Togliete l’ubriachezza, e avrete il filosofo analitico
1. “Mi è capitato varie volte – scrive Diego Marconi in Il mestiere di pensare (Einaudi 2014, p.48) – che amici non filosofi mi dicessero di aver letto e apprezzato libri di Deleuze, Derrida, Foucault, Habermas, Lacan, o di altri loro affini, che io avevo trovato quasi impenetrabili. Eppure io sono un lettore professionale di filosofia e loro no. Come si spiega?”
E’ la domanda che un filosofo “analitico” rivolge a se stesso, e ai propri lettori, per manifestare il proprio fastidio nei confronti di un modo di pensare che caratterizza, pur nelle differenze, i filosofi “continentali”. Marconi ha scritto un saggio interessante sulla difficoltà che la filosofia (e soprattutto una certa filosofia) incontra oggi per uscire dagli spazi specialistici e universitari. Lo specialismo è il suo cruccio: il grande pubblico non si appassiona, e presumibilmente non si appassionerà mai, per gli scritti di Carnap, di Quine o di Davidson, mentre continua ad appassionarsi per i testi di Deleuze, di Lacan, e più recentemente di Žižek. Come è possibile? perché loro hanno successo, e noi no?
Marconi propone due risposte. La prima è la maggiore familiarità del pubblico colto con tematiche in cui la componente filosofica si intreccia con quella letteraria, insomma con i grandi classici del pensiero, incontrati o magari solo sfiorati nelle scuole superiori (Platone, Nietzsche, Dostoevskij, ecc). La seconda – palesemente ironica – è che questi autori non vengono propriamente compresi, cioè il loro pensiero non viene afferrato e padroneggiato: essi esercitano sui lettori una sorta di stimolazione intellettuale, e il loro effetto di seduzione dipenderebbe dall’offrire la possibilità di gettare uno sguardo su grandi abissi (“Ma un abisso affascina proprio perché non si riesce a vederne il fondo”, p. 49). Insomma, il successo della filosofia continentale sarebbe legato alle grandi domande (qual è il senso della vita? Dio esiste? ecc.), e la difficoltà di comunicazione della filosofia analitica nascerebbe dai suoi tecnicismi e dai suoi standard argomentativi, severi e minuziosi ma anche poco seducenti.
Kate MacDowell
2. Non credo che queste siano buone spiegazioni. Anzitutto, non è vero che Deleuze o Lacan si interroghino sul senso della vita (suvvia!), semmai offrono strumenti per affrontare la dimensione del senso, del desiderio, ecc: anche strumenti di analisi – una cassetta degli attrezzi – e non solo visioni o teorie. Per contro, non è affatto vero che la filosofia analitica sia soltanto specialistica e non ambisca a rispondere alle grandi domande. Lo stesso Marconi, qualche anno fa, commentando il noto dibattito tra Chomsky e Foucault, sosteneva che l’avvento delle scienze cognitive ha rilanciato contro il relativismo culturale, egemone per un lungo periodo, la plausibilità degli universali: le nuove discipline “hanno ridato cittadinanza all’idea di una natura umana universale”. In realtà, questa ambizione risulta assai discutibile se è vero che le scienze cognitive si occupano quasi esclusivamente di determinati processi mentali, i più rigidi, e comunque i più vicino alla rigidità. E se gli esseri umani fossero piuttosto degli esseri flessibili? Se fossero capaci di una pluralità di stili di pensiero? In tal caso, le scienze cognitive non dovrebbero venire ribattezzate, più correttamente, scienze semi-cognitive?
Siamo arrivati al punto decisivo. Come mai il pubblico colto dei “non filosofi” apprezza gli autori tanto detestati da Marconi? Ciò accade perché è affascinato da profondità abissali o dalle qualità letterarie del loro stile? Ebbene, proviamo a pensare che la letteratura non sia semplicemente finzione – secondo uno stereotipo che ovviamente i filosofi analitici non immaginerebbero mai di mettere in discussione –, e sia piuttosto la messa in scena delle possibilità superiori degli esseri umani: è un’esplorazione di virtualità, e non semplicemente l’invenzione di mondi possibili. Proviamo a pensare, ancora, che l’interesse verso Kierkegaard e Nietzsche, ma anche per Lacan e Foucault, nasca dal fatto che i loro libri tentano di descrivere forme complesse di soggettività – totalmente fuori portata per la filosofia analitica.
Diego Marconi, Il mestiere di pensare
3. E infine: non dovremmo considerare un merito dei “non filosofi” la capacità di intuire (anche se non di padroneggiare) la possibilità di uno spazio logico molto più ampio di quello previsto e studiato dalla filosofia analitica? Lo spazio degli stili di pensiero, con principi e modalità di funzionamento assai diversi.
Non è vero ciò che crede Marconi, e cioè che la filosofia analitica soffra soltanto di “specialismo”. In realtà, il dogmatismo della filosofia analitica – che la rende giustamente così poco interessante da alcuni punti di vista – è una mescolanza confusa di generalismo e specialismo. Il generalismo non consiste solo nel chiedersi “quale è il senso della vita”, ecc., ma, in maniera senza dubbio meno evidente, nel dire “il” linguaggio, “il” pensiero, “la” logica, cioè nell’usare l’articolo determinativo per negare il pluralismo dei modi di pensare, e dunque la conflittualità dello spazio logico. E’ questo il senso da attribuire alla frase di Heidegger: “Polemos e logos sono stessa cosa”: lo spazio logico è dilaniato dal conflitto; “il” pensiero esiste solo nei suoi modi, “il” linguaggio soltanto nei suoi stili.
Ciò non implica ovviamente che non si possa mai usare l’articolo determinativo davanti a questi termini, ma che esso non deve produrre un blocco mentale, un crampo, insomma che non deve generare rigidità e dogmatismo.
4. Il punto debole della filosofia continentale andrebbe individuato secondo Marconi nella scarsa attenzione, se non nella trascuratezza, per la qualità argomentativa; per contro la filosofia analitica sarebbe ormai pervenuta a standard argomentativi di assoluta serietà, riscontrabili in tutte le principali riviste di questo indirizzo (pp. 49-50). Dimostrando grande onestà intellettuale, Marconi non può non rilevare che “gli scritti filosofici del «secondo» Wittgenstein non soddisfarebbero l’attuale standard analitico” (p. 74). Ebbene, il fatto che oggi gli scritti del secondo Wittgenstein verrebbero respinti dalle più importanti riviste di filosofia analitica dovrebbe essere motivo di seria preoccupazione: a mio avviso, è la conseguenza di quello che dobbiamo considerare un progetto di devastante cecità, cioè l’intenzione, coltivata dai filosofi analitici, di standardizzare l’intero linguaggio filosofico.
Questa rimane la più seria differenza con i continentali, per i quali il progetto di una standardizzazione della filosofia è un progetto mortifero – e fortunatamente non realizzabile.
Possiamo concludere con una metafora (che è un tipo di argomentazione, anche se non apprezzato da Marconi). Chi vuol capire i limiti della filosofia analitica, dovrebbe rammentare la storiella dell’ubriaco che, di notte, avendo smarrito il suo orologio in un vicolo buio, lo cercava sotto un lampione: quando gli chiesero cosa mai sperasse di trovare, si giustificò dicendo che quello era l’unico posto illuminato. Togliete l’ubriachezza, e avrete il filosofo analitico.