L’ambiguità del campione / Roger Federer è esistito davvero?

1 Dicembre 2021

Nei miei anni del liceo c’era qualcosa di fondamentalmente immutabile, al di là della mia strabiliante mediocrità come studente: il giorno precedente all’inizio dell’anno scolastico coincideva invariabilmente con la finale del singolare maschile dell’Open degli Stati Uniti. Si trattava di una situazione piuttosto frustrante, perché la combinazione tra l’orario d’inizio della partita – non prima delle 22 italiane – e la sveglia del giorno successivo – le 6.50 del mattino – impediva di godersi pienamente lo spettacolo promesso. In realtà, il problema finì per non porsi mai. Più che scontri, quelle partite si rivelarono brutali, impietose dimostrazioni di onnipotenza tennistica. Roger Federer poteva permettersi di perdere un set di tanto in tanto (tra 2004 e 2008 ne concesse uno ad Agassi nel 2005 e uno a Roddick nel 2006), ma non traspariva mai la benché minima sensazione che quegli incontri potessero prendere una direzione differente. In quegli anni, la presenza di Federer nelle nostre vite era totale, perfino ingombrante. Mi sorprendevo ogni giorno della sua capacità di essere amato senza riserve, ovunque e comunque; in un mondo dove le grandi figure centrali dello sport diventavano sempre più polarizzanti e divisive, Federer assumeva le forme della divinità. Il rumore dei nemici, lui, non sapeva nemmeno cosa fosse. Sebbene lo scorrere degli anni abbia modificato questa percezione di apparente invulnerabilità, il tennista svizzero è stato in grado di stravolgere le logiche stesse dello sport. Come sottolinea Emanuele Atturo, ‘del tennis amiamo le partite tese e incerte, giocate da esseri umani sull’orlo del collasso emotivo’, ma ‘per Federer, e solo per Federer, accettiamo il contrario: una soppressione della natura competitiva dello sport che permetta la pura esibizione individuale’ (290). 

 

È anche per questo che scrivere di Federer è impresa complicata. Sembrerebbe esserci poco da dire di una persona la cui arte più sottovalutata è quella di ‘non dire niente’ (214). Personaggio anacronistico per molti versi, lo svizzero è un raffinato diplomatico che rifiuta deliberatamente la presa di posizione, anche nelle faccende in apparenza meno controverse. La sua glacialità lo rende persino difficile da fotografare: come ha detto Anthony Causi, ‘è freddo come il ghiaccio. Non mostra nessuna emozione’. A parlare per Federer è solo ed esclusivamente il suo tennis. Ma il tennis, e quello dello svizzero in particolare, tende a resistere la sistematizzazione linguistica e a sfidare i tentativi di traslazione su un piano esplicativo razionale. In molti hanno provato l’impresa, ma pochi sono riusciti a trovare il favore di critica e pubblico, tra cui David Foster Wallace col suo celebre Roger Federer come esperienza religiosa (2006) e Christopher Clarey, giornalista americano del New York Times, che in The Master (2021) ha recentemente ricostruito gli ultimi vent’anni passati a seguire lo svizzero nei tornei di tutto il mondo. Non mancano gli scritti anche in lingua italiana. Tuttavia, buona parte di essi fatica a uscire dalle briglie dell’agiografia e finisce per tracciare un ritratto acritico e opaco dello svizzero, che emerge come figura piatta e monodimensionale.

 

Se Federer è esistito davvero è un libro pienamente riuscito è proprio perché riesce a disinnescare questo meccanismo retorico. Emanuele Atturo, caporedattore di L’ultimo uomo, articolista e podcaster (“La riserva” e “Gran riserva”, “Pendolino”, “Quiet Please”, quest’ultimo co-condotto con la bravissima Tiziana Scalabrin), ha il coraggio di problematizzare il personaggio di Federer, mettendone in luce gli aspetti più viscosi ed ambigui, dal difficile carattere in età giovanile ai limiti manifesti nella tenuta psico-fisica delle partite.

 

 

Non è un caso che sia dedicato maggiore spazio alla narrazione delle dolorose sconfitte, come quelle contro Rafael Nadal nelle finali di Wimbledon 2008 e Open d’Australia 2009, piuttosto che alla celebrazione delle grandi vittorie. Tradurre in parole il variegato spettro di emozioni generato dalla re-visione di certi incontri significa anche tentare di scendere finalmente a patti con traumi che l’organismo non è ancora riuscito completamente a metabolizzare – indicativo il prologo, in cui la storia viene riscritta cambiando la conclusione della finale di Wimbledon 2019 contro Novak Djoković. 

 

Un altro merito dell’autore è quello di non accettare passivamente l’inferiorità del linguaggio di fronte alla bellezza del tennis, scegliendo vie alternative e mescolando diversi stili, approcci e forme narrative, dal saggio alla biografia, dal trattato al racconto, attingendo spesso a fonti secondarie per conferire spessore critico e contesto storico. È precisamente attraverso la mescolanza di differenti tonalità e rinunciando ad attingere alla convenzionale sorgente dell’ineffabile, tipica risorsa di chi ha poco da dire, che Atturo riesce a neutralizzare le difficoltà insite nel descrivere Federer e a raccontarci una storia vera e umanissima. Dopo tutto, come dice Paolo Bertolucci, ‘il tennis è lo sport del diavolo’ e per sondarne adeguatamente i territori occorre sporcarsi le mani. Vanno lette in questa direzione le numerose disquisizioni tecniche, che mostrano una profonda conoscenza della fisica e della biomeccanica del tennis, acute e al tempo stesso comprensibili anche da coloro che a questo sport si avvicinano per la prima volta. Sfidando la sua apparente “indescrivibilità”, Atturo riesce a dare una dimensione concreta e intellegibile al tennis di Federer, senza per questo cadere nelle trappole delle facili categorizzazioni e classificazioni. Significativo, in un panorama contemporaneo dove la competenza di giornalisti e commentatori è sempre più scadente, il ricordo del ‘leggendario’ (180) Roberto Lombardi, l’unico in grado di trasformare magicamente ogni telecronaca in una sapiente lezione di tecnica.

 

Infine, a differenziare maggiormente il libro di Atturo dai tanti altri dedicati al tennista svizzero è il fatto che questo non è semplicemente un libro su Federer. La sua storia costituisce in realtà un prisma attraverso il quale raccontare quella che l’autore chiama ‘l’età d’oro del tennis’ (121). E dunque alle parti più squisitamente letterarie del libro, centrate sulla narrazione di alcune tra le più epiche sfide affrontate da Federer nel corso della sua carriera, si alternano digressioni sulla storia del tennis, bozzetti impressionistici di personaggi del passato e del presente (memorabile quello di Stefanos Tsitsipas, definito uno ‘che pare giocare cercando di rimorchiarti’, 80), aneddoti divertenti e raffinate descrizioni dei maggiori tornei del circuito.

 

I 12 capitoli che formano il volume ci ricordano che, dopo tutto, il tennis resta uno ‘spettacolo di coppia’ (185) e Federer, pur nella sua grandezza, sarebbe rimasto per certi versi incompiuto senza la comparsa di coloro che lo hanno sfidato e, in non poche occasioni, sconfitto. Federer, Nadal e Djoković sono divenuti ‘un mostro a tre teste, tre individualità inscindibili l’una dall’altra’, la cui diversità ‘non ha limitato le possibilità reciproche ma le ha moltiplicate, trasformando ogni scontro nella metafora più ardente che lo sport come rappresentazione del mondo può offrire’ (321). Muovendosi al di là delle convenzionali forme della biografia o del saggio, dunque, Federer è esistito davvero è una dichiarazione d’amore al tennis, agli ultimi 18 anni delle nostre vite e a coloro che ci hanno accompagnato in questo percorso. Significativa la dedica di Atturo al padre in apertura dell’ultimo capitolo; assieme a quelle scritte da Daniele Manusia per Martin Jacobs, queste sono forse tra le pagine di sport più intense che possiate leggere in questo 2021. ‘Siamo stati testimoni della storia in divenire’, chiude Atturo, ‘ed è stato un privilegio sublime’ (321).

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