Compiere l'impossibile / Houdini. Escamotages magici per tempi angusti
Immagine eloquente: Ehrich Weisz a testa in giù si esibisce in un numero di evasione. È appeso nel vuoto, fuori dal cornicione del settimo piano di un palazzo newyorkese con le caviglie legate in alto e una camicia di forza stretta attorno al busto. Ha il volto paonazzo, il sangue che gli pulsa alle tempie spinto verso il basso dalla forza di gravità. Sta pensando alle conseguenze, un attimo prima di essere colto dal panico. Tutti gli occhi sono su di lui. Fallire è morire. Restare nella camicia di forza significa tornare alla povertà, per lui e per sua moglie Bess. La gente non aspetta altro, vederlo penzoloni mentre si dimena, mentre procrastina quella sequenza di movimenti che questa volta non riesce: spalla su, gambe tese, busto in alto, spalla su, gambe flesse, busto in basso. Non gli riesce. Riprova. Non va. Riprova. Non funziona. Che succede? Riprova di nuovo. L’ha fatto in passato, è così che si è tirato fuori dalla miseria.
Forse sta sbagliando. Tenta ancora, questa volta con una sequenza diversa: gambe tese, busto in dentro, spalla in su. Non gli riesce, non sta riuscendo. Cambia ancora: busto fuori, spalla giù.
Niente. Non funziona. È in un labirinto di movimenti senza uscita. Gira a vuoto.
Paura, tenta di nuovo. Le forze lo stanno abbandonando. Riprova ancora, riprova, ancora, ancora, di nuovo, riprova.
Perso. Non ne uscirà più. La gente sì è stancata. Va via delusa. La sera cala sulla città, l’ombra dei palazzi si allunga sulle strade. Le autorità restituiscono a Bess il corpo dell’uomo che amava con lo sguardo perso nel vuoto. È finita. Non risponde. Gli occhi sono vuoti. “Ehrich? Ehrich, non importa. Mi senti? Non importa.”
Gli occhi spenti. Persi. Nel labirinto. C’era un’uscita. C’era.
La miseria sente l’odore e torna a masticarsi quel che resta dei giorni.
Rintuzzati negli angusti spazi degli uffici, dei timori, del giudizio, dei rendiconti, delle prestazioni, delle antipatie, delle invidie, degli ingorghi umorali, delle code in auto, delle file al supermercato, degli amori infelici e di altre centinaia di nefaste eventualità dell’esistenza, a noi inquilini della contemporaneità non resta che una via di fuga contro la trappola in cui siamo finiti: l’immagine di Ehrich Weisz a testa in giù. Non quella in cui fallisce (e che descrive il nefasto rischio che fu costretto ad affrontare per tutta la vita), ma quella in cui, con esito opposto, Ehrich Weisz – in arte Harry Houdini – si è appena liberato dalla camicia di forza. La gente lo applaude ammirata. E lui è già il mago delle fughe, il re delle manette.
Orson Welles ne parlò divertito alla BBC: «da bambino andai a prendere lezioni di magia da lui. Mi diceva sempre: devi provare un trucco cento volte prima di farlo in pubblico».
Una volta Houdini venne invitato al Cremlino per un’esibizione privata alla presenza della famiglia reale. Tra i convenuti c’era anche Rasputin che digrignava i denti per la gelosia: lui, stregone di corte, costretto ad assistere alle magie di un altro. Houdini propose ai suoi ospiti di scrivere ognuno su un pezzo di carta qualcosa d’impossibile che avrebbe dovuto compiere. Uno dei presenti scrisse: “fai suonare le campane del Cremlino”. Agli altri sembrò un’idea perfetta.
Houdini si avvicinò allora alla finestra e alzò le braccia alla sera. Fuori, la neve scendeva dolce e lenta sulla piazza. Guardò quel paesaggio con ammirazione. Poi alzò di nuovo le braccia e in quel preciso momento si udirono suonare le campane: prima una, poi un’altra, poi tutte in sequenza.
A compiere il prodigio non era stato Houdini, ma sua moglie Bess. Maga e abile camuffatrice, Bess si nascondeva dietro molti dei trucchi messi in scena dal marito. Era lei a suggerirgli una carta, era lei a passargli di nascosto (con un bacio sulle labbra) la chiave per liberarsi da un paio di manette, era lei a mescolarsi tra la folla per fornirgli indizi da far passare poi come effetti d’impalpabili fluidi telepatici.
La sera dell’invito al Cremlino, Bess aveva preso sotto falsa identità una camera in un albergo con le finestre ben posizionate davanti alle campane del Cremlino. Non appena ricevuto il segnale dal marito (le braccia in alto), con un fucile ad aria compressa sparò delle grosse salve sulle campane facendole così risuonare nella notte.
La strana richiesta sul suo foglietto di carta era invece effetto di un condizionamento psicologico. L’aveva scritta un ignaro spettatore al quale, nel corso del rinfresco di apertura precedente allo spettacolo, Houdini aveva parlato delle campane del Cremlino e di come fosse un peccato che da più di un secolo non venissero più suonate, tanto da ritrovarsi ormai persino prive delle corde necessarie ad azionarle. Preso dal proprio ego e desideroso di farsi bello agli occhi della famiglia reale, lo spettatore aveva proposto la sfida delle campane convinto di chiedere qualcosa d’impossibile, senza rendersi conto di essere stato bellamente manipolato dal mago.
Non basta pensare a un’immagine per sfilarsi dalle ugge della contemporaneità. Le immagini vanno vissute. Bisogna calarsi nel contesto che raffigurano, entrare nel teatro che rappresentano. Conviene allora prendere coraggio e provare a calarsi nel fondo dell’immagine, dietro le quinte dell’emozioni fissate nei sali d’argento di quei momenti. Ebreo di Budapest, Houdini era emigrato da bambino negli Stati Uniti insieme alla famiglia. La sensibilità che si accende in chi ha vissuto l’incertezza e il senso di emarginazione, fu ragione di un rapporto empatico con la realtà circostante in grado di fargli sentire con chiarezza tanto il punto di fragilità di un catenaccio quanto il luogo della sofferenza interiore di una persona. Abile nell’allestimento delle illusioni sulla scena, divenne nella vita reale un agguerrito avversario di chiunque millantasse doti magiche a danno dei sentimenti altrui. «All’inizio della mia carriera di illusionista – scriveva nel suo A Magician among the Spirits – mi sono interessato allo spiritualismo come fenomeno appartenente alla categoria del mistero, collaterale a quella fase dei miei spettacoli di magia. A quel tempo apprezzavo il fatto di stupire la mia clientela, per quanto pienamente cosciente di ingannarla. Per me era solo un divertimento. Ero un mistificatore e come tale la mia ambizione veniva gratificata. Maturando esperienza negli anni capii quanto fosse grave giocare con la riverenza che l’essere umano medio ha nei confronti di coloro che gli sono dipartiti».
Traggo la traduzione dal bel volume Prestigi e Misteri a cura di Irene Barbera (Malcor D’ Edizione), appena uscito in libreria. Houdini utilizzò a lungo la sua esperienza d’illusionista per sondare la bontà di un gran numero di medium: evocatori di anime, smaterializzatori di corpi, frequentatori di fantasmi e dissociati agitatori di oggetti (che in loro presenza levitavano danzanti nei piccoli cieli casalinghi delle stanze che li avevano sempre ospitati mesti, placidi e immobili). Erano questi personaggi i protagonisti delle sedute spiritiche a cui Houdini partecipava con l’intento di smascherarne trucchi e imbrogli. Il suo antagonismo alle frodi catalizzò presto l’attenzione della stampa. Si accese una disputa tra lui e una variegata e non del tutto definita comunità di spiritualistici, mossa alla tutela del suo decoro (e autenticità) da un’intellettuale di grande prestigio: Sir Arthur Conan Doyle. Lontano dal ferreo razionalismo che caratterizzava i pensieri del protagonista delle pagine sulle quali si esibiva dando voce alle avventure di Sherlock Holmes, Conan Doyle fu nella vita un convinto credente nella possibilità di tirare l’impalpabile coperta che serba i segreti dell’Aldilà da questa parte della vita, trascinando con sé sogni, ricordi e ogni altra sorta di effetto collaterale.
Aiutato dal suo brillante istrionismo, condusse in più occasioni l’auditorio alle soglie di quel limite dell’ignoto che egli reputava facilmente solcabile a chiunque si fosse svestito del proprio scetticismo e di un’eccessiva fede nell’indole materiale dell’esistenza.
Conan Doyle intrattenne con Houdini un’amichevole corrispondenza privata e una sagace disputa in pubblico. L’8 marzo del 1923 gli scriveva una lettera dalla sua casa londinese al 15 di Buckingham Palace Mansion: «Mio caro Houdini, per amor di Dio faccia attenzione alle sue spericolate imprese. Ne ha compiute abbastanza. Parlo dopo aver letto della morte della “Mosca umana”. Ne vale forse la pena? Molto cordialmente, A. Conan Doyle».
La Mosca umana era precipitata giù da un cornicione dell’Hotel Martinique di New York, compiendo imprese nient’affatto più difficili di quelle di Houdini. C’era da stare cauti. Anche se questi, secondo Conan Doyle, apparteneva a una categoria di uomini decisamente diversa. Scrisse a proposito, in una memoria pubblicata anni dopo: «Sono al corrente che Houdini fosse un abilissimo illusionista. Esperto in tutto quel che di quell’arte si possa sapere. In tal modo egli confuse la mente del pubblico mescolando cose che andassero leggermente al di là della loro comprensione con altre che sono nettamente al di là della comprensione di chiunque. Io so che esiste un repertorio di trucchi che comprende manette e altri strumenti. Ma il lavoro di Houdini è di un’altra classe. Crederò a questi signori quando anche loro si butteranno in una cassa dal ponte di Londra. Di fatto un pover’uomo in America, credendo in spiegazioni di tal fatta, saltò in un fiume del Middle West rinchiuso in un baule con pesi, e un altro fece altrettanto in Germania. Entrambi sono rimasti dove si gettarono!».
Il sarcasmo e l’abile penna di Conan Doyle sono affabili, il disegno retorico che esse mettono in scena lo è molto meno. La tesi che egli usa ai danni di Houdini è che anche questi fosse un medium e che non volesse rivelarlo per approfittare economicamente dei propri poteri senza intimorire il pubblico. L’idea fu proposta in occasione di alcune note sui fratelli Davenport, entrambi medium di New York, ideatori di un Gabinetto degli spiriti nel quale si facevano rinchiudere con strumenti musicali che, una volta fatto buio, cominciavano a suonare “da soli”. «Non c’è dubbio – scrive Conan Doyle –, per nessuno che pesi con cura i fatti, che Ira Davenport fosse un medium autentico. Al di là della testimonianza di migliaia di persone, è evidente in sé che egli potesse in qualsiasi momento ottenere fama e fortuna mondiali dichiarando di essere, insieme a suo fratello, un illusionista e di realizzare le proprie performance grazie a dei trucchi. Sarebbe stata una cosa spaventosa però dal punto di vista di un buon spiritualista e i Davenport andarono avanti, oltre il possibile limite, lasciando che fosse il pubblico a determinare la fonte dei loro poteri».
Poiché i due fratelli non erano in grado di fare nulla che anche Houdini non potesse eseguire con agilità, Conan Doyle tirava in causa il mago annettendolo tanto alla categoria dei medium quanto alla sottocategoria di quelli profittatori. «Se Ira Davenport era un medium – concludeva con perentorio quanto fumoso rigore logico – bisogna accettare fino a prova contraria che lo fosse anche Houdini».
Avendo trascinato il suo avversario tra le fila degli spiritualisti taciturni e profittatori, Conan Doyle poteva scagionare con più efficacia i maestranti dello spiritualismo dell’epoca grazie a qualche aneddoto noto da tempo. Aveva già riferito, infatti, del non riuscito tentativo di Houdini di smascherare la celebre sensitiva Mina “Margery” Crandon di Boston, che era stata sottoposta allo studio di un’apposita commissione istituita dal periodico Scientific American e alla quale anche Houdini partecipò. La signorina Margery era specializzata nel collegamento con spiriti in grado di compiere svariate mansioni casalinghe, tra cui suonare campanelli e spostare vettovaglie. Houdini era convinto di smascherarla in breve, ma la Crandon manifestò una certa abilità nel difendersi, come si può capire da una lettura critica della testimonianza riportata da Conan Doyle: «Il primo fenomeno atteso era il suono di un campanello elettrico azionabile unicamente attraverso un pedale di legno molto lontano dalla portata della medium. La stanza fu oscurata, ma il campanello non suonò. Immediatamente si sentì la voce rabbiosa del fratello [della Crandon, defunto]: “Hai messo qualcosa per impedire al campanello di suonare, Houdini!» gridò. [...] Quando le luci furono accese si trovò la gomma di una matita a bloccare il pedale di legno. Naturalmente Houdini professò completa ignoranza della cosa, ovvero di come la gomma si trovasse lì, ma chi altri avrebbe potuto mettercela senza farsi udire al buio?».
La Crandon e i suoi complici avevano così ottenuto il duplice vantaggio di giustificare l’assenza del prodigio (il campanello non aveva suonato non per l’incapacità della sensitiva di esibirsi alla presenza dello smascheratore Houdini, ma poiché questi aveva barato per impedirglielo) e di presentare al contempo il suo potenziale detrattore come un lestofante (era lui ad aver messo la gomma, per farsi bello dell’insuccesso della seduta spiritica). Nel caos che seguì per via della teatrale agitazione inscenata dalla Crandon scandalizzata dai presunti modi di Houdini, nessuno ebbe modo di porre una semplice domanda; né tantomeno tale domanda venne in mente a Conan Doyle nel redigere la sua memoria, per quanto si trattasse di una domanda che certo non sarebbe sfuggita al rigore logico che la penna di Sir Arthur sapeva avere quando si dedicava a Sherlock Holmes. La domanda era questa: perché Houdini avrebbe dovuto impedire che il campanello suonasse se il suo scopo era di mostrare che esso veniva azionato tramite un trucco? In ambiente investigativo si sarebbe parlato di “mancanza di movente”.
Che la Crandon sperimentasse i suoi stratagemmi per difendersi da chi tentava di smascherare gli imbrogli con cui sbarcava il lunario è comprensibile; che l’acuto scrittore Conan Doyle tralasciasse l’inconsistenza logica delle accuse invece stupisce. A meno che egli, sull’onda della celebrità conquistata come conferenziere in tutto il mondo per via delle sue difese dello spiritualismo, fosse mosso da ragioni in fondo non troppo diverse da quelle della fraudolenta Margery.
Conan Doyle avrebbe potuto avere la meglio nella sua battaglia a favore dello spiritualismo se non fosse stato per l’ectoplasma. Charles Richet, fisiologo francese, aveva dato questo nome alla sostanza che pareva essere emessa da soggetti in stato di transe. Nel riferire di tali fenomeni, «indubbiamente autentici», opera di «medium materializzatori», Conan Doyle si addentrò in dettagli non privi di una certa involontaria comicità: i soggetti in questione, spesso ragazze (come nel caso della francese Eva Carrière), avevano «lo strano dono fisico di emettere una sostanza vischiosa e gelatinosa che appare differire da ogni forma di materia conosciuta fino ad oggi, tale da potersi solidificare e usare per scopi materiali eppure che può essere riassorbita non lasciando alcuna traccia nemmeno sui vestiti»; ovviamente, la sostanza prendeva sovente le sembianze di un essere umano, qualcuno vissuto nel passato, personaggi famosi o parenti ormai scomparsi: in breve, spiriti!
L’ectoplasma poteva in effetti costituire un argomento persuasivo: un conto è far suonare un campanello, altra cosa è far apparire un fantasma vero e proprio che, nei casi più riusciti, se ne va anche in giro per la stanza. Ma erano le stesse testimonianze riguardo alle fanciulle, la loro forza in fondo comica a confutarle. L’ectoplasma, lattiginoso, pulsante e semovente, avrebbe divertito anche Orson Welles, artefice pure lui di qualche inganno mediatico come quando con il solo ausilio della propria voce ai microfoni della CBS convinse la nazione americana che gli alieni erano appena sbarcati sulla Terra. C’è da immaginarselo a ridacchiare dietro l’idea di queste ragazze con le dita impiastrate di gelatina verdognola.
Del resto, non meno sarcastico fu Houdini. Scrisse un saggio dal titolo eloquente: Perché l’ectoplasma?
C’era davvero da chiederselo. Con tutte le cause plausibili che si potevano usare per spiegare il fenomeno della sostanza prodotta dalle ragazze, perché, perché evocare l’esistenza di una fantasmagorica materia pseudo aliena?
Per quanto mantenesse una mente aperta, per quanto restasse lontano dallo scetticismo radicale diffuso per esempio all’interno del Circolo dei Maghi di Londra, Houdini non aveva potuto trattenersi dal fornire indizi che facevano dell’ectoplasma un fenomeno in debito più nei confronti dell’arte circense che della chimica. Riferì di ciò che aveva visto sul corpo di mademoiselle Eva nel corso di una seduta con la spiritata fanciulla francese: «L’ultima cosa che produsse quel pomeriggio fu una sostanza che lei disse era caduta nella sua bocca e chiese il permesso di usare le mani per mostrarla. Le fu concesso e lei estrasse una sostanza che apparve umida e bagnaticcia. Sembrava gomma gonfiata. Nessuno vide un volto su quella. Improvvisamente sembrò scomparire. Tutti dissero che fosse “scomparsa all’improvviso” ma i miei anni di esperienza nel presentare il trucco del fachiro indù mi convissero che lo avesse “fatto sparire” in bocca facendo finta di averlo tra le dita. Sono certo che la sua mossa fosse quasi identica alla mia mentre opero il trucco nel mio numero. In questo numero io mi ingoio (se si crede ai propri occhi) da cinquanta a centocinquanta chiodi e da dieci a trenta metri di filo e dopo alcuni secondi tiro fuori dalla bocca i chiodi legati al filo. [...] Questo trucco non è stato finora completamente svelato ma ciò non prova che io abbia poteri sovrannaturali».
Alla tesi spiritualistica di Conan Doyle che faceva di Houdini un medium profittatore, lo stesso Houdini rispose pubblicamente per iscritto: «Sir Arthur ritiene che io abbia poteri medianici e che alcune delle mie imprese siano compiute con l’aiuto degli spiriti. Tutto quello che faccio io è realizzato con mezzi materiali ed è umanamente possibile, non importa quanto possa sembrare altrimenti».
La tesi di Conan Doyle del resto non tentava solo un oltraggio all’immagine del mago di Budapest; compiva al contempo una silenziosa detrazione ai danni della gente comune: se le imprese magiche erano effetto di poteri extranaturali, a noi persone normali non è possibile compiere nulla di simile. Houdini, da parte sua, sostenne sempre il principio opposto: quando si smette di credere alle illusioni si può compiere l’impossibile.
A noi cittadini nella contemporaneità, come scrivevo poc’anzi, a noi che siamo confinati nelle fatiche della vita degli uffici, dei timori, delle invidie, delle file, degli amori infelici e di tante altre eventualità avverse, la foto di Houdini presenta un prontuario di suggerimenti ed escamotage per una fuga entusiasmante. Anche noi siamo sottoposti a falsità non meno terrificanti di quelle dei medium di un tempo. Sotto l’effetto dei guastatori del buonumore abbiamo finito col credere a una serie di superstizioni: che l’economia sia ineluttabilmente in crisi, che i tagli alla cultura siano inevitabili, che la restrizione dei salari non possa essere evitata; abbiamo finito col farci convincere che i nostri sogni possano (o debbano!) essere sostituiti con un abbonamento alla tivvù via cavo, che si viaggia solo per lavoro o per vacanza, che la sauna va fatta dopo la palestra, che il fumo faccia male ma i biscotti del supermercato no, che chi pensa è pretestuoso, che l’abito forse non fa il monaco ma i clic invece sì e che, insomma, non è il caso di chiedere troppo, non si può spendere meno, non c’è modo di avere più tempo, e con tutti gli arretrati da smaltire non è neanche il caso di stare troppo a fare l’amore!
Prendendo per vere simili «ectoplasmatiche» invenzioni dell’era contemporanea abbiamo smesso di credere nella possibilità di compiere l’impossibile. La foto di Houdini è dunque un invito all’uscita. Perché non appena distratta la mente dalle falsità che ci ingannano ogni giorno, ci sembrerà all’improvviso facile trovare la nostra manovra, la nostra personale sequenza, quell’elegante ventaglio di gesti dietro al quale sfilarci di dosso, con allegria ed emozione, l’asfissiante grigiore di una quotidianità spacciata come unica e ineluttabile.