Riflessioni nel sessantennio della morte dello scrittore / Corrado Alvaro

16 Novembre 2016

L’11 giugno del 1956 moriva a Roma Corrado Alvaro. Era nato a San Luca il 15 aprile 1895. Per Alvaro molto più che per altri autori della prima metà del Novecento, la formula «letteratura e vita» non suona né rituale né inautentica. La scrittura è stata strumento e pratica per una gamma di ruoli e ambiti vastissima: saggista, giornalista, autore di racconti, romanzi, poesie e sceneggiature, memorialista, raffinato traduttore, viaggiatore curioso, responsabile di pagine culturali e con importanti impegni nel mondo editoriale, nel cinema, nella radio, nella critica cinematografica a quella letteraria. In più di trentacinque, Alvaro ha raccontato la vita politica e sociale italiana ed europea; il mondo diviso in blocchi, l’uscita dalla guerra, il passaggio dalla tradizione alla modernità, dalla civiltà agro-pastorale a quella delle macchine. In questo ampio esercizio di scrittura, il paese ha costituito un riferimento costante. Con le sue «memorie del mondo sommerso», Alvaro scrive, così, una peculiare biografia di un paese e del Sud, della «nazione» e dell’Europa. 

 

«Il fatto dell’autobiografia nei libri è da indagare con molta cautela. Quanto a me, mi seccherebbe molto riscrivere quello che ho veduto. A mano a mano che passano gli anni mi distacco sempre più da quella poetica, e siccome sono nell’età dei ricordi e dei ritorni, cerco di ricordare quello che avrebbe potuto accadere, quello che avrei desiderato accadesse».

 

Così leggiamo nelle Note autobiografiche, in Ultimo Diario (1959). Il rapporto tra tradizione e modernità è il nodo cruciale, sofferto e irrisolto di Alvaro, la sua lacerazione, il suo apparire e presentarsi con la «faccia bifronte», a volte dichiarata, a volte segreta, del fascino e dell’attualità della sua scrittura. Il sentimento del crepuscolo e della fine di un mondo affiora in Ritratto di Melusina, uno dei racconti più belli del Novecento italiano. In un «paese abbandonato che si sfascia rapidamente, le piazze e le strade deserte sono amplificate dai meandri che si aprono nelle case crollanti, di dove hanno portato via le porte e le finestre, gli ammattonati e le tegole. Crollano a ogni pioggia, con un polverino minuto, i tetti e i pavimenti nelle cucine e nelle stalle». Una geologia e un’antropologia dell’abbandono colte e descritte in presa diretta con un linguaggio poetico. Il «rapimento» di Melusina da parte di un pittore forestiero, che la trasferisce sulla tela, riflette la distruzione delle comunità tradizionali, l’abbandono dei paesi interni, la discesa lungo le marine, la nascita di paesi doppi lungo la costa o in America e nei luoghi dell’esodo. Alvaro narra di paesi trascinati dai torrenti come mostri perfidi, di terremoti devastanti, di riparazioni continue, e di gruppi dirigenti calabresi che sulle catastrofi costruiscono le proprie fortune.

 

La condizione di uomo e scrittore del Sud che Alvaro sperimenta ha implicazioni lunghe, oltre il suo mondo di origine. Analogie e somiglianze con erosioni di altre zone del Mediterraneo. Lo scrittore di San Luca ultima la stesura di Gente in Aspromonte in Germania, dove si accosta alla letteratura mitteleuropea, e il suo racconto della fine della civiltà contadina assume i toni alti e nostalgici, dei romanzi di Roth che vive e narra la scomparsa dello shtetl, della «piccola città» e del microcosmo degli Ostjuden, gli ebrei-orientali dell’Impero austro-ungarico. Una sorta di «fuga senza fine» (come il titolo del famoso romanzo di Roth, ma anche di un testo teatrale incompiuto di Alvaro) accomuna coloro che partono e coloro che restano. I personaggi di Alvaro sono figure inquiete ed erranti, in fuga dal luogo natio e sempre altrove, disadattati o inurbati sempre insoddisfatti. In Un treno nel Sud (1958, ora ripubblicato da Rubbettino) ricorda come si fugge e si rimpiange con pena; «si torna e si vuole fuggire:come con la casa paterna dove il pane non basta». La fuga il calabrese la compie anche quando «sta seduto a un posto, in un ufficio o dietro uno sportello». La Calabria – ancora una volta elevata a metafora della condizione del Sud – «fisicamente o fantasticamente» è oggi in fuga da se stessa. Senza dramma, senza rancore, con la forza d’un fenomeno della natura, con dignità, con il suo pezzetto di pane in mano, i calabresi reagiscono con tutte le loro risorse a una condizione inferiore o servile. Con tutte le dure energie, cercano una condizione in «cui l’uomo sia padrone di sé e del suo destino». I «pezzenti» (una constatazione, non un’ingiuria) fuggono dove possono.

 

 

 

E si capisce che abitare il sottosuolo di Milano è per essi un miglioramento, per lo meno è una speranza. Una fuga civile, che altrove avrebbe significato un pericolo, e in Italia diventa invece fondamentale, anche se impoverisce i luoghi da cui si parte. Non si torna più indietro una volta che ci si è messi in viaggio. Non si può tornare più alla casa lasciata. Quando si torna, la casa è cambiata, è distrutta, è andata in rovina, circondata e sovrastata dalle erbe, è irriconoscibile. 

Nel passaggio tra vecchio e nuovo mondo, Alvaro intuiva, con venti anni di anticipo su Pasolini, non solo il rischio di omologazione e deculturazione, ma il determinarsi di malesseri e chiusure inediti di cui il Sud sconta ancora le conseguenze. Nelle mutazioni conosciute dal Sud (dalla Turchia, dalla Russia sovietica) Alvaro trova motivi per interrogarsi su una modernità che si trasforma in dispersione e dissipazione. E nel 1933 in Quasi una vita scrive:

«Gli uomini, coi mezzi moderni, non si accorgerebbero di rimbarbarire. Perché la civiltà va diventando oggi un fatto puramente materiale ed esteriore. Si acquisiscono i risultati della vita moderna, senza seguirne il processo e lo sviluppo come accadeva nella vecchia vita».

 

Alvaro esplicitava così la sua mancata adesione alla modernità, che si traduce in rifugio in se stesso, nella memoria, nell’utopia etica. Le concezioni antimoderne non significano rifiuto del nuovo ma si configurano come critica dell’egoismo, della frammentazione, della massificazione, della perdita del senso di responsabilità, dell’incapacità di interpretare lo sviluppo, lo smarrimento e la perdita del sentimento dell’umano e del sacro.

Il riferimento alla tradizione, a valori certi e solidi, talvolta assoluti e fissati in una sorta di astoricità, a «queste eterne cose» della Calabria, alla vecchia vita, suona come una problematizzazione della cultura tecnologia che significa fine della fantasia, della creatività, della perdita d’umanità. La nostalgia del mondo dei padri e delle madri non comporta rimpianto, ma produce egoismo, frammentazione, massificazione. Una critica della modernità che non significa volontà di restaurare il passato, ma che tende ad affermare un nuovo umanesimo e ad impedire, come scrive Carlo Carena, che l’uomo smarrisca la dimensione religiosa, la sacralità della vita, i legami inscindibili tra natura, terra, vita. Ha scritto a proposito di Corrado Alvaro Geno Pampaloni: «Era un pessimista voglioso, un utopista insofferente. […] Sembrava pessimista quasi per timidezza, ed era in realtà votato alla speranza». 

 

«È una civiltà che scompare, e su di essa non c’è da piangere, ma bisogna trarre, chi ci è nato, il maggior numero di memorie». In Gente in Aspromonte Alvaro adopera, con riferimento al mondo agro-pastorale meridionale, il termine «civiltà» almeno quindici anni prima di Carlo Levi, e la sua non è la nostalgia di chi resta fermo o inventa tradizioni mai esistite. È la nostalgia sofferta di chi, invece, vuole custodire memorie di un passato che gli appartiene. 

Alvaro lascia pagine indimenticabili sulle bellezze e sulle miserie del Sud e dei Sud, dei paesi e delle città d’Italia. Il suo meridionalismo, non è mai rivendicazionista o lacrimevole, è lucido, puntuale, affettivo, sentimentale. Non a caso un grande esponente dell’ultima stagione meridionalista, Giovanni Russo, ha scritto che bisogna ripartire da Alvaro per sottrarre il Mezzogiorno agli annosi luoghi comuni e alle infinite retoriche identitarie che continuano a imperversare. Alvaro le tenne sempre lontane confinandole nelle tante immagini leggendarie sul Sud. Interno alla migliore tradizione meridionalistica, l’analisi di Alvaro non ha mai nulla ddi sterilmente lacrimevole e giustificazionista. Egli colloca sempre le culture locali, le regioni, il Sud in una cornice nazionale. I suoi itinerari italiani sono in qualche modo il riconoscimento di una comune patria, in cui Roma diventa il luogo di mescolanza e contaminazione tra persone del Nord e del Sud. Una patria comune alla tradizione migliore: quella di Gioacchino da Fiore, Barlaam, Leonzio Pilato, Telesio, Mattia Preti, Campanella, che ha dato un apporto alla cultura nazionale e al pensiero europeo. «Personalmente, sono avverso alle autonomie regionali, per ragioni di unità nazionale, morale, culturale, economica, specie in tempi in cui le patrie si frantumano e cadono in schiavitù come nel nostro tempo».

 

Nessun rimpianto per il passato regime borbonico «che non sentiva il problema meridionale come fondamentale per l’unità e il benessere della nazione intera, bensì come beneficenza a popolazioni per natura povere. È che esse non sono povere, ma soltanto impoverite». Un giudizio severo verso il periodo borbonico: la restaurazione a inizio Ottocento «riportò a galla la vecchia società feudale», che si affermò a forza di usurpazioni delle terre demaniali. Lo scrittore di San Luca, che pure scorge nel Sud il fallimento del Risorgimento, auspica una «solidarietà nazionale» che sarebbe nell’interesse sia del Sud che del Nord. Considera un problema la difficoltà della società meridionale ad attaccarsi alla vita nazionale, a creare forme di convivenza che non siano quelle feudali, timorose di tutto e di tutti.

La memoria non è strategia o artificio, ma un modo di essere, di guardare, di orientarsi in un altro mondo in cui comunque bisogna vivere. La doppia onda di nostalgia che colpisce i personaggi alvariani significa necessità di misurare la tradizione con la modernità, ma anche osservare, leggere, ascoltare il mondo moderno con gli occhi, il cuore, le emozioni, i sentimenti del mondo di origine. Nei suoi racconti e nelle Memorie di un mondo sommerso e anche in opere più apparentemente lontane da quel mondo, come ne L’uomo è forte e in Belmoro e in libri di viaggio, come Viaggio in Turchia, Terra nuova, lo scrittore stabilisce un legame indissolubile fra tradizione e modernità, nostalgia e stupore, rimpianto e speranza, pietas per un mondo che scompare e attesa ansiosa e fiduciosa, quasi religiosa, del nuovo. Vincenzo Paladino scrive che i cosiddetti «due talenti», le due anime, i due volti di Alvaro sono le gemine facce della stessa moneta. Corrado si spinge persino a chiarire di vivere una «doppia vita»: quella normale della ferialità quotidiana e quella letteraria del racconto, che inventa «sulla trama dell’esperienza e della memoria una seconda vita che non conosce età». È ancora Geno Pampaloni a ricordare le «allegrie da ragazzo, e i momenti cupi, di solitudine buia, ove la Calabria oscurava l’Europa».

 

Una lacerazione innanzitutto personale, come comprende Alberto Moravia, che lo descrive «un contadino del Sud, con qualcosa di chiuso e di dolente, come se si portasse dietro la nobile depressione del suo paese d’origine». Anche in questa sua irrisolta doppiezza, Alvaro sembra essersi caricato sulle spalle il destino di una terra inquieta, eccessiva, difficile da raccontare, colma di contraddizioni. Un destino legato al suo essere rimasto fedele alle origini e in fuga dalle sue retoriche, fanciullo e sempre pronto a nuovo stupore, lontano e vicino, interno ed esterno, ancorato ed esule, nel labirinto del mondo e nel sogno di un nuovo appaesamento, pessimista e insieme portatore di quella tensione morale e utopica che trovava nei grandi pensatori della sua terra.

 

Oggi ad Arcavacata (Cs) un convegno dedicato allo scrittore:

 

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