Uliano Lucas / Sognatori e ribelli. Fotografie e pensieri oltre il Sessantotto
Tre ragazzi corrono per strada con delle bandiere in mano e il passo svelto di chi ha un appuntamento a cui non può assolutamente mancare. Chi corre verso qualcosa trasmette un’idea di cambiamento. I ragazzi non solo corrono verso il futuro, verso il fotografo, verso di noi. C’è qualcosa in più. I loro piedi si staccano dal suolo, e così i loro corpi, ma allo stesso tempo appaiono ancorati ad un preciso istante. Corrono dentro la storia. È questo il tempo dell’immagine. Qui la fotografia è insieme l’occhio della storia che mostra gli eventi, ma è anche nell’occhio della storia, in una zona della tempesta dove regna una calma piatta e il futuro sta per prendere forma. Le pagine del libro di Uliano Lucas, Sognatori e ribelli. Fotografie e pensieri oltre il Sessantotto (Bompiani, 2018) lo raccontano e lo mostrano.
Mai come per questo libro il titolo racchiude davvero il senso di un particolare momento: si sogna e ci si ribella insieme. La fotografia è il prodotto di una decisione collettiva e chi viene fotografato non è solo il soggetto e il destinatario, ma la fonte stessa dell’immagine. Il reportage è una scelta di partecipazione politica e il fotoreporter è parte del movimento. Fotografare significa credere al cambiamento tanto riguardo alla trasformazione individuale che collettiva.
Uliano Lucas incarna tutto questo. Non si presenta come fautore di un generico impegno civile, ma come cosciente interprete di una militanza di classe. E su questa militanza, che scaturisce da una coscienza di classe, espressione oggi desueta e, peggio ancora anacronistica, Lucas costruisce la propria strada di uomo e fotografo. La seconda parte del titolo, “Fotografie e pensieri oltre il Sessantotto” ha il pregio di ribadire che le sue fotografie sono sempre espressione di un pensiero, mentre i pensieri possono assumere la forma della fotografia. L’avverbio “oltre” appare volutamente ambiguo: da una parte sembra indicare un punto d’inizio, il ’68, diventato ormai imprescindibile per la cronologia di un’epoca; dall’altra vuole esprimere la complessità di un processo di maturazione che non si è mai concluso.
Nel 1968 Uliano Lucas ha ventisei anni e possiede già una formazione tecnica, culturale e artistica che lo spinge verso la fotografia da free lance. Ha maturato, soprattutto, una limpida scelta in campo politico, cosa abbastanza naturale in una famiglia operaia, con un padre comunista, confinato e partigiano. E tuttavia non è facile dire se la genesi di questo libro sia dovuta all’omaggio, doveroso quasi, ai cinquant’anni del ‘68, o provenga, invece, dal bisogno di Uliano Lucas di ripercorrere e di rileggere con il distacco e lo sguardo di oggi la sua partecipazione umana e professionale a quell’avventura. Sia nell’uno che nell’altro caso è fondamentale il ricorso ad una lettura capace di restituirci il senso autentico del suo lavoro. Diversamente, si corre il rischio di considerare le sue fotografie come icone sterili, anziché coglierne la vitalità, espressione di un contesto magmatico fatto di pulsioni, desideri, contraddizioni, frustrazioni.
L’Italia del ‘68, timidamente aperta al centrosinistra, non ha ancora metabolizzato la repressione poliziesca delle lotte operaie e bracciantili, da Portella della Ginestra agli scontri di Genova contro il governo Tambroni, né ha dimenticato il tentativo di colpo di Stato di de Lorenzo. Gli eredi della Resistenza non hanno compreso, e se hanno compreso non hanno condiviso, il sostegno al governo monarchico del fascista Badoglio, la requisizione delle armi ai partigiani, l’amnistia ai fascisti, l’art. 7 della Costituzione e tanti altri eventi sostenuti dal PCI. Uliano Lucas, pur partecipe in prima persona alle lotte, alle contestazioni, ai movimenti, non ha mai fatto una scelta di appartenenza ad una parte politica. In questo ha ribadito la stessa decisione, coerentemente sempre mantenuta, di rimanere un fotoreporter senza ingaggio, ma senza dubbio fortemente engagé.
Le masse, quando entrano nel suo mirino, non sono folle anonime, ma un insieme di individui. Ecco perché, probabilmente, le foto che più riescono a restituire la forza di quegli scatti sono quelle con i volti di cui possiamo guardare gli occhi, che sembrano ricambiare lo sguardo. L’uomo nuovo non è l’anonimo operaio della fabbrica di Sesto San Giovanni, né l’ennesimo “terrone” con la valigia di cartone appena sceso dal Lecce-Milano; non è neanche il proletario in tuta o lo studente in eskimo che partecipa allo sciopero o al corteo. Se avesse potuto, nella tensione di attribuire umanità e personalità alle persone fotografate Lucas forse avrebbe messo i loro nomi.
E se il teleobiettivo schiaccia tutti gli elementi sopra uno stesso piano e azzera le reciproche distanze, Lucas, al contrario, usa il grandangolo e sfrutta tutto il potenziale della profondità di campo. Non si tratta di un mero espediente tecnico e artistico: profondità di campo significa dimensione umana, spessore storico, la vita in gioco, dasein. Restituire all’individuo la pienezza dell’esistenza, attribuirgli la responsabilità delle sue scelte, pretendere che si chieda se ribellarsi è giusto, ribellarsi è possibile.
Ad epigrafe di un capitolo Lucas riporta questa citazione tratta da “Bleu”, numero unico del maggio 1971: “Ognuno è nella propria vita quotidiana al centro del conflitto. Ognuno porta dentro di sé la sua negazione, frutto della seduzione del potere, del ruolo affibbiatogli dalla società dominante. Il vivo si ribella”. È il necessario prologo al tema della ricerca della felicità, qui e ora, che nel ‘77 utilizzerà come parola d’ordine un verso bellissimo di Claudio Lolli: “Riprendiamoci la vita, la terra, la luna e l'abbondanza”.
Ma è possibile, oggi, percepire appieno il valore che queste foto hanno avuto al loro primo apparire sulla carta stampata? Queste immagini non sono certo nate come icone. Lo sono diventate grazie alla loro capacità di comunicare storie ed emozioni condivise da un numero oggi inimmaginabile di persone. Questa capacità dipende dall’immergersi dentro le situazioni che si fotografano. Esserci tutto dentro, fisicamente e politicamente. Condividere l’entusiasmo delle manifestazioni e il fumo dei lacrimogeni, lo sventolio delle bandiere e le cariche della polizia.
“Non bastava fotografare dall’esterno la massa che avanzava con gli striscioni e le parole d’ordine, seguendo la classica iconografia del Quarto Stato di Pellizza da Volpedo, bisognava cercare di raccontare quello che accadeva all’interno, restituire la percezione soggettiva di questo nuovo protagonismo sociale”, rammenta il fotografo.
Le foto di Uliano Lucas sono diventate icone perché un enorme numero di donne e uomini le ha fatte diventare parte del proprio vissuto, le ha scelte, distribuite e riprodotte in una quantità oggi incredibile di stampati di ogni tipo. L’immagine non è il calco reificato degli avvenimenti che si sostituisce agli avvenimenti stessi, ma diventa il luogo di una scelta: ognuno di noi davanti a un’immagine deve decider come farla partecipare, o non partecipare, alle nostre iniziative di conoscenza e azione. La fotografia coincide con l’esperienza e non con la distanza dall’evento.
In quegli anni, il pregiudizio che pone l’immagine in posizione subordinata rispetto alla scrittura, comincia a sgretolarsi. Chi ha la fortuna di possedere una macchina fotografica ed ha abbastanza soldi per pagare rullini, sviluppo e stampa si autopromuove a reporter. Queste foto si diffondono con ogni mezzo. Basti pensare che, a partire dal’74 vengono pubblicati ben tre quotidiani della sinistra antagonista, che vanno ad aggiungersi a decine di periodici, a centinaia di riviste irregolari, a migliaia di numeri unici, per tacere di bollettini e volantini ciclostilati. La fotografia si emancipa assieme alla società.
Ben presto la gioia dell’assalto al cielo inciampa nella perdita dell’innocenza. La strategia della tensione e le stragi che ne segnano il passo seminano sgomento e paura. Ma il colpo di grazia viene da chi, calpestando i principi basilari dell’antiautoritarismo e dell’egalitarismo, si autoproclama avanguardia di un vastissimo e multiforme movimento e sceglie la lotta armata. La repressione che ne segue, il 7 aprile del ‘79 è la data più nera, frantuma e disperde un movimento di massa che non ha avuto più eguali. Uliano Lucas, che dalla Leica appesa al collo era passato a una reflex per adeguarsi anche strumentalmente al ritmo vorticoso impresso dall’accelerazione degli eventi, ritorna mestamente ai tempi più lenti e meditati della Leica.
L’ondata repressiva non è fatta solo di arresti e perquisizioni, significa obbligare a distinguere tra compagni buoni e, per usare un eufemismo allora in auge, compagni che sbagliano, significa clima di sospetto, di delazione, tradimenti, paura. Centri di documentazione, librerie, punti di aggregazione, chiudono per le intimidazioni; i gruppi si frantumano. Il fumo dei lacrimogeni e quello della canapa lentamente cala, come il prezzo dell’eroina che si appresta a sferrare il colpo di grazia. I compagni che distribuiscono volantini non ci sono più, sono spariti anche quelli che scattano foto dentro e ai margini del corteo per mandarli ai loro giornali. Ma Uliano Lucas è ancora al suo posto, a documentare la cacciata da un Paradiso solo appena intravisto negli occhi di tre ragazzi che corrono, con le loro bandiere rosse, verso un sole dell’Avvenire che sappiamo tramontato.