Sano disaccordo in rete

Nel 1979 Christopher Lasch in una delle pagine del suo libro più noto, La cultura del narcisismo, usò l’espressione «camera dell’eco» per descrivere quella che a suo parere era diventata l’America dopo la diffusione di strumenti di riproduzione come i registratori portatili, le piccole macchine fotografiche, le fotocamere, e in particolare le Polaroid. Lasch vedeva in questi strumenti visivi e sonori delle piccole superfici in cui l’ego delle persone poteva specchiarsi.

 

Sono trascorsi trent’anni e la metafora della «camera dell’eco» torna in un altro saggio, La stanza intelligente di David Weinberger (Codice Edizioni, traduzione italiana di N. Mataldi, pagg. 272, 22,90 euro), dedicato alla conoscenza come proprieta della rete. L’espressione indica i gruppi che nel web contengono solo persone che concordano tra loro, mentre l’idea dell’autore, ricercatore della Harward Law School, è che sia invece proprio la diversità di opinione, la differenza, il confronto e persino lo scontro d’idee e d’interpretazioni, a costituire la ricchezza della rete. Come non dargli ragione? Weinberger è portatore di un’idea d’intelligenza che sintetizza in questo modo: quando la conoscenza entra a far parte di una rete, la persona più intelligente non è quella che tiene la lezione dalla cattedra, e neppure la stessa folla delle persone presenti: «La persona più intelligente nella stanza è la stanza stessa». Detto altrimenti: è la rete che detiene il sapere, quella che unisce le persone e le idee presenti e le collega con quelle situate all’esterno. Il che non significa che la rete sia una specie di supercervello, come Hall di 2001, bensì che la conoscenza stessa sta diventando inseparabile dalla rete medesima; e al contrario se le reti sono “fatte male” possono, rendere penosamente stupidi, come ribadisce in un suo libro assai citato Nicholas Carr (Internet ci rende stupidi? Come la rete sta cambiando il nostro cervello, Cortina) che Weinberger confuta.

 

L’idea da cui muove il ricercatore americano è che stiamo vivendo una radicale crisi della conoscenza: il sapere non sta più nel cranio degli individui, e neppure nelle biblioteche, nei musei, nelle riviste accademiche, nei giornali e nelle pubblicazioni periodiche, bensì nel web che oggi abbraccia imprese, Governi, media, musei, collezioni private e soprattutto menti che comunicano tra di loro. Weinberger è convinto che questa conoscenza sia più incerta, rispetto al passato, e tuttavia più umana. Com’è possibile? Gli esempi che fa sono vari. Prendiamo solo una questione: gli esperti. Nel 1986 dopo l’esplosione della navicella spaziale Challenger il presidente Reagan chiamò a far parte della commissione d’indagine una serie di importanti esperti tra cui Richard Feyman, il geniale fisico. Ora la stessa commissione sarebbe affidata al crowdsourcing della rete (la parola è stata coniata da Jeff Howe su «Wired» nel 2006), ovvero a un pubblico che è allo stesso tempo consumatore e produttore di sapere.

 

Possibile? Sì, dice Weinberger. La vecchia expertise si basava sulle materie, sulle discipline, mentre il sapere della rete è multidirezionale, fondato su nozioni, ma anche intuizioni; in particolare, la rete è connettiva e collega pezzi che sono diversi l’uno dall’altro. In modo entusiastico l’autore di questo libro - una contraddizione? - scrive che la connettività di mille miliardi di differenze ha rivoluzionato l’idea di expertise, e dunque dell’esperto stesso. Così si sono dissolte le varie «Repubbliche delle Lettere», della Fisica, della Matematica, e altre a seguire. L’orizzontalità sta scalzando il sistema piramidale del passato. Oggi il sapere è una ragnatela informe di connessioni dove vivono le espressioni delle idee, non è più patrimonio di un autore solitario che lo trasmette ai suoi lettori.

 

Che fine fa l’autorevolezza? Viene eliminata? No, dice Weinberger, resta un punto fermo. Non appartiene più alle istituzioni in quanto tali, che garantivano la selezione delle persone e delle idee, ma è «definita in termini funzionali», sostiene l’autore, o piuttosto relazionali, come si vede dai molteplici tentativi di costruire dei «motori di reputazione» in grado di stabilire il capitale relazionale degli individui nella rete. Ora le idee possono fare a meno delle pagine rilegate, incalza: «viene fuori che le opere in forma lunga non sono mai abbastanza lunghe». Del resto, i libri sono il punto di arrivo di un lavoro intellettuale volto al passato, mentre nel web il sapere è tutto nel presente, nella conversazione. Stiamo senza dubbio vivendo un momento di grande e sconcertante trasformazione dello statuto del sapere. Nel 1934 nei Cori de La Rocca, Eliot si chiedeva: «Dov’è la sapienza che abbiamo perduto nell’informazione?». Una domanda che risuona attuale anche oggi. Per rispondere non basterà più tornare nostalgicamente ai presocratici, o risalire ai Veda indiani, bisognerà invece cercare nel flusso caotico della Rete. Altra strada non c’è.

 

Questo articolo è il prodotto del lavoro attorno a cheFare, premio per la cultura da 100,000 euro prodotto da doppiozero. È apparso il 30 dicembre 2012 su Domenica de "Il Sole 24 Ore".

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