Dizionario Meneghello / Amaluàmen

2 Marzo 2022

Libera nos amaluàmen: queste parole sono l'inizio, il centro e anche la fine di un libro che riassume tutti gli altri di Luigi Meneghello. Tutto parte dal titolo: Libera nos a Malo, dove Malo si intende il paese-parrocchia in provincia di Vicenza in cui lo scrittore da bambino ha vissuto prima della seconda guerra per diventare poi un buon soldato poi un bravo partigiano, e infine scrittore e professore a Reading, nella contea di Berkshire del Regno Unito.

Sappiamo che nella maggior preghiera del cristiano, questa è la conclusione del Padrenostro in latino: Ne nos inducat in tentationem: sed libera nos a Malo. Amen" (non indurci in tentazione, ma liberaci dal male. Così sia). Ora il Padrenostro è la preghiera che nella tradizione è stata detta per la prima volta da Cristo a suo Padre, e tradotta in greco e in latino nei Vulgata di un gran padre della chiesa: San Girolamo, sempre rappresentato con una pietra a battersi il petto e una berretta da cardinale ai piedi, in mezzo a un deserto infernale. 

 

Ma nella pratica quotidiana bisogna pensare che le parole del Padrenostro erano recitate in fretta, in un latino maccheronico, nelle messe, nei rosari, nelle funzioni religiose… in una qualsiasi chiesa del Veneto, molto prima che fosse chiamato Nordest. Periodo recente nel quale Malo diventò la capitale del Kashmir. Infatti questa originaria piccola civiltà parrocchial-dialettale raccontata da Meneghello era destinata a diventare un “treno” della manifattura italiana. 

Tutto era nato dalla volontà ferrea di un parroco di campagna, vescovo, patriarca e papa di nome Bepi Sarto, diventato Pio X. Santo al quale si deve il Catechismo di Pio Ics (1905), che si chiamava semplicemente Dottrina nella quale c'erano e ci sono dei capolavori di sintesi di teologia e di palar schietto. Con Domanda & Risposta che si dovevano più che “far capire” Imparare, cioè Sapere a Memoria – sostiene Meneghello (p. 269). Es. D. Chi è Dio? R. Il Creatore, il Padrone del Cielo e della Terra. – D. Perché Creatore del Cielo e della terra? R. Perché Dio ha fatto dal niente il Cielo e la Terra. – D. Che cosa vuol dire creare? R. Far dal niente. – D. Chi (adunque) ci ha creato? R. Iddio. 

 

Il termine Padrone fortemente voluto da Pio X fu mutato in Signore, dopo le insistenze serrate del suo segretario Rafael Merry del Val. Ora nel territorio vicentino non si aveva ancora cognizione di ciò che sarebbero stati i nuovi padroni rispetto alla nobiltà terriera veneta già in estinzione. Le industrie dei Rossi e dei Marzotto tra Schio e Valdagno, non andavano certo nella direzione di un nuovo potere temporale del papa, come proposto dalla sacra Trimurti dei tre fratelli monsignori Scotton che entrano, anche con incarichi politici nella realtà locale, in feroce contrasto dei terrieri e dello stato liberal-massonico. Il “buon padrone”, quindi “buon pastore” quale il papa, con i suoi vescovi, era necessario si mettesse a capo di un popolo di contadini e di mezzadri. La missione – sostenuta dai terribili monsignori, in ruoli sociali, religiosi e amministravi – stava nel progetto di una bucolica fisiocrazia, contraria alla manifattura e all’industria. Si trattava del modello sociale dell’illuminismo veneto, sostenuto da intellettuali che erano quei parroci che si ostinavano anche a coltivare il cotone e l’indaco nei sagrati delle chiese, ma erano informati di agraria, viticoltura e veterinaria, e possedevano e consultavano i volumi dell’Enciclopedia di Efraimo Chambers. 

 

La domanda chiave del nuovo catechismo: "Chi-c’ha-creato? risponde alla volontà di riconoscere un padrone-signore-pastore. Utopia in sé? – non tanto, se non fosse esplosa, alla morte di papa Sarto, quell’“inutile strage” gridata dal suo successore Benedetto XV. Poi un nuovo Padrone c’è stato: aveva fatto il soldato e il maestro scuola.

Il Catechismo di Pio X fu il sillabario di questa utopia teocratica, ma già al tempo dell’amico Nino di Gigi Meneghello, che per anni e anni aveva recitato senza sapere la formula magica dell’Amaluamen, c'erano già nei paesi molti ragazzotti con tuta blu sporca di grasso e olio che rispondevano alla domanda: Chi c'ha creato? Risposta: Compare Menato. In un mondo che ormai considerava la Dottrina Cristiana, roba da Prima Comunione o da perpetue. Non meno di ora, il Veneto è sempre stato un popolo di forti bestemmiatori cattolicissimi. Alle bestemmie a Dio e alla Madonna (accanto alla venerazione di Sant’ Antonio da Padova) e a tutto ciò che si chiamavano Atti Impuri – altro tema classico di Meneghello – il rimedio era solo la confessione, assoluzione e penitenza con un certo numero di Pater, Ave e Gloria, secondo la gravità dei peccati. 

 

 

In ogni caso Catechismo di San Pio X, rinnovato nella sua edizione illustrata con diapositive, durò almeno fino all’era della televisione. In ogni chiesa si esponevano le tabelle che davano quei giudizi, vincolanti per il buon cristiano, per chi andava al Cinema. Escluso-Proibito- Sconsigliato-Per adulti con riserva-Per adulti-Per tutti con riserva-Per tutti ecc. era il nuovo elenco dell’interdetto visivo. Da non molto, sappiamo però che Pio X aveva cancellato dalle chiese il canto dei Castrati e che nel Tango non ci vedeva nulla di male.

Ritornando a quel fenomenale oggetto di ottima ebanisteria che è il confessionale, agli angoli di ogni singola chiesa, qui avveniva – si è detto – la confessione, assoluzione e penitenza di ciò che Meneghello chiamava Atti Impuri, tra i quali anche il peccato di “parlar male dei preti”. Come era capitato nella coscienza infantile di un ragazzo che non si decideva a confessarsi: per aver detto che i preti sono come “i vermi del tabacco”. I grossi bachi verdi delle foglie del tabacco risultavano una maledizione da ogni punto di vista, per aver la testa che sembrava la coda e la coda la testa, rispetto alla nobiltà dei “cavalieri” – come erano chiamati da sempre i bachi da seta nella Veneta Repubblica.

 

Libera nos a Malo era sicuramente comprensibile anche per chi non sapeva il latino nella formula: “A peste, a fame et bello, libera nos Domine. Il “bello” in sé enigmatico e incomprensibile era come glissato ma percepito come "è bello essere liberati dalla peste e dalla fame”. Ora nel fatidico Libera nos amaluamen, Malo, il paese di Malo e dei suoi abitanti chiamati "Quei de Malo", era del tutto biascicato, per cui il luamen diventava non l’amen finale ma una cosa molto brutta e molto sporca. Luame o leame in lingua veneta significa "letame" che non ha mai avuto connotato positivo sia nello spargere come nel suo luogo preferito come il "luamaro" cioè il "letamaio". Tanto che essere "un luamaro" è una condizione (usata spesso al femminile) di un qualsiasi scalognato lasciatosi andare, fisicamente e moralmente sporco. Per colpa di chi?  Di nessuno.

 

Da qui nasce l’invocazione interpretata come "liberaci da tutto questo letame". Era insieme una preghiera per non cadere dentro a quella palude immonda e galleggiante, di un letamaio: grande come un cortile nel quale fermentano e fumano paglia, sterco di vacca, piscio di animali e umani… dove ogni tanto ci cadeva, e annegava, un bambino appena in grado di camminare in equilibrio sul bordo curvo del vascone infernale. Infatti la disgrazia di “cadute perigliose nei luamari”, di cui parla tragicamente Meneghello, capitava spesso ad un "angioletto". Il che provocava la costernazione di tutto il paese, con una partecipazione di tutti indistintamente al funerale, fino alla sepoltura in un angolo del cimitero: il perimetro di piccole tombe con croci bianche riservato agli “angioletti” che morivano come mosche fino agli anni del dopoguerra, da malattie non ancora sconfitte dai vaccini se non dalla penicillina. 

 

Per una madre, la morte di un bambino caduto nel letamaio era per sé e per gli altri una colpa infamante, redimibile soltanto facendo almeno altri dodici figli.  Ora i letamai non esistono più oppure ritornano tali e quali per gli effetti della coscienza biologica che era nientemeno quella antica, con meno rischi. Ma una caduta da un carro da fieno poteva avere conseguenze molto meno gravi di una caduta da un trattore...

Il riscatto linguistico dall'amarezza e tragedia del luame umano, poteva avvenire solo riandando alle origini della parola, ma solo per chi sapeva il latino come il parroco e il professore di ginnasio che aveva fatto il classico come è stato Meneghello – i quali sapevano anche una cosa ignorata da tutti: che i loro concittadini si chiamano Maladensi, quasi una tribù berbera. Ora Laetamen viene da laetus e per esteso quindi, spargere letame significa “allietare” i campi i quali possono ricacciare nella bella stagione: frutta, grano, granturco ed erbe da mangiare e far magiare alle bestie. Oggi come allora... con o senza il sigillo biologico. 

 

Ma al tempo e nella memoria di Meneghello il luame resta letame, anzi il peggio del letame, con cui conclude una riflessione-chiave del suo libro, che va riportata come un pezzo di scrittura da mettere in cornice (in soàsa) accanto al suo autore (Libera nos a Malo, p. 124).

 

“Libera nos amaluàmen. Non sono molti anni che il mio amico Nino s'è reso conto che non si scrive così Gli pareva una preghiera fondamentale e incredibilmente appropriata. È raro che una preghiera centri così un problema.

Liberaci dal luàme, dalle perigliose cadute nei luamàri, così frequenti per i tuoi figliuoli, e così spiacevoli: liberaci da ciò che il luàme significa, i negri spruzzi della morte, la bocca del leone, il profondo lago!  

Liberaci dalla morte ingrata: del gatto nel sacco che l'uomo sbatte a due mani sul muro, del cane in Piazza a cui la sfera d'acciaio arroventata fuoriesce fumando dal sottopancia, del maiale svenato che urla in cima al cortile, del coniglio muto, del topo di chiavica che stride tra il muro e il portone nel feroce trambusto dei rastrellatori.

Libera Signore i tuoi figli da questo luàme, dalla sudicia porta dell’Inferno!”

Anche nella lingua di Dante (e non più in quella di Virgilio): Letare vuol dire ignobilmente “lordare con sterco”, cioè quello che si dice ora in forma molto diffusa: “Smerdare”. Così si pensa anche se in realtà si scrive “Infangare”. 

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