Mai / Trasgressioni immaginarie

12 Settembre 2019

C’è un’immagine, utilizzata una volta da Lacan, che mostra con precisione il funzionamento della trasgressione: in riva al mare, le onde sommergono i confini della spiaggia. Non ci sono il mare da una parte e la costa dall’altra, come il permesso e l’interdetto. Il mare persevera in un perpetuo moto di avanzamento e ritirata. Ritorna lì dove non può stare, si ritira solo per tornare. Il limite è ripetutamente trasgredito, si direbbe quasi che sia lì solo per essere oltrepassato, ma non viene cancellato. Rintracciare l’esatta linea di confine tra l’oceano e la costa, tra godimento e legge, è impossibile. Questa impossibilità assume però un aspetto positivo: istituisce una modalità di stare nel mondo che non nega totalmente il godimento, bensì comprende il suo limite e ne fa una componente del godimento stesso. 

 

Simbolico, immaginario e reale, desiderio e godimento si affermano e si negano l’un l’altro, sono l’uno il disconoscimento dell’altro, costantemente violano i reciproci confini e in questo movimento li ridisegnano: dove c’era il reale, lì sarà la castrazione; ma ancora, se saprà fare di questo cattivo incontro per antonomasia un buon incontro, messo di fronte alla castrazione il soggetto potrà apprendere come godere senza annullarsi.

 

“Ho scritto un libro sulla trasgressione per mostrare che la trasgressione… non esiste!”. Questa constatazione iniziale (o finale, dal momento che giunge a dieci anni dalla prima stesura del libro di Silvia Lippi, Trasgressioni. Bataille, Lacan, Orthotes 2019) indica perciò il modo di essere della trasgressione stessa. Si tratta di un movimento, e non di uno stato. Non esiste come data una volta per tutte, non è una “cosa” o uno stato di cose, non è un effetto delle combinazioni delle forze in gioco: “Secondo Bataille, ogni atto di trasgressione afferma anche ciò che nega, e Lacan, l’abbiamo visto, dice che la trasgressione è come una porta socchiusa, ossia una soglia, un limite e non un superamento già compiuto”.

Che cosa hanno in comune lo sperpero dei beni ricevuti, un fenomeno psicosomatico, un amore, uno scoppio di risa? Sono eventi che toccano il godimento, solamente in virtù dei modi che inventano per deformarlo, rinviarlo, mascherarlo. 

 

Le trasgressioni sono passaggi e contaminazioni impercettibili tra i registri che determinano la nostra esperienza considerata nella sua totalità: un po’ di reale subentra dove c’era la legge, senza abolirla. Le trasgressioni mettono in discussione il regime del possibile, più che quello del consentito o dell’accettabile. Nel campo di ciò che ci è possibile dire, fare, pensare, per definizione nulla è interdetto. Al contrario: siamo più o meno consapevoli che ci viene ordinato di parlare, agire e pensare secondo le possibilità di vita esistenti in un determinato stato di cose. Ciò che è realmente interdetto non è in vista, non è un oggetto o un affetto di cui possiamo o meno fare esperienza: il godimento, in un certo senso, non ha niente da dire, né da pensare, né tantomeno da fare. Non è finalizzato alla conservazione dell’equilibrio dello stato di cose presente, è disorganico e anomalo. Eppure, non è privo di legami con la legge, con il giorno, con la castrazione. Anzi, è proprio sulla soglia della legge di castrazione che il soggetto può incontrare il godimento. Il libro di Silvia Lippi prende in analisi le modalità di questo incontro impossibile tra reale e simbolico, che va sotto il nome di trasgressione. 

 

Incontro impossibile, dunque: ma per quale ragione? Il linguaggio, inteso in senso ampio come sistema di rinvio segnico, costituisce il nostro mondo come campo dei possibili: esso è il visibile di cui, strutturalmente, ci sfugge la visibilità, è limite e condizione di possibilità di ogni visibile. Ciò che non è linguaggio, in un certo senso “ciò che non è”, il vero interdetto, è interdetto dal e al linguaggio stesso, che non possiamo mai sorprendere alle spalle. Ecco cosa si intende quando, citando Bataille o Lacan, si tenta di dire ciò che non si può dire: ciò che davvero manca nel mare del possibile, ciò che renderebbe questo mondo finalmente pieno, soddisfacente, non è un’altra possibilità o un’alternativa al mondo attuale, ma ciò che i due autori di riferimento in questo libro indicano come l’impossibile o l’indicibile. Nulla di negativo, perciò, ma piuttosto la positività assoluta, l’immediato, il puro godimento reale.

 

Incontriamo a questo punto la seconda colonna portante del discorso di Silvia Lippi: “La trasgressione è solamente immaginaria”. Una trasgressione immaginaria non è l’immaginazione della trasgressione. Con il concetto di “immaginazione”, anche nel senso più comune, indichiamo sempre il prodromo di un’azione: ciò che immaginiamo si configura sulla base delle capacità di movimento del nostro corpo, e il soggetto tende perciò alla realizzazione di ciò che immagina; diversamente, abbiamo visto che la trasgressione è strutturalmente irrealizzabile, non si può trasgredire nel reale senza soccombere.

Si coglie dunque, nella formula della “trasgressione immaginaria”, una tensione irrisolta che attraversa l’intero corso del libro di Silvia Lippi: si tratta dell’annodamento tra immaginario, simbolico e reale. Si può affermare che, se l’immaginario ha la potenza di “toccare” il reale senza frantumare lo specchio, è ancora tramite “un salto che non può essere definito a partire dalle sue condizioni” (Bataille, Il colpevole). 

 

 

Un salto dal possibile all’impossibile, una congiuntura istantanea che non può pretendere di durare, poiché esistere e durare non è nella sua natura. Qualcosa di specifico permette all’immaginario di non fissarsi in questa lacerazione, con il rischio di sprofondare nello specchio, di finire dritto nelle braccia dell’Altro. È la castrazione, l’interdizione al godimento: non si può essere il fallo. Eppure, come Lippi evidenzia a più riprese, questo “no” non smette di essere simultaneamente accompagnato da un “sì”, “vorrei essere il fallo dell’Altro”. Non si tratta mai di scegliere tra sì e no, tra godimento e desiderio, tra reale e simbolico. Il ruolo dell’immaginario consiste qui nell’istituire un legame tra queste istanze, senza la cui simultaneità non ci sarebbe alcun soggetto, né alcuna esistenza per come siamo abituati a pensarla. La trasgressione è immaginaria, perché il salto dal desiderio del soggetto (attivato dalla castrazione) al reale del godimento è impossibile. Nella trasgressione vera, ossia immaginaria, si fa allora esperienza parziale del godimento; quest’ultimo dev’essere disatteso, affinché possa darsi ancora un incontro. Allora la trasgressione, che si definisce come soglia, tensione tra il possibile e l’impossibile, simultaneità e reciprocità di affermazione e negazione, non può consistere nel realizzare il desiderio. 

 

La trasgressione non è l’annullamento, né l’alienazione del soggetto. Nella trasgressione immaginaria, ciascuno di noi si rivela a se stesso come questo simultaneo sì e no, voglio e non voglio godere, sono e non sono ciò che l’altro vuole. L’immaginario della trasgressione sta fra l’annullamento e l’alienazione: invece di dire sì all’Altro, precipitandosi e annullandosi nel reale, oppure dire no, desiderando però dire sì (questa simultaneità psichica è alienante), lega il sì e il no, il reale e il simbolico, mostrando l’essenziale inscindibilità del desiderio e del godimento, del “no” che afferma il desiderio singolare e del “sì” in cui ogni differenza è negata. Trasgredire vuol dire sì e vuol dire no, è un modo di stare nel movimento ritmico e ondivago tra possibile e impossibile, per trascinare in un movimento rivoluzionario il possibile stesso, il cui limite è momentaneamente sommerso e al contempo salvato. 

 

“Il godimento è impossibile o mortale. Esso è strutturalmente inaccessibile: la trasgressione è solamente immaginaria, e il godimento fantasmatizzato”. Questa espressione è emblematica di quanto detto finora. La trasgressione è solamente immaginaria, il godimento è inaccessibile, ma non è negato: lo vediamo rifratto negli schizzi delle onde che si infrangono sulla dura legge degli scogli. Nella seconda versione di un suo racconto intitolato Mia madre, Bataille scrive: “Mai, nemmeno per un istante, immaginai, nella violenta passione che mia madre mi ispirava, che potesse, anche nel periodo di maggior sbandamento, diventare la mia amante”. L’essenza immaginaria della trasgressione non è tanto nella voluttuosa immaginazione – che vorrebbe avere la forza di realizzarsi – di giacere con la propria madre, bensì nel mai, nel non so altro, nel non vissuto che è l’unica forma effettivamente visibile dell’impossibile, del puro godimento. Una formula, quella della trasgressione, che immette la negazione sulla scena del godimento, deformandolo in qualcosa di tollerabile alla vista, come si trattasse solamente del suo spettro: “La trasgressione è solamente immaginaria, e il godimento è fantasmizzato”.

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