L’equivoco del graphic novel

Graphic novel, ossia romanzo grafico: da qualche anno questa nuova, ancorché vecchia definizione si è imposta con tale forza che non c’è libreria di varia senza uno scaffale dedicato alle nuvole disegnate. Ma se già ben prima che questa espressione si imponesse le librerie più fornite non esitavano a ospitare di tanto in tanto qualche bel fumetto, va aggiunto che la storia del graphic novel comincia nel non più vicinissimo 1978, in corrispondenza della pubblicazione di quel che è unanimemente considerato il primo romanzo grafico, quel A contract with God di Will Eisner che in realtà fu una raccolta di quattro racconti brevi del celebre fumettista statunitense.

 

Will Eisner, A Contract with God

 

È opinione comune che la differenza fondamentale tra i fumetti e i graphic novel consisterebbe in una maggiore elaborazione di scrittura, illustrazione e soprattutto contenuti nei secondi rispetto ai primi. Maggiore densità che farebbe dei graphic novel non un genere del fumetto, ma un linguaggio a sé stante rispetto al fumetto stesso, qualcosa di altro e soprattutto di “alto”, degno di suscitare nel lettore il senso del sublime, di sviluppare tematiche universali o quanto meno di impartire insegnamenti di matrice etico-morale con il pretesto di una dinamica narrativa illustrata; una narrazione di ampio respiro, cioè non legata a un singolo evento da svelare (ad esempio la tradizionale avventura mensile di Tex Willer), non seriale (slegata dall’uscita periodica come un Diabolik qualsiasi) e senza protagonisti fissi (alla maniera di Ratman, per intenderci). Al centro del graphic novel non c’è il personaggio-icona pop, ma ci sarebbe l’autore che si contraddistingue per uno stile inconfondibile, svincolato da rigidi dettami editoriali di tipo grafico/testuale/contenutistico. Una struttura narrativa libera, un segno originale e tematiche rivolte verso un pubblico maturo, formato da lettori di cultura medio-alta, contrapporrebbero quindi il graphic novel al fumetto cosiddetto popolare, di norma rivolto a un pubblico quanto più ampio possibile, con scritture di semplice lettura e segni grafici dall’immediata decifrazione. Il graphic novel avrebbe fatto del fumetto una vera e propria “arte”, al pari della grande letteratura e della grande pittura. Tutti gli altri fumetti, invece, rimarrebbero roba da bambini o per lettori senza pretese in cerca di futile evasione, nei casi migliori opere frutto del lavoro di validi artigiani.

 

Un’altra visione delle cose suggerisce invece che il graphic novel sia sostanzialmente una categoria merceologica. Categoria che identifica come graphic novel una storia a fumetti autoconclusiva o inserita in un ciclo compiuto e per questo pubblicata in un formato-libro in uno o più tomi, destinato a trovare più facilmente di un comic book, di un manga o di un albo di Zagor o Alan Ford, il suo posto tra gli scaffali di una libreria. Il graphic novel è perciò anche un formato editoriale e commerciale attraverso cui i fumetti sono riusciti a mettere radici in libreria, un territorio tradizionalmente raffigurato come ostile al fumetto.

 

Alan Moore e Dave Gibbons, Watchmen

 

Per noi che scriviamo quest’articolo però la verità o, meglio, una sua ragionevole approssimazione, forse sta a metà di questo percorso. Dalle parti di Watchmen, cioè, il monumentale capolavoro a fumetti di Alan Moore e Dave Gibbons, che uscì originariamente in albetti (tradizionale formato seriale da edicola), ristampato da anni in un unico volume per le librerie di varia (come graphic novel, perciò) senza che per questo il suo contenuto cambiasse. Se il graphic novel è inoltre per sua intima costituzione opera alta destinata a palati fini, come dovremmo definire i graphic novel della Marvel, la casa editrice di Spiderman e soci? Eppure ben prima che le parole “graphic” e “novel” facessero irruzione nell’armentario critico in questo modo così (perdonateci) acritico, noi modestissimi lettori di fumetti non avevamo problemi a definire graphic novel l’albo autoconclusivo, in grande formato, Daredevil: love and war, scritto da Frank Miller e disegnato da un Bill Sienkiewicz in grande forma. Dovremmo forse operare un’ulteriore suddivisione tra graphic novel di serie A (e a contenuto serio, neo-realista, didattico-pedagogico/intimista) e graphic novel di serie B (Marvel, DC, mostri, battaglie, alieni e affini?). Lo stesso Sienkiewicz quando rifà Moby Dick è un artista e quando disegna (con lo stesso stile) Daredevil è un operaio che lavora in un’alienante catena di montaggio? Cerchiamo di vederci più chiaro e facciamo un po’ di storia, allora, e scopriamo che fumetti ci fossero in giro prima che cominciassimo a (stra)parlare di graphic novel.

 

Da sinistra le grafic novel di Bill Sienkiewicz, Daredevil; Moby Dick

 

Rispetto a quel fatidico 1978 il linguaggio del fumetto stava vivendo una fase di evoluzione già dalla seconda metà degli anni Sessanta, pensiamo all’Italia, per esempio, e a La rivolta dei racchi (1966) di Guido Buzzelli e a Una ballata del mare salato di Hugo Pratt (1967). Lungo tutti gli anni seguenti (e fino ai giorni nostri) i fumetti conosceranno ulteriori sviluppi senza alcun bisogno di ricorrere alle parole “graphic novel”. Basti pensare ad autori innovativi come Magnus, Altan, Vittorio Giardino, Andrea Pazienza, Stefano Tamburini e Tanino Liberatore, Carlos Sampayo y Josè Muñoz, Frank Miller, Jean “Moebius” Giraud o Katsuhiro Otomo (a volerne citare pochi tra quelli che hanno elaborato gli esiti più influenti). Qualcuno potrebbe obiettare che tutti questi artisti abbiano anticipato la tendenza attuale, ma come inquadrare invece personaggi a fumetti come Little Nemo di Winsor McCay (la cui prima apparizione risale al 1905!), Krazy Kat di George Herriman (siamo negli anni ’10 del Novecento!), i Peanuts di Charles M. Schulz (pubblicati dal 1950 fino al 2000), Pogo di Walt Kelly (dal 1948 al 1975) o Calvin & Hobbes di Bill Watterson (1985-1995)? E che dire de L’Eternauta di Héctor G. Oesterheld e Francisco Solano Lopez (1957-1959)? E i lavori dello stesso sceneggiatore argentino in coppia con Alberto Breccia come Sherlock Time (1958-59) o Mort Cinder (1962-64)? Come giudicare quel Tintin di Hergé pubblicato dalla fine degli anni ’20 fino ai primi anni ’80? E Blake e Mortimer di Edgar P. Jacobs pubblicato dal 1946 a oggi? Per tutti questi fumetti (e gli altri che non abbiamo voluto citare per risparmiare un interminabile elenco al lettore) l’etichetta “merceologica” di graphic novel si rivelerebbe inappropriata. È inutile cercare di deformarli con la forza del nostro pensiero per infiocchettare queste opere nella confezione del romanzo grafico. Questi fumetti sono e sempre rimarranno prodotti seriali. Strisce. Albi. Giornaletti.

 

Potremmo però con la stessa facilità affermare che si tratta di opere di serie B? C’è qualcuno che vuole dimostrare come in Little Nemo o ne L’Eternauta non ci sia arte e poesia, al contrario di una qualsiasi storia a fumetti autoconclusiva in formato libro che cerca di insegnarci come funziona il mondo o raccontarci la biografia di un personaggio famoso morto in circostanze esemplari e/o tragiche contro il muro di gomma di uno Stato assente? La nostra impressione è che queste due paroline, graphic e novel, siano state ripetute troppo, ultimamente, e come tutte le parole ripetute all’infinito abbiano perso il loro significato fino a diventare una formula magica. Meglio ancora, uno specchietto per le allodole.

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