Bologna, Milano, Torino, Roma, Parma, Cagliari, Andria e Livorno / I repertori dei matti (III)
Il repertorio dei matti di Cagliari lo abbiamo fatto grazie all’aiuto di Sardinia Post, e il direttore di Sardinia Post, Giomaria Bellu, quando ha letto il libro, ha detto che ci ha trovato dentro il tipico umorismo cagliaritano, che è una cosa che a me è piaciuta anche perché il tipico umorismo cagliaritano io non sono capace di distinguerlo dal tipico umorismo di Sassari, o di Nuoro, o di Olbia, ma credo che abbia ragione Bellu, e giudicate voi:
Uno era il marito della figlia della sorella della moglie del cugino di Virgilio Savona, quello del quartetto Cetra. Lo diceva a tutti.
Uno era il presidente della Regione.
Appena eletto, parlando delle quattro province della Sardegna, aveva detto 'Le nostre undici amministrazioni provinciali'. Aveva copiato così com'era il discorso di insediamento del Presidente della Regione Lombardia.
Uno partecipava a tutti i funerali. In cimitero, si avvicinava alla vedova (o al vedovo), la abbracciava e le diceva “Non ci sono parole, non ci sono parole, non ci sono parole”. Poi si avvicinava al figlio (o alla figlia) del morto, lo abbracciava e gli diceva “Non ci sono parole, non ci sono parole, non ci sono parole”. Poi si avvicinava alla sorella (o al fratello) del morto, la abbracciava e le diceva “Non ci sono parole, non ci sono parole, non ci sono parole”.
Uno era un uomo che per tutta la vita aveva fatto l'autista dell'arst, quando mangiava era solito guardare il Tg Regione e tutti i giorni c'era un momento in cui lui fermava il chiacchiericcio dei familiari a tavola e, poggiando con decisione le mani sul tavolo “Schh!! silenzio”, poi si alzava per sentire meglio. Tutti stavano zitti e lui diceva “questa la conosco, l'ho accompagnata a scuola per cinque anni” oppure “questa lavora all'ospedale di Nuoro, prendeva il pullman delle cinque e un quarto, sempre in ritardo” o ancora “il figlio di questa rubava il rame dai cantieri, me l'ha raccontato una volta in confidenza, ma non ditene a nessuno”. Tutti i giorni mentre guardava il Tg3 riconosceva qualcuno. Tutti i giorni. A volte anche più di uno. Era convinto di aver accompagnato mezza Sardegna.
C'erano due, marito e moglie.
Non avevano figli e non avevano amici. Passavano la settimana a lavorare, ma la domenica mattina indossavano il vestito bello, mettevano musica degli anni Quaranta sul giradischi e ballavano insieme nel salotto di casa.
Uno girava per Is Mirrionis e i gruppi di ragazzini lo temevano. Si dicevano tra loro “se lo chiami Pizzaiola si incazza” e “marrano (ti sfido) a chiamarlo Pizzaiola”. E allora di tanto in tanto decidevano di sfidare il destino e, armandosi di coraggio, quando lo vedevano in lontananza gli gridavano “o Pizzaiolaaa”. E gridare e cominciare a correre era tutt’uno, perché Pizzaiola tirava fuori il coltello e si dava all’inseguimento dei ragazzini biascicando parole di vendetta.
Uno era emigrato per qualche mese in Germania negli anni sessanta. Di quell'esperienza raccontava solo che era stato a Berlino e aveva saltato il muro, passando alla parte orientale, perché lui voleva vivere in un regime socialista, diceva. Era stato arrestato e dopo pochi giorni espulso, raccontava. “Avevano ragione loro”, diceva. “Come facevano a sapere che non ero una spia?”
Uno era diventato famoso per la quantità di cibo che era in grado di mangiare, si chiamava Gnassinu e se ne andava in giro in compagnia dei suoi due fratelli. Gnassinu e i suoi fratelli da bambini avevano conosciuto la miseria, così una volta diventati grandi e avendo lavorato sodo tutta la vita, spendevano quel che guadagnavano in cibo. Una volta li videro alla festa di santa Rega a Decimo mangiarsi 100 muggini in 3. Ma Gnassinu nel bel mezzo del record si mise a piangere, mangiava e piangeva, e quando gli chiesero perché piangesse rispose semplicemente così: “non m'acudint is barras” (“le guance non sono abbastanza capienti e veloci per far spazio a quel che mangerei ancora”).
Uno era quello che pisciava nella lettiera del gatto per dimostrargli che era lui il capobranco.
C’era uno che un giorno stava cagando, quando aveva cominciato ad uscirgli della roba bianca dal culo. “Sembravano le pappardelle Barilla”, raccontava. Allora aveva pensato fossero le sue budella, l’intestino magari, ma non si era preoccupato più di tanto. Stava sempre lì sul cesso quando gli era venuto in mente che però senza intestino non si può mica vivere, e che dunque era bene non perdere le frattaglie. Con calma e coraggio, utilizzando il pollice della mano destra, aveva allora rinfilato tutta quella roba bianca, che era in realtà una tenia, da dove era venuta.
Uno era Manlio Scopigno, detto il filosofo. Allenava il Cagliari più forte di sempre. Parlare parlava poco, agli allenamenti si appoggiava a un palo e guardava Cera che tirava il gruppo. Se pioveva, spesso, la seduta saltava e tornavano tutti negli spogliatoi. Durante una trasferta in una Bologna nevosa e gelida, la rifinitura si svolse nei corridoi dell’albergo. Non tutti i giocatori però, solo quelli che avrebbero dovuto correre di più. “Che senso ha prendersi un’influenza?”, aveva detto. Quel Cagliari non faceva ritiri, perché è “una cosa che fanno le squadre che stanno per retrocedere, e poi retrocedono lo stesso”.
Parlare parlava poco, ma ogni frase era una sentenza. Come quella volta che un giornalista, alla fine di una certa partita, gli chiese se fosse rigore o no, quel certo intervento. “Chiedetelo al pallone”, gli aveva risposto Scopigno. O come quella volta ad Asiago, durante un precampionato estivo, quando entrò nella stanza di Riva, grande fumatore, e ci trovò Albertosi, grande fumatore, e un altro paio di loro. Sul tavolo era apparecchiata una partita di poker e qualche bicchiere di troppo. Nell’aria una spessa coltre di fumo bianco. Il filosofo, grande fumatore, si accomoda e dice: “Do fastidio se fumo?”. In cinque minuti erano tutti a letto.
Parlare parlava poco, tanto che Zignoli raccontò: “In due anni ha detto, a me e Niccolai, una sola volta ‘Mi siete piaciuti’. E avevamo pure perso”. Parlare parlava poco, ma il 15 dicembre del 1969, nella stagione dello scudetto, aveva parlato con il guardalinee, durante una trasferta a Palermo. Gli aveva suggerito, pare, di infilarsela da qualche parte, la bandierina. Fu squalificato per 5 mesi.
Scopigno era un grande fumatore, tanto che a carriera finita scriveva velenosi corsivi sulle pagine del Giorno, con lo pseudonimo di “Senza Filtro”, ma aveva anche una discreta passione per il whisky. Nell’estate del ’67 il Cagliari, come altre squadre europee e sudamericane, finì negli Stati Uniti a disputare il campionato americano organizzato dalla United Soccer Association, con il nome di Chicago Mustangs. I giocatori chiesero un aumento, il filosofo stava dalla loro parte e i rapporti con la dirigenza si incrinarono.
Poi a Chicago l’ambasciata italiana diede un ricevimento, una festa ingessata e borghese. Solo con un po’ di whisky si poteva arrivare sino in fondo. E forse neanche con quello, se è vero che Scopigno, che era uno che parlare parlava poco, chiese alla padrona di casa dove fosse il bagno. Quella scherzando indicò il giardino, lui senza scherzi pisciò sopra un cespuglio. L’eco di quel getto di urina sui rami secchi arrivò sino in Sardegna, e al ritorno dall’America il filosofo fu esonerato.
Tornò sulla panchina del Cagliari un anno più tardi, per riprendere doveva aveva interrotto, per arrivare secondo nel ’69, dietro la Fiorentina, e primo nel ’70, davanti a tutti. È stato il primo allenatore a portare lo scudetto nel Sud. Oltre a lui solo Bianchi e Bigon, con il Napoli di Maradona.
Parlare parlava poco, Scopigno, come quella volta che c’era tutto il suo Cagliari alla Domenica Sportiva, il 19 aprile del 1970, e Lello Bersani disse: “Come avete visto, abbiamo i campioni d’Italia”, e poi, rivolto a Scopigno: “Dunque Scopigno di lei hanno detto: lo scettico blu, l’enigmatico, il filosofo, il sornione, lo squalificato. Ma insomma Scopigno, lei chi è? Come si può definire?”.
“Uno che c’ha sonno, in questo momento”.
Uno se ne andava in giro per Gonnosfanadiga vestito da Batman. Fermava le persone e chiedeva “Avete bisogno di aiuto?”.
Uno che abitava in un paese della provincia di Cagliari, disse a un compaesano che scendeva in città di fargli la cortesia di scattargli delle fototessere perché doveva rinnovare la carta d'identità.
Uno aveva lavorato all'Enel, e quando lavorava all'Enel era delegato sindacale, e dicevano, ne dicevano tante, dicevano che in una riunione con l'azienda, lui era lì come delegato della CGIL, in una riunione che durava troppo, lui aveva detto che i problemi dell'Enel si risolvevano se l'Italia usciva dal patto atlantico; aveva proposto l'uscita dell'Italia dal patto atlantico, ma la proposta non era stata messa a verbale, e dicevano che l'aveva fatta ma non si sapeva. Si sapeva invece che dall'Enel se ne era poi andato, se ne era andato in continente, e partendo, dalla nave che lasciava Cagliari, si diceva, forse lui stesso diceva di aver detto a sé stesso “Fuggi. Dopo trentaquattro anni ti strappi alla terra dove hai amato, sofferto e fatto il buffone. Ogni angolo di strada testimonia una tua gioia, un dolore, una paura. In cambio sarò libero. La maschera che mi cuciranno addosso, lo straniero, l’isolano, il mendicante, mi nasconderà, occulterà il nome, sarò uomo fra uomini”.
Se ne era andato in continente a tradurre libri, a scrivere libri, ché quando lavorava all'Enel scriveva già nei giornali. Nei libri scriveva di antiche leggende sarde, di giudici banditi, di minatori e cani e addii. Era diventato un traduttore e uno scrittore, uno scrittore sardo dicevano in continente, e una volta era venuto in Sardegna ed era morto. Ma era morto in mare, mica scrivendo. Era morto in mare ma in un vecchio sogno “arrivava in riva, guardava il mare, si chiedeva: “Lo attraverso?” e rispondeva: “No. È troppo largo”.”
Uno aveva scritto alla casa editrice e, per conoscenza, al curatore del Repertorio dei matti della città di Cagliari, lamentando che le espressioni in sardo contenute nel suddetto repertorio non rispondevano ai criteri del sardo uniformato ai sensi della Legge 15 Dicembre 1999, n. 482 "Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche " pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 297 del 20 dicembre 1999.
Gli riposero che:
1. si erano posti il problema;
2. avevano chiesto un parere al Comitato dei matti di Cagliari in data 11 luglio 2015;
3. il portavoce del Comitato aveva risposto che i matti, in quanto tali, non potevano essere uniformati.
Poi abbiamo fatto il Repertorio dei matti della città di Parma, che per me è strano perché a Parma ci sono nato e ci ho vissuto trent’anni, è un libro un po’ diverso dagli altri perché i parmigiani per me son della gente speciale io mi ricordo per esempio la delinquenza, l’impressione che avevo quando ero piccolo che abitavo a Parma era che non ce n’era, di delinquenza, a Parma, negli anni sessanta e negli anni settanta quando io ero piccolo.
Cioè magari c’era, ma io, a me sembrava che anche se c’era, era una delinquenza particolare, parmigiana, il che un po’ cambiava le cose e mi sembra così ancora adesso, devo dire. Non so, per esempio, uno che uccide i suoi genitori, l’ho anche già scritta da un’altra parte, questa cosa, uno che uccide i suoi genitori, per esempio, se è uno di Parma, io il primo pensiero che ho “Si vede che gli avevan fatto qualcosa”, mi vien da pensare.
Comunque il Repertorio dei matti della città di Parma poi alla fine l’abbiamo fatto (al circolo di lettura e conversazione) e alcuni dei matti parmigiani son questi qua:
Uno faceva la dieta dei Ciocorì. Calcolava le calorie giornaliere e le convertiva in Ciocorì.
Una era fissata con la cronaca nera. Andava in pellegrinaggio in tutte le città dove c’erano stati degli omicidi. Era stata a Cogne, a Erba, a Novi Ligure, a Garlasco. Non si capacitava del fatto di non essere ancora passata davanti alla casa dei Carretta e diceva che chissà perché le cose interessanti della tua città capita sempre che sono le ultime che vai a visitare.
Uno, durante un pubblico discorso, ha detto: “Come ad Atene hanno il Partenone, noi a Parma abbiamo il teatro Regio”
Una è andata dal ginecologo che aveva paura di essere incinta, il dottore le ha detto di spogliarsi, poi l’ha visitata e l’ha fatta rivestire, “Ma lei ha rapporti sessuali?” le ha chiesto il dottore. “No”, ha risposto lei, poi ha aggiunto che era anche in menopausa.
Uno si chiamava Vasco, era molto cattolico e non aveva il suo onomastico; questo fatto lo infastidiva parecchio e una volta aveva addirittura scritto al Papa per far presente la questione: prima di inviarla l’aveva letta ai suoi amici per una conferma che le sue richieste fossero scritte in modo corretto: la lettera faceva così: Egregio signor Papa, Vi scrivo perché non trovo che sia tanto cristiano il fatto che alcuni abbiano il proprio nome che è quello di un santo e altri come me invece no; Vi chiedo se è possibile aggiungere i nomi di quelli mancanti anche nello stesso giorno di quelli che già ci sono; avete già tante coppie di santi: oltre ai nomi tanto usati come Pietro e Paolo che sono il 29 giugno, avete fatto anche coppie con nomi poco usati come Timoteo e Tito il 26 gennaio, Giuliano e Euno il 27 febbraio, Rufina e Seconda il 10 luglio, Nazario e Celso il 28 luglio, Proto e Giacinto l’11 settembre, Dionisio e Redento il 29 novembre; sono tutti nomi di santi molto belli ma di persone con questi nomi io non ne conosco nemmeno una, tranne Giuliano che è il mio barbiere; però è giusto che abbiano il loro santo sul calendario, ma allora anche quelli come me o come la mia amica Jessica devono avere il loro santo da festeggiare e pregare; so che adesso siete più attento ai giovani e volete fare la chiesa più moderna e secondo me dovete partire dai nomi dei santi: Vasco e Jessica ci stanno benissimo come nuovi santi magari ne potete parlare nella prossima riunione lì in Vaticano; aspetto una vostra risposta, se non avete tempo di scrivere perché dovete fare tante cose, me la potete anche dire dalla finestra di San Pietro alla domenica, io vi seguo sempre in televisione e sarei tanto felice se Voi poteste fare un santo anche per me e la mia amica Jessica.
Uno, che era il figlio di Tonino di Borgo della Posta, si perdeva sempre nelle vie del centro. Via Farini, Borgo Maestri, Borgo Giacomo Tommasini, Borgo Retto, per lui erano un labirinto di strade dalle quali non riusciva ad uscire e si vergognava a chiedere aiuto. Aveva escogitato un sistema. Se trascorsa una mezz’ora non veniva a capo della soluzione, fermava qualcuno per strada e con voce ferma e sicura chiedeva “Excuse me, where is via Farini?” calcando l’accento inglese. Chiunque incontrasse si dava da fare per dare al meglio le indicazioni da lui richieste. Solo una volta gli era capitato che un passante mentre gli stava rispondendo lo guardò bene e gli chiese se lui per caso non fosse il figlio di Tonino di Borgo della Posta.
Uno andava sempre nel bar che c’è all’angolo tra Borgo Regale e Via XXII Luglio, aveva sempre gli occhiali neri e un grosso cappello in testa. Era vecchio e al bar ci arrivava abbracciato alla badante che lo lasciava lì prima di andare a fare la spesa, arrivava e si sedeva e la badante gli diceva, vado a fare la spesa, e lui rispondeva, aaahhhh perché non riusciva più mica tanto a parlare, ordinava un bicchiere di lambrusco che beveva con una cannuccia e restava lì a guardare chi entrava e chi usciva e ogni tanto diceva aaahhhhh, però quando nel bar entrava una donna diceva, che bel culo.
Uno attaccava i manifesti funebri e non sapeva leggere. Si orientava con le ‘i’ che quando c’erano era tranquillo e bastava attaccare i manifesti con il puntino verso l’alto. Se non c’erano era un problema.
Uno era un direttore d’orchestra, nato vicino al parco ducale. Era uno che, per dire, quando venne nominato senatore a vita rispose al presidente della repubblica con un telegramma con scritto “no, grazie”. Raggiunta la fama, si era trasferito in America, e i teatri facevano a gara per averlo; i musicisti un po’ meno, dato che era solito rivolgersi loro dicendo: “look at me, teste di cazzo”.
C’era uno che diceva: se ho un figlio lo chiamo Leone, se ho un figlio lo chiamo Orso, se ho un figlio lo chiamo Lupo; poi figli non ne ha avuti, ha comprato un cane e l’ha chiamato Arturo
Uno che era assessore aveva proposto di cambiare il nome del parco Falcone-Borsellino in parco Sandra-Raimondo.
Uno era il registro nascite di Noceto alla fine dell’800: Numitore, Mamollina, Donutilla, Pudenziana, Prescilla, Arisalda, Cirtemio, Ambellina, Cimbro, Illuminato, Ormisda, Leovigildo, Edelgilda, Debolina, Iperide, Ermanegilda, Acquillina, Migialdo, Aga, Gliceria, Crealdo, Alpinolo, Clineide, Plautilla, Elrben, Beroe, Moella, Servidio, Agapito, Fiovo, Cilideo, Midia, Eroteide, Damaso, Artemisca, Rechilde, Anella, Frosina, Venezio, Zelinda, Bellina, Effrosina, Delelmo, Esilde, Mirteo, Orma, Deborina, Argia, Sperindio, Gilio, Filigenio, Dimma, Primitiva, Teore, Orelia, Argemiro, Siviero, Azor, Odilia, Gilva, Sidonia, Imeria, Tisba, Bacio, Vetruglio, Caronte, Melibeo, Terredo, Paldemina, Leoncina, Aneide, Fauno, Corizio, Roldo.
Una volta, in serie B, c’era la partita Pescara – Parma, gli ultras del Pescara avevano fatto un coro: «Solo i prosciutti, avete solo i prosciutti. Solo i prosciutti, avete solo i prosciutti».
E gli ultras del Parma avevano aspettato un po’ poi avevan risposto «Anche i formaggi, abbiamo anche i formaggi. Anche i formaggi, abbiamo anche i formaggi».
Uno, che non era di Parma ma aveva vissuto molti anni a Parma e aveva scritto «Ho vissuto molti anni a Parma, molti mi credono di Parma e talvolta anch’io, mi credo di Parma», aveva scritto anche una raccolta di poesie che si intitolava Stricars int’na parola (Stringersi in una parola), dove c’era la dimostrazione e la confutazione dell’esistenza di Dio: la dimostrazione in una poesia che si intitolava Dio e cominciava così: «Dio c’è. / Se c’è la figa c’è. / Solo lui poteva inventare una cosa così, / che piace a tutti a tutti / in ogni luogo, / ci pensiamo anche se non ci pensi / appena tu la tocchi cambi faccia», e la confutazione in una poesia che si intitolava Forse e faceva così: «Forse l’emozione / più grande della mia vita / è stata una notte, / c’era un’afa, / un fermo, / come prima del terremoto, / Dio entrò nella mia camera / impalpabilmente / e mi disse a te / solo a te faccio sapere / che non esisto».
[Il repertorio dei matti della città di Cagliari è stato scritto da Antonio Boggio, Alberto Bocchetta, Chiara Saiu, Bachisio Bachis, Roberta Mele, Vanessa Aroff Podda, Mauro Tetti, Gianni Zanata, Giorgia Pittau, Francesca Mulas, Carola Farci, Daniele Ortu e Nicola Muscas.
Il repertorio dei matti della città di Parma è stato scritto da Michela Alessandrini, Giorgio Ambanelli, Caterina Bonetti, Alessandro Cimaglia, Roberto Camurri, Giovanna Cattabiani, Caterina Dacci, Elisabetta Dacci, Svetlana Erokhina, Matteo Ferrari, Marisa Lanzerotti, Francesca Laurieri, Guido Moreschi, Carlotta Varga e Elisa Vignali.]