarsene chiusi nelle università quando l'olezzo dell'imminente guerra inizia a diffondersi nelle strade, coperto dal trionfalismo propagandistico del regime? 

Con Dino Antonia vagabonda nelle periferie milanesi, annotando quella “miseria [che] durerà per sempre” e che le apre un mondo in netto contrasto con il benessere borghese in cui è nata e per il quale si sente in colpa. 

Lei, che della “Milano bene” apprezzava solo le serate alla Scala, in cui si lasciava trasportare dalla musica, dal suono di parole che la penetravano. Lontana dagli ambienti altolocati frequentati dal padre e dalla madre – una donna di famiglia aristocratica, colta e intelligente, ma succube del marito. 

Lei, che ai salotti borghesi aveva sempre preferito i campi della pianura lombarda e la natura incontaminata di Pasturo, un paesino della Valsassina frequentato fin dall'infanzia, tra “le mie mamme montagne”.

È lì che Antonia si ritira, lì che scrive gran parte delle sue poesie, “per un'ebbra ed inconscia frenesia di contatti selvaggi con la terra”. 

La natura è per lei il principale rifugio, il ritorno alla gioia dell'infanzia – quando ancora “il cuore ha il colore delle genzianelle” – prima che l'angoscia sopraggiunga, prima che “una malinconia lacerata e inavvertita” – come scrive di lei Eugenio Borgna – le faccia esplodere in petto quel taedium vitae che non l'abbandonerà più. 

 

 

Le montagne, soprattutto, dalle bianche Grigne a quel Cervino che sta “di contro alla notte come un asceta assorto in preghiera”. Tra rocce e nevai, torrenti e burroni, alberi e rovi. Nella natura selvaggia Antonia tenta di pacificare il suo tormento, aprendo un dialogo tra se stessa e il mondo, respirando le sue ferite nell'aria rarefatta delle cime innevate.

 

Sulla parete strapiombante, ho scorto
una chiazza rossastra ed ho creduto
che fosse sangue: erano licheni
piatti ed innocui. Ma io ne ho tremato.
Eppure, folle lampo di tripudio
e saettante verità sarebbero
un volo e un urto ed un vermiglio spruzzo
di vero sangue. Sì, bello morire,
quando la nostra giovinezza arranca
su per la roccia, a conquistare l'alto.
Bello cadere, quando nervi e carne,
pazzi di forza, voglion farsi anima;
quando, dal fondo d'una fenditura,
il cielo terso pare un'imparziale
mano che benedica e i picchi, intorno,
quasi obbedienti a una consegna arcana,
vegliano irrigiditi. Sulle vette,
quando la brezza che ci sfiora è l'alito
di vite arcane riarse di purezza
ed il sole è un amore che consuma
e, a mezza rupe, migrano le nubi
sopra le valli, rivelando a squarci,
con riflessi di sogno, la pensosa
nudità della terra, allora bello
sopra un masso schiantarsi e luminosa,
certa vita la morte, se non mente
chi dice che qui Dio non è lontano.

 

Una natura che la conforta, ma che al tempo stesso le fa sentire tutta la sua finitezza, in rapporto a un Dio in cui non riesce a credere, a un infinito troppo grande da abbracciare. 

 

“Il mio disordine. È in questo: che ogni cosa per me è una ferita attraverso cui la mia personalità vorrebbe sgorgare per donarsi. Ma donarsi è un atto di vita che implica una realtà effettiva al di là di noi: e invece ogni cosa che mi chiama ha realtà soltanto attraverso i miei occhi e, cercando di uscire da me, di risolvere in quella i miei limiti, me la trovo davanti diversa e ostile”. 

Vorrebbe uscire dalla sua pelle ed essere puro spirito, e invece resta “lì, muta, come se avessi ai miei piedi il mio corpo lacerato e potessi guardarlo”. Si sente come il Tonio Kröger di Thomas Mann, in un contrasto irrisolvibile tra Geist e Leben, tra arte e vita. Scrive, in una lettera del '35: “io sono adesso come Tonio Kröger nella tempesta, sono appena uscita alla riva, vivo ancora di atti che non so tradurre in parole. Forse – chissà, l'età delle parole è finita per sempre”.

Un altro tonfo, un altro non, quello delle parole che non salvano, che non colmano il vuoto, che non saturano la malinconia. Una spaccatura troppo netta tra il mondo là fuori – quello della borghesia, della guerra imminente, del razionalismo universitario – e quello che si agita dentro di lei. 

Come Tonio Kröger, “ha voluto mostrare a costo di che sangue ci si fa chiamare poeti: e l'errore di chi crede che si possa – cogliere una fogliolina sola dell'alloro dell'arte – sans la payer de sa vie”.

Con la vita Antonia ha pagato il prezzo della sua voce, delle sue parole, materiche e viscerali, quel suo “bruciare le sillabe nello spazio bianco della pagina” – come diceva di lei Eugenio Montale, uno dei pochi intellettuali dell'epoca ad aver colto il suo valore. 

 

Gli ultimi mesi di vita di Antonia sono un groviglio di emozioni contrastanti e immagini allucinatorie. Quella di un angelo, soprattutto, che la prende per mano, lassù, tra le montagne, mentre lei si sente “come un velo d'acqua sospeso su di un masso in mezzo alla cascata, che aspetta di precipitare ancora”. È lì, a Pasturo, che, nella lettera di addio scritta ai genitori, chiede di essere sepolta, “sotto un masso della Grigna, fra cespi di rododendro”. “Mi ritroverete in tutti i fossi che ho tanto amato”, aggiunge, “e non piangete, perché ora io sono in pace”.

Qualcosa di Antonia è rimasto tra quelle cime, in quella casa – dove ora si trova l'Archivio Pozzi, in cui sono custodite le memorie della poetessa e molte delle fotografie da lei scattate. 

Mi piace pensarla ancora lì, “In riva alla vita” come è sempre stata e come scrive in una splendida poesia del '31 – che si può trovare, come la maggior parte dei testi di cui ho qui riportato dei frammenti, nella raccolta Poesia che mi guardi (a cura di Graziella Bernabò e Onorina Dino, Luca Sossella Editore).

 

Ritorno per la strada consueta,
alla solita ora,
sotto un cielo invernale senza rondini,
un cielo d’oro ancora senza stelle.
Grava sopra le palpebre l’ombra
come una lunga mano velata
e i passi in lento abbandono s’attardano,
tanto nota è la via
e deserta
e silente.
Scattano due bambini
da un buio andito
agitando le braccia:
l’ombra sobbalza
striata da un tremulo volo
di chiare stelle filanti.
Gridano le campane,
gridano tutte
per improvviso risveglio,
gridano per arcana meraviglia,
come a un annuncio divino:
l’anima si spalanca
con le pupille
in un balzo di vita.
Sostano i bimbi
con le mani unite
ed io sosto
per non calpestare
le pallide stelle filanti
abbandonate in mezzo alla via.
Sostano i bimbi cantando
con la gracile voce
il canto alto delle campane: ed io sosto
pensandomi ferma stasera
in riva alla vita
come un cespo di giunchi
che tremi
presso un’acqua in cammino.

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