Conversazione con Fabio Viola / Coinvolti e creativi

16 Luglio 2017

Fabio Viola è una figura di rilevanza nella sfera dell’industria culturale e creativa, operando nell’intersezione tra questi due mondi, con progetti come Father and Son per il Museo Archeologico di Napoli. È tra i fondatori di alcune imprese creative quali TuoMuseo, DigitalFun e Mobile Idea, autore dei libri Gamification. I videogiochi nella vita quotidiana e L’arte del coinvolgimento. Emozioni e stimoli per cambiare il mondo.

 

P.D. Ciao Fabio, grazie per aver accettato l’intervista. Raccontaci chi sei.

F.V. Sono una delle tante persone vissute negli anni ‘80 con due passioni: i videogiochi, che divennero il mio lavoro, e la storia che divenne il mio percorso di studio. Fondai la mia prima start up a 22 anni e a 25 iniziai a lavorare per aziende come Electronic Arts Mobile e Vivendi Games, dalle quali acquistavo giochi fino a pochi mesi prima. Il caso ha voluto che queste due distanti passioni, recentemente, si siano ricongiunte grazie a TuoMuseo, che mi permette di lavorare entro le sfere della creatività e della cultura. Inoltre coordino un master allo IED in Gamification ed engagement design. Attraverso altre start-up che ho fondato, mi occupo di videogiochi e dell’utilizzo delle logiche di gioco in contesti non-ludici (gamification).

 

Partiamo da un universo, quello della cosiddetta cultura in trasformazione: all’interno di questa sfera, legata allo sviluppo dell’industria culturale e creativa, si usa spesso il termine coinvolgimento. Esso pare trasferire automaticamente al prodotto/servizio culturale delle qualità innovative. Cosa vuol dire coinvolgimento?

Quando una persona è coinvolta verso un oggetto, un’esperienza o un’altra persona subisce, in positivo, dei cambiamenti fisici e psicologici; lavora più alacremente, il tempo passa più velocemente, la capacità di attenzione e la qualità dell’impegno crescono enormemente. Il coinvolgimento è contagioso; quando ci si sente parte a livello emotivo, si sente il bisogno di raccontare la nostra esperienza alle persone che sono intorno.

Il termine coinvolgimento può essere inteso in due modi. A un livello alto, di macro-progettazione, vuol dire principalmente porre al centro il pubblico, punto di partenza per progettare qualsiasi tipo di interazione,dopo averne compreso le esigenze, i bisogni e le necessità. In questo senso coinvolgimento vuol dire creare per e con il pubblico. Mi piace parlare di audience centered design, un approccio che richiede primariamente la disponibilità da parte di direttori, curatori, gestori a cedere parte del proprio potere. Nei casi più estremi il termine coinvolgimento potrebbe voler dire ribaltare le logiche curatoriali nell’ambito della progettazione, perché ci si rende conto che le necessità e i bisogni del pubblico per cui si sta immaginando di creare qualcosa vanno nel senso totalmente opposto.

Vi è poi un livello più pratico, il design del coinvolgimento, che significa mettere in campo meccaniche e dinamiche per migliorare la relazione tra esperienza e fruitore. I driver che guidano la partecipazione e relazione emotiva dei pubblici sono molteplici e richiedono figure professionali, che attualmente mancano nell’ambito culturale. Esse oggi provengono da altre industrie – penso a quella creativa – o comunque da quei settori che per primi hanno iniziato ad approcciare a queste tecniche e metodologie, volte a coinvolgere i propri pubblici lavorando sul valore delle relazioni (innegabile il ruolo di antesignano all’industria dei videogiochi).

Credo che, oltre a essere un motore dell’innovazione, il coinvolgimento sia un elemento cardine qualora si voglia progettare qualcosa per i cosiddetti pubblici del futuro, che a ben guardare sono già i pubblici del presente. Non vedo come si possa prescindere da interazione e partecipazione.

 

Il gioco inteso come logica è l’unico modo di offrire un’esperienza coinvolgente e multi-livellare?

Il gaming è uno degli strumenti possibili. Finché il pubblico appare come massa indistinta agli occhi dei progettisti, fintanto che non ci si interroga su quali siano i reali interessi e le necessità dell’audience, diventa complesso lo spostamento dell’asse verso la centralità del coinvolgimento. Le esperienze personali richiedono la capacità di tracciare e analizzare grandi quantità di dati (big data). I giochi e i videogiochi funzionano bene da questo punto di vista e riescono a immergere i giocatori, non solo per l’aspetto grafico-tecnologico o di story-doing, ma anche grazie alla capacità di adattare l’esperienza in base a diversi registri di giocatori. Il Brooklyn Museum, ad esempio, ha lanciato l’appAsk: quando il visitatore accede al museo l’app si attiva e diventa funzionante. Attraverso l’interfaccia, simile a quella di WhatsApp, il visitatore può inviare domande in tempo reale al gestore del museo e riceve una risposta entro 60 secondi. Le domande sono anonime, in modo che nessun utente si vergogni di chiedere informazioni su un quadro, dettate dal fatto che, ad esempio, una didascalia gli risulta poco chiara o non comprensibile. Queste migliaia di informazioni raccolte dalla istituzione servono, inoltre, per rimodellare l’allestimento comprendendo le criticità ed esaltando i punti di forza.

 

Screenshot dal videogioco “Father and son”

 

Ci spieghi cosa vuol dire co-progettazione a partire da un caso, attraverso cui comprendere l’impatto di questa nuova pratica sulla sfera culturale?

Kilowatt festival con il bando “L’italia dei visionari” mi sembra un valido esempio. Con questo bando il curatore del festival fa una scelta molto forte, di cessione e distribuzione di una parte del proprio potere curatoriale. Distribuire e cedere ruoli attraverso un bando vuol dire decentralizzare l’atto di scelta e decidere di ragionare a partire dai pubblici che fruiranno dello spettacolo. Il pubblico, responsabilizzato, inizia a sentirsi protagonista di quello che accadrà. Co-progettare vuol dire accedere a sensibilità diverse (centinaia di migliaia rispetto a quella unica del curatore) e attivare dei cicli virtuosi. Nel caso di festival San Sepolcro il bando serve non solo a selezionare gli spettacoli, ma anche a selezionare individui con professionalità e competenze estranee all’industria dello spettacolo dal vivo – un tabaccaio, un barista, persone della città e potenziali soggetti che possono entrare in contatto con il festival durante il suo svolgimento. A loro viene chiesto di esprimere giudizi su una parte del palinsesto, attraverso la compilazione di schede relative agli spettacoli, la partecipazione ad anteprime: attraverso un sistema di valutazione particolare, decideranno chi salirà sul palco e chi no. Questi sistemi responsabilizzano l’audience, la coinvolgono sin dalla fase che precede la performance, lo spettacolo o l’allestimento e stimolano la riflessione nella fase che segue il momento di offerta culturale.

 

Nel volume L’arte del coinvolgimento vengono presentati alcuni modelli del coinvolgimento: “engagement loop” e lo schema per motivazione-occasione-azione-risposta. Credi che siano modelli validi a livello generale, dunque strutture flessibili, che possono essere adattate caso per caso?

Le istanze che motivano gli individui sono universali, il cervello umano non ragiona per cartelle, resettando aspettative e necessità in base alla esperienza che si appresta a vivere. È una sfida complessa soprattutto per le istituzioni non-profit, che dovranno imparare a confrontarsi con Netflix e Clash of Clans come rivali nell’attenzione temporale (ed economica) dei visitatori. Pur nelle differenze di visione e missione, ogni realtà che si relaziona con un pubblico deve partire dall’idea di offrire un’esperienza qualitativamente alta e allineata a quelle che viviamo nelle 24 ore. Se siamo d’accordo che coinvolgere voglia dire mettere al centro i pubblici, bisogna iniziare a pensare che le persone che si recano al museo potrebbero essere le stesse che prima sono entrate in un negozio e dopo torneranno a casa guardando un film in 4K su Netflix.

 

Copertina e quarta de L’arte del coinvolgimento (2017, Hoepli)

 

Esiste una relazione tra la pratica di co-progettazione, e il mutamento di paradigma a cui stiamo assistendo: dallo story-telling allo story-doing?

Progettare insieme implica uno spostamento dell’asse del racconto. Sappiamo tutti quanto il termine storytelling sia diventato d’uso comune in ogni ambito del quotidiano, si vendono le esperienze più che gli oggetti, ed è importante raccontare in chiave emotiva il museo piuttosto che un prodotto di marca. Ma se davvero ci sta a cuore il pubblico, è necessario uno spostamento verso quello che io chiamo story-doing, ovvero verso la possibilità che il pubblico diventi reale protagonista del racconto. Il sistema dovrebbe offrire la possibilità di prendere costantemente decisioni che hanno conseguenze reali, che riflettano il pensiero di chi le compie e che possano contribuire a cambiare il finale. In fondo è uno dei grandi insegnamenti dell’industria dei videogiochi: la storia non è più mono-direzionale come accade nei film o nei libri ma lascia, con limiti variabili di libertà, possibilità di co-scrittura da parte del giocatore. Questo spostamento dell’asse di partecipazione si adatta bene alle rinnovate esigenze dei pubblici del futuro, le cosiddette “generazioni Y e Z”, i nati tra gli anni ‘80 e il 2000 e dopo il 2000, cresciuti con i videogiochi come principale media, creativo e aggiungerei culturale, di riferimento.

 

Attraverso i termini audience, utenti, fruitori, si definisce il pubblico dell’universo culturale contemporaneo. Cosa cambia nell’uso di questa terminologia rispetto al cosiddetto “pubblico di massa”, ai prodotti, ai servizi e ai media culturali “tradizionali”?

Una delle riflessioni ampie che attraversa l’ultima decade del dibattito in materia rientra sotto il termine di audience development. Con questo termine si indica la possibilità di iniziare a ragionare non solo su pubblici di riferimento o pubblici consolidati, ma anche su pubblici potenziali, addirittura su segmenti definibili in quanto non-pubblici. Con quest’ultimo termine si indicano persone che non entrerebbero mai all’interno di un determinato luogo culturale, perché lo percepiscono lontano, noioso, per tutta una serie di motivazioni personali su cui oggi ci si può interrogare. Fino a oggi, invece, in ambito culturale si è ragionato su pubblici ben precisi, i pubblici di riferimento, lo zoccolo duro, coloro che leggono un libro, entrano in un museo, vanno al cinema.

 

Il lavoro delle industrie culturali e creative sembra che debba raffinarsi, investendo molto sulle tecniche di progettazione. Per garantire l’accessibilità non basta semplificare i contenuti, ma si dovrebbe iniziare a pensare che dietro alla divulgazione vi debba essere una progettazione diversamente articolata per un pubblico così segmentabile...

Uno stesso luogo culturale oggi dovrebbe poter essere letto e visitato con chiavi cognitive diverse, adeguate, anzitutto, al livello di partenza della persona che vi accede. I problemi da affrontare possono essere diversi e variegati (fisici, pratico-materiali, tecnologici o di spazio).

Proviamo a contestualizzare ancora una volta, pensiamo al museo e alle didascalie. Esse risultano comprensibili a un pubblico ristretto, una nicchia precisa, perché comunità conforme al linguaggio utilizzato dal museo – di tipo storico-artistico o critico-artistico. Dinanzi alle etichette qualsiasi utente che appartiene a una comunità non conforme al linguaggio museale – bambino o adulto che sia – fa fatica. Il museo diventa realmente un luogo di comunità quando è in grado di raccontare con diversi linguaggi la stessa opera. Solo in questo caso si può parlare di museo per tutti.

 

Pensare il pubblico in forma di comunità è segnale di cambiamento? Può essere utile a interpretare meglio le trasformazioni dell’universo culturale?

L’idea è che la community sia un elemento vincente per generare coinvolgimento e fidelizzazione attraverso l’interazione progettata nel dettaglio. Le dinamiche sociali sono fondamentali sia per il pubblico consolidato che per l’utente che accede a una piattaforma per la prima volta. Proviamo a declinare questa formula in alcuni settori d’impresa dove l’impatto della comunità è evidente, e penso all’ambito dei videogiochi. Chiunque acceda a una qualsiasi piattaforma di gioco ha necessità di qualcuno che lo accompagni nelle prime ore dell’esperienza, che gli spieghi come funziona il sistema, che lo aiuti a socializzare. Anche in questo caso entrano in gioco i veterani. A un utente che ha giocato per 10.000 ore su una piattaforma come World of Warcraft non interessa più il gioco in quanto tale, inteso come prodotto. L’utente-veterano ha necessità di assumere un ruolo di rilievo nella community; di solito dopo essere stato riconosciuto come utente-leader - per cui si assiste a un passaggio dall’uso di un prodotto alla fruizione di un’esperienza - l’utente-veterano inizia anche a orientare e a poter influenzare la comunità stessa, configurandosi come mentor o capo-clan.

 

La gamification può essere intesa come metodologia?

Pur essendo stato uno dei fautori dell’arrivo in Italia della gamification dal 2011, credo che oggi abbia assolto larga parte del suo obiettivo. Da qui a pochi anni le tecniche della gamification saranno parte integrante degli studi e delle metodologie del web-design, dell’user-experienced design, dell’user-interface design e dell’user-centered design. La gamification è solo una delle chiavi pratiche e attuative del design del coinvolgimento, uno dei tanti set di strumenti per raggiungere obiettivi concreti. Tutti coloro che disegnano e progettano interfacce ed esperienze – fisiche e digitali – avranno assorbito queste competenze e le contestualizzeranno all’interno dei processi di progettazione.

Il lascito principale sarà l’idea di un mondo progettato non solo per essere usabile, ergonomico, conforme, funzionale ma anche e soprattutto coinvolgente, portatore sano di partecipazione e di emozioni. In fondo, ed è stata una delle interessanti indicazioni venute fuori dalle interviste con migliaia di persone per la stesura del libro, gli oggetti ed esperienze ai quali siamo legati spesso nascondono significati profondi e valori attribuiti dall’uomo. I materiali, il costo, l’idea del creatore cedono spazio ai meta-significati del fruitore.

 

In questa intervista hai affiancato musei o istituzioni culturali alle aziende e alle imprese commerciali. Secondo te il panorama italiano è pronto per il salto dell’universo culturale verso i paradigmi dell’impresa e dell’industria?

Il prossimo 4 Luglio a L’Aquila si svolgerà la Conferenza Nazionale dell’Impresa Culturale, a testimoniare il crescente movimento di pensiero che parte dal presupposto che la cultura, come scrive Claudio Bocci, sia non un “fattore aggiuntivo ma elemento costitutivo dello sviluppo, nella sua duplice accezione di straordinario strumento di coesione sociale e di rilevante piattaforma di crescita economica dei territori”. Il termine impresa, che a molti può non piacere, aggiunge la dimensione della sostenibilità economica e della capacità di gestione di una istituzione culturale superando una mission esclusivamente legata alla conservazione, trasmissione, esposizione e didattica.

Approfitto per lanciare una idea, ogni istituzione culturale dovrebbe ospitare al proprio interno una start-up creativa. L’istituzione troverebbe in-house nuove energie, competenze e capacità sinergiche, la start up avrebbe un luogo ed un pubblico sul quale prototipare e testare i propri prodotti.

Qualche prima forma di partnerariato pubblico-privata è riscontrabile in Italia, ad esempio alcuni musei ospitano internamente dei Fablab creando delle contaminazioni virtuose per osmosi. 

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