I radiodrammi di Salvatore Mannuzzu / Sperare quel che non si vede

2 Maggio 2021

Non sono molti gli scrittori che negli ultimi venti-trent’anni hanno scritto radiodrammi, ma non sono nemmeno così pochi. Però il loro coinvolgimento è pressoché legato inevitabilmente a committenze specifiche (quasi sempre Radio 3 Rai). Accade a volte che qualche autore abbia scritto radiodrammi a prescindere da una loro immediata realizzazione, piuttosto per sincero divertimento e per il gusto di sperimentare una forma che, anche a livello letterario, può riservare sorprese. Infine può succedere, ma è molto raro, che questi testi siano pure pubblicati, vincendo le resistenze degli editori di solito piuttosto riluttanti a stampare radiodrammi, forse ritenendoli, sbagliando, un sottogenere della drammaturgia teatrale, poco adatto alla lettura. 

 

Salvatore Mannuzzu, scrittore (Premio Viareggio nel 1988 con Procedura), magistrato fino al 1976 e politico (deputato come indipendente del PCI dal 1976 al 1987), scomparso nel 2019, è l’eccezione che conferma una regola che dovrebbe presto modificarsi, per il crescente interesse rivolto alle nuove e antiche narrazioni per l’orecchio, tra radio e web. L’Editore Ronzani ha da poco pubblicato Polvere d’oro, il volume che raccoglie i suoi tre radiodrammi (uscito la prima volta in occasione degli ottant’anni dello scrittore, una decina di anni fa, su iniziativa della Facoltà di Lettere e Filosofia di Sassari), composti tra il 1996 e il 1997, con la ricca prefazione di Goffredo Fofi e l’affettuosa cura di Sante Maurizi. Mannuzzu che, secondo Fofi, «con Fabrizia Ramondino ha espresso al meglio una continuità con la grande generazione dei nostri scrittori del dopoguerra», recupera un genere artistico, quello del radiodramma, che proprio a partire dal dopoguerra e per tutti gli anni Cinquanta (e in qualche modo anche nei Sessanta, almeno in parte, nonostante la concorrenza spietata della televisione), ha attraversato il suo periodo d’oro. 

 

La scoperta e la pratica di un genere artistico come il radiodramma (frequentato in Sardegna in momenti diversi anche da Antonio Santoni Rugiu, prima che si dedicasse alla pedagogia, e da Giuseppe Dessì) amplificano in questo caso una cifra tipica della scrittura di Mannuzzu, l’attenzione per la reticenza che da espediente retorico diventa il segno tangibile della sofferta presa di coscienza di un senso che pare irraggiungibile, di una mancanza che sembra farsi motore di tutto. E nei tre radiodrammi la reticenza nasconde lutti, fantasmi e desideri repressi. Le voci che si ascoltano sono sempre quelle di una coppia, dei rispettivi amanti, di stretti conoscenti. L’ambiente è soprattutto universitario, benestante, colto, ma irrimediabilmente segnato da un’immobilità, un’inconcludenza quasi esistenziale. Anche l’età dei personaggi è molto simile, una maturità piena e non distante dalle prime curve della vecchiaia.

 

 

Le tre storie sono strutturate come raffinati congegni, tanto da far ritenere che Mannuzzu abbia una conoscenza non scontata della drammaturgia teatrale, forse anche dell’opera di Harold Pinter, soprattutto per l’abile costruzione dei dialoghi: i desideri e le relazioni continuamente slittano, si incrociano, si specchiano, nascondendo sempre un lutto (la morte e la scomparsa di un figlio) o manifestando un’attesa lunghissima (l’improvvisa maternità, dal sapore religioso e fantastico in La mèche bianca). Sono storie di padri senza più figli, perché scomparsi, lontani, non voluti.

 

Uomini stanchi, insoddisfatti, e donne disorientate da maternità perdute o desiderate. Un teatro della minaccia costruito adesso da un groviglio doloroso di illusioni perdute e occasioni mancate, come se il tempo faticasse a sciogliersi in un senso compiuto e rimanesse bloccato in una rete di nodi colpevolmente irrisolti.

Il primo radiodramma, La cometa, si svolge quasi tutto di notte, in differenti camere da letto (domestiche, d’albergo, di seconde case…), ed è costruito dai dialoghi alternati di un professore universitario con l’ex moglie, l’attuale compagna e la nuova amante. Il sesso funziona da ponte per creare scambio e incontro, in relazioni che però alla fine suonano tutte insoddisfacenti e difficoltose. Nell’ultima scena il professore e la compagna giocano una partita a ping-pong e le battute, come palline, rimbalzano da una parte all’altra, cercando di scacciare lontano i pensieri più duri, mentre invece li attirano in una forma di triste e condivisa confessione, che pare però non riuscire ad aprire nuove prospettive. La chiave potrebbe stare, dice il professore, in una frase contenuta in una lettera di San Paolo: «sperare quel che non si vede».

 

La medesima inquietudine trova forma in Sabbie nere, in particolare in una scena di pungente disperazione, quando un altro professore universitario, ora barone in un istituto di anatomia, partecipa con l’ex moglie a una seduta spiritica cercando invano notizie della figlia scomparsa da molti anni. Il nastro riavvolto e fatto andare a una velocità elevata genera un frigolio molto acuto, fatto di tanti piccoli suoni non intellegibili, fino a quando non si riconosce il tintinnare lontano di un campanello, o forse era la voce della figlia che chiedeva aiuto? La minaccia di un profondo senso di inadempienza verso la vita, che pare tramutarsi in colpa, ancora una volta si nasconde e si rivela in un suono distorto e in presenze invisibili. 

 

Infine nel più bello e misterioso dei tre radiodrammi, La mèche bianca (andato in onda su Radio 3 con il titolo Anima in pena), la narrazione si fa ancora più essenziale assumendo quasi le sfumature di un racconto gotico, costruito però come un breve thriller, in questo recuperando la miglior tradizione della suspence radiofonica, che ha dato frutti straordinari. Un giovane vestito sempre con un anomalo impermeabile chiaro e contraddistinto da una mèche bianca tra i folti capelli scuri, entra nella vita di una coppia un po’ frustrata e insoddisfatta, come un fantasma o un angelo. Nello squillare notturno di un telefono sempre muto si cela forse un pizzico di speranza che risuona nelle parole conclusive, «speriamo d’essere perdonati tutti…», che svelano ancora una volta un fondo di inquietudine religiosa, il vibrare angoscioso delle domande essenziali sul senso della vita, sul nostro precario passaggio sulla terra.

In questi radiodrammi sono poche le voci che parlano, altrettante rimangono in silenzio e pure contano, ché si sentono in altro modo.

 

Per questo i dialoghi di Mannuzzu, che procedono spediti e limpidi, all’inizio sembrano accoglienti spunti narrativi e poi si rivelano come sottili e inaspettati girotondi di parole; ma alcune di queste mai pronunciate e per sempre mute, perché di assenti e di fantasmi. Ed è qui che Mannuzzu mostra la sua “passione” radiofonica: far parlare il silenzio, fissando le parole nelle coscienze dei personaggi. E donar loro, quando pronunciate, una semplice nobiltà e quel senso di precario, proprio della vita e di un tempo che continua a passare.

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