Le cose divengono / La tentazione dello spazio
“All’uomo è dato di cadere nelle cose, non di essere una cosa (...) All’essere umano – scrivono Silvia Vizzardelli e Valentina De Filippis – è interdetta qualsiasi forma di coincidenza con l’inanimato, sebbene sia sempre a disposizione l’opportunità rovinosa e/o felice di cadere in esso” (La tentazione dello spazio. Estetica e psicoanalisi dell’inorganico, Orthotes, Napoli 2016). Ma cosa significa che non si è (nel)le cose e che si cade in esse? Non si è (nel)le cose perché all’essere umano è interdetta la coincidenza totale, senza residui, con la realtà circostante. L’uomo non viaggia cioè a velocità infinita. “L’essere umano – affermano le due autrici nella premessa - non è né inzuppato nelle materie del mondo, né padrone di un assoluto sorvolo creativo. A lui è consentito talvolta di fare un passo indietro, giocarsi l’ultima carta dell’abbandono inerziale, proprio perché la vita lo ha tratto fuori dall’immanenza” (p. 8). Occorre però chiedersi: è davvero possibile essere tratti fuori dall’immanenza? E di quale immanenza si sta parlando?
La tentazione dello spazio è un testo scrupolosissimo. “Scrupolo” viene dal latino scrupulus e significa “piccola pietra”, “pietruzza”, in quanto diminutivo di scrupus, “sasso”, “pietra a punta”. In concomitanza con i primi passi della psicoanalisi, Pierre Janet, particolarmente attratto dai fenomeni di “inerzia psichica” presenti nelle malattie raccolte sotto il nome di “deliri degenerati”, ha impiegato lo stesso aggettivo per descrivere e isolare il nucleo di queste forme di “detumescenza soggettiva” (Caillois). Janet le designa come “malattie scrupolose” oppure come forme di “psicoasetenia”, termine quest’ultimo, precisa Vizzardelli, “adatto a indicare, non tanto, come nel caso della frenastenia, un deficit dello sviluppo mentale, quanto un complessivo indebolimento delle funzioni psichiche” (p. 94). In queste esperienze di “miseria psicologica” (p. 90) lo scrupolo è, invero, presente dappertutto. E dal momento che si tratta di ossessioni e manie mentali, lo scrupolo si risolve in una “concentrazione parossistica su idee fisse, un grande impegno e un’assoluta diligenza nel riprodurre sempre nello stesso modo alcune unità sclerotizzate dell’esperienza” (p. 94). Il linguaggio corrente sembra conservare qualcosa di questa costellazione semantica quando, con l’espressione “essere scrupolosi”, veicola l’idea di una sensibilità nei confronti delle durezze della vita; “farsi degli scrupoli” significa “contare le pietruzze”, stabilire dei paragoni come delle cautele fino al risultato, non certo auspicabile ma talvolta raggiunto, di una paralisi dell’agire. Eccedere negli scrupoli significa infatti uccidere l’azione, dunque pietrificarsi.
Malattie scrupolose, le forme psicoasteniche sono “malattie della pietrificazione”: lo slancio vitale (vi) è sedotto dalla durezza inorganica in cui la parola inciampa e la vita fa un passo indietro. L’obiettivo di questo libro è allora duplice: da un lato esso vuole spezzare un rito (quello dell’arte-vita, dell’arte-animazione, dell’arte-organismo) e affermare una postura (quella del collasso, della caduta, del mancamento) che valga una possibilità reale (la possibilità di restare inerti, immobili, spossati); dall’altro, lo vuole fare impegnandosi nell’arduo tentativo di pensare il dislivello e le transizioni di fase, cogliendo cioè la funzione della soggettività nel suo passaggio al limite. L’inerte ma piena consolazione è in effetti offerta da “oggetti bizzarri”, oggetti con cui non si può prendere confidenza perché, in quanto tali, essi attestano piuttosto l’autoalienazione, dunque lo scacco di ogni self-confidence. Gli oggetti bizzarri sono operatori dell’estroflessione materica e perciò veri e propri convertitori dell’organico nell’inorganico. L’atto di creazione è invero un atto cristallino reso possibile da una specifica “sensibilità per la gravitazione”, dalla capacità di abbassare le barriere e le difese quando si sente di diventare spazio, ossia “di diventare simile a qualcosa, ma solo simile” (Caillois).
Pensare questa fatale attrazione significa pensare lo statuto dell’“in” di in-organico. Pensare e creare, sono atti e processi che avvengono sotto sforzo, quando ci si sente costretti da una necessità inesorabile. In questo senso ogni atto di creazione è intrinsecamente traumatico. Esso attesta al contempo l’allagamento imminente di psiche e la sua sopravvivenza certa, anche se solo presentita. Ogni atto di creazione culmina, e così si soddisfa, in quella che Aby Warburg, autore più volte citato nel testo, chiamava la potenza del Nachleben. E sopravvivere è un Trauerarbeit, un lavoro del lutto, lavoro bizzarro reso possibile da una certa dimestichezza con il non assimilabile dacché il trauma è l’evento stesso dell’inassimilabile.
Tuttavia, l’obiettivo duplice è in realtà unitario. A patto però di non lasciarsi sfuggire quanto è detto en passant a metà del testo: “capire cosa sia in gioco nell’uso dell’aggettivo attraente è l’obiettivo di tutto il nostro lavoro” (p. 89). Spezzare un rito e pensare il dislivello, ossia “convertire un’attività perdente in un’occasione di riscatto” (p. 119), significa infatti cogliere il “da sempre” della ancestrale passione per il torpore (p. 29). E al servizio di questo obiettivo sono una serie di ossimori che costellano il libro: quella tra ostacolo e organo, cadere ed essere, gravitare ed ec-stare, ritirarsi e rigenerarsi, precipitare e germogliare, collassare e riuscire, espatriarsi e soddisfarsi, passo indietro e passo avanti, pulsione di morte e slancio vitale, astrazione ed empatia. Pensare il passaggio al limite significa indovinare ciò che accade sur place, sul posto, in quei punti di stacco-contatto che hanno attirato e inchiodato l’attenzione degli autori oggetto del saggio: da Janet a Caillois, da Worringer a Freud, da Barthes e Lacan fino a Deleuze. “Sparisco dunque sono” (ossia torno ad essere nel mondo). Questo è il cogito segreto dell’inorganico. La vita (s)viene a tutti i costi, si sforza di (s)venire. Ecco il conatus (dell’)inorganico! Cedere alla tentazione collassante, acconsentire a vedersi da un punto di vista qualunque dello spazio che ci guarda, significa sprigionare la potenza segnaletica dell’angoscia, lasciare che essa cada e resti come segnale. L’angoscia non mente, diceva Lacan, ma non mente perché il suo statuto è al di là della distinzione tra vero e falso. Ed è sempre seguendo Lacan, che le due autrici si spingono “nel cuore ambiguo del desiderio senza abbindolarlo” (p. 113).
Il bello è il luogo in cui una mancanza si converte in mancamento e questa conversione avviene in un istante utopico ed extratemporale di cui non c’è tecnica, ma solo etica ed estetica. Sono queste le dimensioni dell’esperienza in cui accade che “l’organico si converte in inorganico, la spinta avanzante in inerzia e la vita tocca la morte” (p. 117). Il libro di Vizzardelli-De Filippis parla una lingua terza, la lingua degli spazi e delle immagini invocata anche da Deleuze e Guattari in Mille Piani, la lingua dell’arte a partire dalla quale soltanto, mediante l’apprensione del bello nella puntualità della transizione dalla vita alla morte, è possibile cercare di restituire “il bello ideale”, ossia la funzione che, ha scritto ancora Lacan, “vi può prendere all’occasione ciò che si presenta a noi come la forma ideale del bello, e in primo piano la famosa forma umana” (p. 117).
“Quella che proponiamo qui è un’estetica del torpore. Inerzia, dismissione della vita, tentazione dello spazio, ritorno all’inanità, seduzione dell’inorganico: sono i personaggi concettuali che incontreremo con più frequenza nelle pagine che seguono”. Questo è l’enunciato performativo con cui si apre il volume nel tentativo di “restituire allo sguardo antropologico la sua fortuna”. La vita inorganica delle cose è infatti una vita ancora umana perché “persino parlando della non vita non si riesce a balzar fuori dall’esperienza” (p. 7). Ma allora che cosa significa dismettere la vita? Vizzardelli e De Filippis sono chiarissime a questo proposito. L’inorganico lo si può frequentare solo all’interno di una teoria dell’esperienza e servendosi di una concezione pulsionale, fatta di arousal e shut down, di rilanci e collassi, di impasti e disimpasti. Eppure il genitivo che struttura il titolo e il sottotitolo del volume chiederebbe di essere pensato nel suo duplice e contemporaneo senso di genitivo oggettivo e soggettivo. Sebbene quest’operazione non sia compiuta esplicitamente dalle autrici, ci pare nondimeno che essa possa valere come una buona chiave di lettura. La stessa considerazione deve esser fatta anche a proposito di un altro genitivo, quello della pulsione di morte. È la morte che pulsa e desidera morire o la morte è il correlato di un’intenzione, di un desiderio tutto alla prima persona? “L’esperienza dell’inorganico è un esercizio di immobilità”.
L’opera d’arte è espressione di una tentazione a sparire nello sfondo, a farsi cosa. Essa è il cuore di una teoria del collasso psichico e di una teoria inerziale dell’immagine secondo cui per collassare occorre essere eccedenti, per precipitare nelle cose occorre non essere le cose, per morire occorre essere vivi. Ec-stasi verticale e materica, musica congelata, alba inerziale, aurora minerale, incipit inorganico, l’ “imminenza” è la reminiscenza dell’inorganico nell’organico, l’affetto provato dalla vescichetta freudiana di Al di là del principio di piacere, primordiale essere-(nel)la-morte in quanto esemplare di “un’ossificazione che avviene con la complicità della sostanza vivente” (p. 34). E questa reminiscenza è il minimo comune denominatore dell’impulso ad astrarre, della pulsione a morire e della tentazione a farsi spazio. La morte, è detto più volte, non è una transizione di fase o un passaggio di stato. Ma allora cos’è?
Appoggiandosi al Freud più difficile, quello che oscilla tra il mitico e lo speculativo, le due autrici provano ad accostare la pulsione di morte servendosi della mediazione di Worringer e Caillois. La pulsione di morte è la tentazione a farsi sfondo, a sparire nello spazio quando il peso della figura-forma, la fatica della neg-entropia, si fa insostenibile. La morte è pensata come finalità e tendenza interna alla vita, come un suo scarto, come la sua inerzia.
Eppure in questa definizione manca qualcosa. Non si può non (s)venire, ma allora che significa dilatare un collasso? È allora forse nella nozione di “elastico” cui le autrici fanno riferimento in rari ma cruciali momenti che si può trovare ciò che manca in quella definizione. Elastica, o sarebbe meglio dire, plastica è del resto la stessa pulsione e di questa plasticità fa parte la fissazione, la possibilità di irrigidirsi e fermarsi. L’identità è sempre identificazione. Ecco perché, prima che caduta, la pulsione è montaggio. Il montaggio si articola in cadute ma, in se stesso, è attività. Un’attività che lo Hegel di un frammento giovanile pressoché sconosciuto aveva definito “attività della mancanza”, ma una mancanza che, evidentemente, non è privazione, non è vuoto, non è non essere assoluto. Qui con “mancanza” si intende la doppia natura della pietra, quella di essere, al di là del principio di non contraddizione, contemporaneamente organo e ostacolo. La mancanza è cioè l’heteron fecondo, né tracotante né eccedente ma, semplicemente, funzionale all’articolazione – dunque ancora al montaggio- e alla consistenza del tutto.
Un’ultima parola sul perturbante. A questo celeberrimo sentimento è dedicato un intero capitolo, l’ultimo del volume. Il perturbante vi è presentato come il sentimento dell’inerzia, un sentimento paradossale in cui, come scrive De Filippis, “la continuità è prodotta da un dislivello” (p. 153): il superato o rimosso torna sub speciae inertiae. Sia come vitalizzazione dell’inerte (Jentsch) che come inerzializzazione della vita (Freud), il perturbante ha sempre a che fare con il ripresentarsi di qualcosa, con tutta la potenza del complemento di specificazione espressa dalla contemporaneità di passato e presente. Per questo è “il sentimento di una assoluta e anacronistica presenza” (p. 162): qualcosa appare dove si aspettava un nulla. Ma di cosa è fatta questa aspettativa di nulla? E quel nulla cos’è? La riscrittura dell’angoscia freudiana da parte di Lacan come “mancanza della mancanza” e, quindi, non come perdita ma come “perdita della perdita”, come presenza di qualcosa che tappa quella che dovrebbe essere un’assenza è, dal punto di vista dell’esperienza analitica, più che feconda oltre che massimamente reale. Il perturbante è perciò il sentimento causato dall’improvviso reperimento di qualcosa dove non doveva esserci nulla, di qualcosa al posto di un buco, di un pieno al posto del vuoto, del reale al posto del simbolico.
Il qualcosa è però la coincidentia degli opposti in seno a un unico fenomeno, sotto il medesimo rispetto e nello stesso tempo: la loro alternanza è la condizione del processo, che A.N: Whitehead indicava come “il fatto più concreto e generale della natura”, ossia “che le cose divengono”. Ecco allora cos’è la mancanza: la mancanza è la condizione della realtà pensata come processo. Nell’angoscia il fatto concreto e più generale diventa massimamente astratto e specifico. La saturazione dell’intervallo di tempo caro anche a Caillois segna l’arresto del processo: le cose non divengono, si pietrificano, si congelano, muoiono. Ma così, e solo così, per dirla ancora con Whitehead, diventano immortali. È infatti nel perturbante che, seguendo le due autrici, si assiste a quel movimento che Worringer chiamò “tipicizzazione”: in esso l’oggetto sensibile si riduce alla sua legge strutturale che fa tutt’uno col suo cuore materico. “Astrarlo” significa “farlo morire”, ma solo di una pétite mort, di una piccola morte, solo cioè nell’imminenza di un più grande orgasmo.