Moira Ricci: lo sguardo amorevole dell'intrusa

23 Agosto 2023

Ci sono libri che mirano al cuore e altri che puntano alla testa. Il libro di Moira Ricci disegna una traiettoria obliqua, capace di commuovere e di accompagnarci dentro labirinti di lucido ragionamento. Le immagini che lo compongono raccontano l’elaborazione del lutto di una giovane Moira per la precoce scomparsa della madre. Il titolo in copertina ne riporta, semplicemente, le date di nascita e di morte “20.12.53 • 10.08.04” (Corraini, Mufoco, Museo Fotografia Contemporanea, Cinisello Balsamo, 2023), un intervallo di cinquant’anni, e cinquanta è anche, non casualmente, il numero delle immagini presenti nel libro. 

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La madre è generazione, accoglienza, accudimento. È il ventre da cui si nasce e il corpo da cui ci si stacca. È Venere, Atena, Demetra, la dea della terra, la Madonna della tradizione cristiana che ingloba le altre. È la matrice da cui si proviene e, al contempo, da cui ci si deve emancipare. Ma la maternità può anche essere lo spazio di un’unione armoniosa, un filo che unisce le generazioni e alimenta la continuità della memoria. 

La morte è la fine di ogni cosa. L’inconoscibile, l’indicibile e l’inimmaginabile, l’evento che genera la paura più grande, quella di scomparire per sempre. Eppure, nella cultura occidentale, la riflessione sulla morte ha trovato il suo momento centrale e risolutivo nella figura del Cristo, nella sua resurrezione, e nella promessa di resurrezione, anima e corpo, a quanti, oltre che chiamati, risultino anche eletti.

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Moira Ricci, 20.12.53-10.08.04 (mamma balla) 10,5x21 cm.

In questo lavoro, il confronto con l’esperienza della morte si allontana dal comune sentire religioso e filosofico e da un immaginario largamente condiviso per attingere a una personale e originale modalità di negoziarla. Scorrendo le immagini, ci si immerge in un’atmosfera che non ha nulla di doloroso, di traumatico: non vi è lacerazione, strappo, taglio. Il vissuto della madre defunta viene frantumato in tanti quadri visivi che raccontano il suo quotidiano, in un ritmo che appartiene alla vita. Foto in bianco e nero o a colori, di interni o esterni, intime o pubbliche, istantanee giocose o seriose, riescono a dare il senso di un tempo che scorre come un tranquillo fiumiciattolo di intimità, ben diverso e ben al riparo da un Tempo escatologico o da un Crono che divora i figli. Negando questa dimensione temporale, Moira nega la morte. 

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Moira Ricci, 20.12.53-10.08.04 (fidanzati) 20x30 cm.

Il tratto comune di ciascuna delle foto è la presenza della madre e la contemporanea assenza di Moira. Se è vero che la madre non c’è più, è altrettanto vero che Moira non c’era. La morte ha reso espliciti e incolmabili due vuoti: da un lato la figura della madre, che vediamo nella foto e che non potremo più vedere, ma che, senza dubbio, come direbbe Barthes, è stata; dall’altra la figura della figlia, assente non si sa quanto giustificata, mancante all’appello della scena. E allora l’artista interviene “aggiustando” la realtà e integrando la parte che manca. Vedremo, in tutta la sequenza delle foto, una giovane Moira, abilmente mimetizzata con i vestiti e l’acconciatura appropriata alla situazione fotografata, guardare in modo insistente e diretto verso il volto della madre. Qui trionfa non tanto l’assenza del tempo, quanto la confusione dei tempi di due vite, ovvero la volontà della figlia di fondere il proprio tempo con quello materno.

Il libro è fatto di immagini, non di semplici foto, perché in realtà si tratta di fotomontaggi che utilizzano album di famiglia, fotografie di periodi diversi, istantanee amatoriali di assoluta normalità, pose e situazioni facili a ritrovarsi in qualunque famiglia. Ogni fotogramma diventa, però, materia da manipolare, toccare, una soglia da varcare. Lo sguardo adorante della figlia chiede di abitare lo stesso spazio della madre.

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Moira Ricci, 20.12.53-10.08.04 (gemellini) 15x21 cm.

Nel ventre della fotografia, Moira ricuce il cordone ombelicale materno, e inserendosi nella cornice, partorisce una nuova linea del tempo. L’innesto della foto-figlia sulla foto-matrice ha il senso di una presenza nel senso originario, ovvero che si pone davanti a qualcuno che è già sulla scena; il suo volto, rinnovato in ogni immagine, non ha una consistenza reale, ricorda piuttosto quella, ambigua e illusoria, di un fantasma, pura creazione necessitata dall’amore per la madre. Il fantasma è la possibile risposta di Moira a un verdetto di condanna inappellabile, a una sentenza eseguita che, tuttavia, come in un sogno, può ancora essere differita, che miracolosamente può essere oggetto di grazia. L’amore disperato trova inaspettatamente in photoshop, nello spazio della riproducibilità tecnica dell’immagine, un varco per riscrivere la sceneggiatura di un finale tragico. Questa operazione è facilitata dall’ambiguità dello statuto della fotografia, che da una parte sancisce dati di fatto e li certifica, dall’altra lascia insinuare, nella foschia del tempo, nei graffi e nelle macchie, nei colori slavati e rossicci delle stampe, dubbi e perplessità su luoghi, date, circostanze, e sulle persone stesse. In questa possibile incrinatura della verità a favore del verosimile o della falsificazione, attualmente oggetto di attenta disamina da parte di un certo pensiero fotografico – si pensi a Joan Fontcuberta – Moira Ricci trova lo spazio per sperimentare espressioni affettive, soluzioni formali e ipotesi concettuali.

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Moira Ricci, 20.12.53-10.08.04 (mamma con maestra) 22x30 cm.

Fidanzati, mamma con maestra, da nonna, mamma e zia Carolina, mamma cucina, sono alcuni esempi di didascalia che accompagnano in maniera semplice ed esplicita le situazioni descritte. Moira mette in scena una rappresentazione in cui viene reiterata sempre la stessa operazione che consiste nel mostrare il volto della madre assieme a quello, che osserva, della fotografa. La re-praesentatio si configura come immagine ridondante, se è vero che questa parola ha un valore intensivo oltre che ripetitivo. La rappresentazione che si compone di una serie di scene rivela così la sua natura teatrale, specialmente se si pensa che ci si trova sempre di fronte a due protagoniste. Il ruolo della madre è sempre attivo e dinamico: Mamma cucina, Mamma stira, Mamma e zia… Il ruolo della figlia esige la costanza della scena o addirittura l’inamovibilità, ma ha tutt’altra natura. Non è certo quello della spalla, o dell’angelo-messaggero. Moira, in tutte le foto, guarda con insistenza, forza e precisione il volto della madre.

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Moira Ricci, 20.12.53-10.08.04 (mamma al mare) 20x30 cm.

L’atto del guardare non si esaurisce nel cogliere la realtà visiva, ha a che fare con il salvare, il proteggere, mettere in guardia davanti al pericolo. E questa funzione, nel sentire comune, viene affidata alle divinità, ai Lari, ai cari defunti, che appunto ci guardano da lassù. L’atto d’amore della figlia per la madre si rivela nell’inversione dello sguardo, nella figlia che veglia e protegge, con la sua presenza muta e costante, la figura della madre. Il ruolo di cura che la natura ha attribuito alla madre e che la natura stessa ha estirpato, viene così accolto e fatto proprio dalla figlia. 

Nel sostituirsi alla madre nella funzione di soggetto curante, Moira deve fare sue le peculiarità materne, deve eternarne la voce, diventarne l’eco. Il suo sguardo è fisso sulla madre, irrigidito nell’atteggiamento di chi deve prestare la massima attenzione all’ascolto e alla comprensione per essere poi capace di ripeterne i gesti e la voce. In ogni immagine del libro, il volto di Moira è muto, attonito, incantato. Non esprime emozioni, non un sorriso, non un disappunto. È presenza lieve, quasi immateriale, che rivelandosi poi testimone onnipresente e muta, acquista il peso e la dimensione ingombrante dell’inquietudine, dell’indecifrabile, del fantasma. 

Mamma stira. Stirare è un gesto intimo, antico: è lisciare, accarezzare, scaldare. Appianare le pieghe, restituire la giusta forma a ciò che è stato stropicciato. Stirare è dare cura alle cose che ci mettiamo addosso, un atto d’amore per noi stessi. 

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Moira Ricci, 20.12.53-10.08.04 (mamma alla finestra) 12x18 cm.

E se la madre stira gli abiti per Moira, anche la figlia a suo modo compie lo stesso gesto pensando alla madre. Non usa il ferro ma la sua macchina fotografica: stira, accarezza, riscalda il grumo del tempo che si è condensato dentro le fotografie, lo stende per cercare di eliminare le pieghe e, così, lo allunga, come fosse un elastico, a suo piacimento. Si dà una seconda possibilità. Entra nel mondo della madre e la scruta come se volesse leggere i suoi pensieri: chissà cosa rimugina mentre è in macchina e qualcuno la fotografa dal finestrino, in procinto di avviare il motore? Cosa sta guardando affacciata alla finestra? A chi sta rispondendo, mentre entra in acqua al mare?

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Moira Ricci, 20.12.53-10.08.04 (mamma in macchina) 15x23 cm.

Con questo libro, Moira costruisce il suo personale museo dell’innocenza. Come nell’omonimo romanzo di Orhan Pamuk, dove il protagonista colleziona ossessivamente gli oggetti appartenuti alla sua amata, e addirittura crea un vero museo a Istanbul, anche Moira Ricci colleziona con amore gli istanti che la madre ha vissuto, attraverso le sue fotografie. Ricordare è amare. La memoria è un’esperienza “del cuore” prima che della ragione. L’acume critico dell’artista tiene a bada il suo delirio onirico d’onnipotenza, la resurrezione per opera di photoshop, non trascurando di disseminare dubbi sulla veridicità della sua rappresentazione. Anche se concluso prima dell’avvento dell’intelligenza artificiale, il lavoro grafico lascia volutamente trasparire, specialmente a una veloce osservazione sequenziale, una permanenza di sguardo, una rigidità espressiva, una mancanza di spontaneità del soggetto inserito, così che risulta facile capire chi è l’intruso. In questo modo l’interrogativo esistenziale sull’esperienza del rapporto con la madre assume i connotati dell’esperimento artistico e sociale, dell’interrogarsi sulla verità. 

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