Speciale
Ti scrivo. Martiri e santi
Caro Pier Paolo (perché ti chiami così non lo so, ma è la formula che mi viene istintiva),
ciò che mi lega e mi legherà per sempre a te è l’amore. Ma non l’amore per te. E un numero spropositato di quei ricordi che nei decenni risultano indelebili, dunque passaggi cruciali della vita, nitidi in ogni dettaglio, fisico ed emotivo, come si trattasse di cose successe poche ore fa.
Per esempio, avevo solo 11 anni quando un giovane prete che amavo e che mi amava – ma nessuno dei due ha mai trovato il coraggio – mi ha parlato del Vangelo secondo Matteo, che io avrei visto solo molti anni dopo. Un film che lo aveva turbato, venendo da un non credente e da uno come te, “uno di quelli”. Ancora adesso ricordo con assoluta esattezza le sue parole, e dove eravamo, e la sua emozione, e la mia, e che luce c’era quel giorno in piazza, e tutto il resto. Il film mi importava solo perché era stato significativo per lui, per il mio amico prete, e perché me ne aveva reso partecipe, io, un bambino che si sentiva già grande e non lo era, ma credeva di esserlo ancora di più poiché un grande gli parlava come si parla solo a un grande, affidandogli i suoi tormenti, da pari a pari.
Avevo 16 anni l’unica volta che ti ho visto di persona, e il cuore mi batteva forte, come avessi davanti a me una mitica rock star. Nel buio di un cinema della mia città, che per un poco era stata anche la tua (ma lo avrei scoperto solo molto più tardi), alla proiezione pomeridiana, per le scuole, di Medea. Avevo visto la porticina laterale del cinema aprirsi e, in quel varco di luce, i tuoi occhiali neri, mentre entravi, a film appena iniziato, e ti sedevi in prima fila. Poi, per tutta la proiezione, un occhio allo schermo, uno alla tua nuca.
Avevo 21 anni quando ti hanno massacrato. E ricordo lo sgomento, quella giornata livida, mio padre così sconvolto da non riuscire a pronunciare la frase che mi ripeteva sempre. Farai quella fine lì. E che non gli uscissero le parole me la rendeva per la prima volta concreta, possibile, minacciosa, mentre impietriti guardavamo il telegiornale. All’ora di pranzo di quella domenica maledetta domenica.
Avevo 22 anni quando un altro ragazzo amato – conosciuto per misteriose coincidenze un paio di anni prima, davanti alla casa della mia infanzia, nella pianura reggiana – mi ha accompagnato al cimitero di Casarsa a visitare la tua tomba, perché lui, il mio amico, abitava a pochi chilometri da lì, uno di quei ragazzi friulani che avresti amato moltissimo anche tu.
Avevo già 23 anni quando ho litigato con Laura Betti, una sera, al termine di un dibattito su di te nella più famosa sala convegni sempre della mia città che ora non c’è più (la sala convegni, non la città). Non ricordo i motivi esatti del litigio, ma so che mi aveva fatto incazzare una bestialità che lei aveva detto sull’omosessualità, ed era stata probabilmente la prima delle infinite polemiche sull’argomento che avrebbero caratterizzato poi tutta la mia vita. Si era formato un crocchio numeroso e lei mi aveva chiesto, a bruciapelo, a voce alta (sapete come parlava Laura Betti) se ero omosessuale. Io avevo risposto di no, dandole l’estro di zittirmi. Ma io l’avevo detto solo agli amici fino a quel momento. Quella viltà mi era pesata subito in modo insopportabile, avrei dato un braccio per poter riavvolgere il nastro e rispondere di sì, ma il treno era irrimediabilmente passato. Mi porto dentro e addosso quella vergogna ancora oggi senza pietà per me stesso.
Poesie in forma di rosa è stato uno dei primissimi libri che ho comprato con i miei soldi, e ricordo anche quell’emozione, e dove l’ho letto, ma era stata più l’emozione di uno dei primi delle migliaia di libri scelti solo da me, più che quelle poesie che avevo dovuto onestamente ammettere non mi erano piaciute o forse non le avevo capite. I romanzi di più, ma senza passione. E dei film, Medea, certo, ma molto di più Canterbury, Il fiore delle mille e una notte, Decameron, poi – ma tu eri morto e io ero entrato in una fase diversissima della mia vita – Salò. Ma l’emozione più grande, ancora oggi insuperata, quasi intatta, resta Teorema. Il libro e il film, il film e il libro, che nessuno cita mai.
E adesso dovrei dire di Roma, di Pietralata, e della “Lettera a Gennariello”, e di Comizi d’amore, e perfino del mio rapporto incredibile con Piero Ottone, lo stesso Ottone che ti aveva portato, con scandalo, sulla prima pagina del Corriere della sera. Ma vi sarete stancati, e anch’io. Tu no, perché sei morto e non credo – salvo sorprese – potrai leggere questa mia.
Tutto questo per dire che la tua omosessualità pubblica è ciò che più ha segnato la mia adolescenza e la prima giovinezza. Più della tua opera di sicuro, che è arrivata dopo, per me.
E che questo è del tutto comprensibile ma anche molto paradossale se penso che tu – che hai ancora tantissimo da dire su tanto, che sei stato profetico e acuto e anticonformista – tu, sull’omosessualità, oggi come quarant’anni fa, non hai da dire nulla. Su questo argomento non sei mai riuscito a esercitare la tua spietata e originale lucidità analitica, quella stessa che ti contraddistingueva su quasi tutto il resto. Dell’omosessualità avevi una visione stereotipata, ingenua, arcaica, superficiale e acritica. Nonostante le grandi differenze che sarebbe facile elencare, la pensavi esattamente come gli intellettuali e gli artisti del tuo tempo, che su questo decisamente non hanno mai brillato e non brillano, anzi: un Paolo Poli (classe 1929, tu eri del 1922), uno Zeffirelli (1923), un Naldini (1929), per dire, e poco prima – ma sulla stessa linea – Saba (1883), Comisso (1895), De Pisis (1896). Sull’omosessualità, il provincialismo italiano aveva trovato terreno fertile, incredibilmente, anche dentro di te. E non mi è facile scusarti, perché non era così obbligatorio. Appena fuori dall’Italietta, altri scrittori coetanei illustri, negli stessi anni – Christopher Isherwood (1904), Edgar Morgan Forster (1879), Wystan Auden (1907), per citarne solo tre, notissimi – scrivevano e “cantavano” i loro matrimoni gay, vissuti o sognati. Del tutto simili a quelli di oggi, e con il linguaggio già della “modernità”. Lo dico senza il minimo moralismo, non sto contrapponendo un “meglio” – il modello eterosessuale applicato all’amore e alle coppie e alle famiglie gay – a un “peggio”. Ancora meno sto difendendo la fedeltà coniugale rispetto alla “promiscuità” (che parola sciocca). Anzi, una delle tue frasi più belle per me è sempre stata quel grido vitale e insieme straziante sono migliaia non posso amarne uno, in cui non ho mai visto – a differenza di quasi tutti i tuoi numerosi e non richiesti psicoanalisti in vita e in morte – ossessione o compulsività, ma golosità del sesso e della bellezza, la nostra “naturale” capacità di desiderare e amare molto e molte persone, a dispetto di una monogamia così “innaturale” che praticamente nessuno si sogna di osservare. Questa frase ti riscatta ai miei occhi, ma sull’omosessualità eri vecchio banale arcaico.
Però, caro Pier Paolo, fregatene. Tra l’altro, hai pagato la tua ignoranza solo tu. Sei stato geniale in tante cose, pazienza se su una, per quanto importante – soprattutto per te, nella tua vita e riverberata nella tua opera (discorso lungo, che vorrei riprendere, un giorno) – hai scazzato.
Solo per i cattolici un martire è anche automaticamente un santo. Noi possiamo averti come martire senza l’obbligo di santificarti.
Questo testo fa parte del contributo che doppiozero ha scelto di realizzare, articolato in tre parti - interviste, poesie, lettere - in occasione delle celebrazioni promosse dal Comune di Bologna, dalla Fondazione Cineteca di Bologna, e all’interno del progetto speciale per il quarantennale della morte, che si articola in un vasto e ricco programma d’iniziative nella città dove Pasolini è nato e ha studiato.