I racconti / Lo spazio vuoto di Luigi Malerba

26 Giugno 2020

A metà degli anni Ottanta, Luigi Malerba pubblicò su «Alfabeta» dei curiosi disegni, che in realtà disegni veri e propri non erano, non avendo l’autore, per sua stessa ammissione, particolare talento per quell’arte. Si trattava di profili, secondo la sua definizione, che ne denunciava appieno l’origine: Malerba non faceva altro che tracciare il profilo di oggetti di uso quotidiano, per esempio quelli sulla sua scrivania, e scriverci poi dentro alcune frasi. In seguito i profili sono stati raccolti, a cura di Paolo Mauri, in un bel volumetto pubblicato da Archinto nel 2012, quattro anni dopo la morte dell’autore. E questi medesimi profili possono costituire un’utile chiave di accesso alla silloge di Tutti i racconti appena edita da Mondadori e curata da Gino Ruozzi, se non addirittura all’idea di scrittura coltivata da Malerba. 

 

Che rapporto c’è, infatti, tra un oggetto e il suo profilo? Al di là dell’ovvia perdita della terza dimensione, si verifica comunque uno svuotamento, perciò il profilo rimanda a un oggetto che magari non esiste più. Qualcosa di analogo accade nella scrittura di Malerba: assistiamo a una lenta erosione o persino a una sottrazione del referente. Non è un caso che lo scrittore abbia guardato con grande interesse a due dimensioni diverse, quella del sogno (indagato direttamente o soltanto evocato) e quella della fisica contemporanea, segnata dalla relatività e dal principio di indeterminazione. Dichiarò infatti in una intervista che gli scienziati sono giunti alla conclusione che «le infinitesime parti della materia mancano di sostanza, sono pura energia. Gli scienziati hanno dunque scoperto il nulla, la non esistenza del mondo materiale» (forse allo scrittore sarebbe piaciuto il titolo di un libro che il fisico Carlo Rovelli ha pubblicato qualche anno fa, La realtà non è come ci appare). 

 

E ai profili rimanda l’idea dell’assenza, così spesso inscenata, per così dire, nei racconti e nei romanzi di Malerba, dove ritornano come un basso continuo la figura del fantasma, nell’accezione primaria di cosa che non corrisponde alla realtà, e il dolore fantasma (cui sono consacrati due diversi racconti). Una parte consistente della scrittura di Malerba si può infatti interpretare alla luce di quella che in ambito neurologico è nota come sindrome dell’arto fantasma: la sensazione che un arto persista nonostante la sua amputazione. La scrittura si configura così come il dolore per un’assenza, quella del referente.

A quella che secondo lui stesso è «la più alta narrativa della nostra storia letteraria», cioè il racconto (o la novella) – genere purtroppo caduto in disgrazia presso l’editoria nostrana, nonostante la lunghissima tradizione che vanta – Malerba si è dedicato con particolare continuità, dando alle stampe, nel corso di quarantacinque anni di attività letteraria, ben cinque raccolte. Una sesta, già predisposta da lui stesso, è comparsa due anni fa, sempre a cura di Gino Ruozzi, con il titolo Sull’orlo del cratere. A questo numero si dovrebbero poi aggiungere i cosiddetti libri «anfibi», cioè quelli destinati anche al pubblico dei bambini (basterà qui ricordare almeno Storiette e Storiette tascabili); di quella “scrittura parallela” si può leggere, nella raccolta postuma, un notevole campione provvisto di un titolo che rinvia a Konrad Lorenz, Come il cane diventò amico dell’uomo. Dunque, davvero una lunga fedeltà.

 

Non si tratta, però, di una mera continuità temporale, bensì di un’autentica affezione per il genere che non ha grande riscontro in altre esperienze letterarie coeve. Al racconto, che in una certa misura si può individuare quale nucleo originario della sua scrittura, Malerba deve l’esordio in volume, nel 1963, con La scoperta dell’alfabeto (raccolta poi riveduta nel 1971), cioè prima della formidabile accoppiata costituita da Il serpente (1966) e Salto mortale (1968) che ne fa uno dei grandi romanzieri del nostro Novecento. Occorre dire che quel libro rappresenta una sorta di unicum nella produzione dei racconti malerbiani, tanto che lo si potrebbe definire come un romanzo per sequenze o per quadri, dal momento che lo contraddistingue una grande unità di luoghi e personaggi. Unico lo è anche per l’ambientazione contadina (che nelle opere successive tende a svanire, con l’eccezione delle Storie dell’anno Mille scritte con Tonino Guerra e del romanzo Il pataffio), completamente estranea, in ogni caso, all’ideologia letteraria del neorealismo, ormai tramontata al momento di quell’esordio. Nondimeno, vi ritroviamo in nuce quegli stralunati che, pur cambiando aspetto e condizione sociale, continueranno a popolare le sue opere narrative: il vecchio analfabeta Ambanelli, che vuole sovvertire l’ordine dell’alfabeto, o Coriolano, convinto che le galline siano dotate del pensiero. Ora, giacché nel 1980 Malerba avrebbe pubblicato un libro straordinario intitolato Le galline pensierose, è facile intuire come i racconti abbiano rappresentato tanto un laboratorio quanto un luogo di sedimentazione delle idee narrative. 

 

 


Analogamente coeso risulta il volume successivo, Le rose imperiali del 1974, libro ambientato in un'antica Cina più o meno immaginaria, fatta di cerimoniali precisissimi e di teste che cadono con estrema facilità; il sangue serve per concimare le rose rosse dei Giardini imperiali, che raggiungono «dimensioni mai viste». In queste false cronache domina incontrastato il primo imperatore Che Huang-ti, ossia quello stesso Qin Shi Huang che già Borges aveva evocato in un suo testo, La muraglia e i libri, che apre Altre inquisizioni (e nel labirintico gioco di rifrazioni che è spesso la narrativa di Malerba, Borges diviene a sua volta protagonista di un racconto di Ti saluto filosofia). Le rose imperiali è senza dubbio uno dei libri più politici di Malerba: la Cina è utilizzata, allegoricamente, per una critica del potere e dei suoi sistemi pervasivi. E una Cina allegorica funge da scenario anche delle Città invisibili di Calvino, uscito soltanto due anni prima: è una Cina completamente diversa, ma vi si staglia Marco Polo, personaggio amato anche da Malerba. Tra questi racconti privi di titolo – caso eccezionale nell’universo narrativo malerbiano – ne spicca uno dedicato alle vicissitudini dell’antica Arte delle Bolle di Sapone, divisa in due diverse correnti in accesa polemica tra loro: i soffiatori dal fiato lungo e i soffiatori dal fiato corto. Inutile dire che finiranno quasi tutti decapitati; ed è altrettanto inutile dire che ognuno può ipotizzare l’interpretazione allegorica che ritiene più opportuna. 

 

Nella raccolta successiva, Dopo il pescecane (1979), la critica nei confronti del potere torna alla contemporaneità e assume toni diversi: i protagonisti dei racconti sono tutti o quasi inseriti nell’universo borghese – finanza, industria, televisione – e parlano in prima persona, cosa che fino a quel momento avevano fatto esclusivamente i personaggi dei romanzi. Inseriti non vuol dire però che nella realtà borghese essi stiano bene, perché anzi l’io monologante è spesso a disagio nel mondo che lo circonda, è chiuso in sé e manca di prospettiva. Un ottimo esempio è Bakarak, uno dei racconti più rilevanti di Malerba, il cui protagonista scopre «gli effetti della parola sull’organismo umano» e fonda una propria Grammatica Dietetica. 

Questi personaggi decentrati e sovente maniacali prenderanno fissa dimora nei racconti delle raccolte successive e avranno dei discendenti, che possiamo rinvenire nelle figure che animano la prosa di Cavazzoni o di Cornia, per fare due soli nomi. Come molti protagonisti della novellistica antica, i personaggi-narratori malerbiani sono ingannatori, al punto che uno di essi, Il magnifico truffatore, «truffando truffando» finisce «per realizzare un personaggio del tutto positivo», contrario alla sua vera natura. Sempre più inaffidabili, perché privi di una verità da affermare, essi sono anche ingannevoli, come la realtà in cui sono immersi. Quella specie di ritorno alla mimesi che alcuni hanno scorto in Malerba all’incirca dalla fine degli anni Settanta è soltanto apparente ed è sommamente ingannevole: se, come sostiene l’autore, la realtà è «obliqua», lo stesso si dovrà dire della sua mimesi, che sarà altrettanto distorta, «per traverso». Siamo di fronte alla finzione di una finzione, a una incessante mise en abyme; esemplari e spiazzanti, in tal senso, sono i racconti di Testa d’argento (1988), uno dei libri più belli degli anni Ottanta, i cui testi Malerba andò elaborando parallelamente al suo romanzo più politico, Il pianeta azzurro.

 

E in questo itinerario che va dalla corporeità più comica della Scoperta dell’alfabeto a un umorismo più freddo – già nel lontano 1961, presentando la prima raccolta a Valentino Bompiani, Malerba parlava di «racconto freddo» – non poco hanno contribuito il Diario di un sognatore e la conseguente riflessione sul mondo onirico, poi addensatasi nel 2002 in La composizione del sogno (oggi i due testi si possono leggere in un volume unico). Il sogno come tecnica, più che come semplice fondale: non a caso Malerba utilizza il termine composizione. Esemplare, a tale proposito, un racconto contenuto in Testa d’argento, cioè Il plagio (con un sottotitolo assai eloquente: Racconto in forma di incubo), il quale ha esiti davvero vertiginosi, perché alla dimensione onirica accompagna quella metaletteraria, che dagli anni Ottanta in poi si fa sempre più attiva nella scrittura malerbiana (basta leggere il romanzo Il fuoco greco per avvedersene). A conferma dell’indecidibilità del reale, vi si legge «È difficile sapere da che parte sta il mondo, ammesso che il mondo esista». 

 

E questa stessa frase torna, con identica formulazione, in un testo della raccolta successiva, l’ultima licenziata da Malerba, Ti saluto filosofia (2004). Del resto, «il vuoto della non-realtà» compare anche in uno dei racconti più riusciti di quest’opera – Un fantasma di nome Andrea –, ove si narra la breve disavventura di un uomo sposato che, per evitare complicazioni, alla ragazza che intende sedurre fornisce un nome falso. Ne consegue una débâcle erotica, perché sentendosi chiamare tra le lenzuola con un nome che non corrisponde al suo, l’uomo si smarrisce.

A conti fatti, ci si accorge che, lungo un percorso letterario che attraversa cinque decenni, la scrittura di Malerba è andata sempre più concentrandosi su quell’«effetto senza causa» (sono parole tratte dal racconto Il dolore fantasma, ancora da Ti saluto filosofia) che è la rappresentazione della realtà. C’è un racconto che di questa tendenza costituisce quasi un manifesto programmatico, la cui importanza è ribadita dal fatto che lo troviamo per due volte nelle raccolte malerbiane, sia pure con un titolo diverso: Descrizioni in Testa d’argento ed Enciclopedia in Ti saluto filosofia. A un progetto estremamente impegnativo di «descrizione di tutto», si affianca «una seconda enciclopedia complementare e parallela»: «finita la descrizione delle cose materiali, si dovrebbe passare alla descrizione degli spazi vuoti che stanno fra una cosa e l’altra, cioè il negativo delle cose». Ecco, forse con la sua scrittura Malerba ha cercato di fare proprio questo, esplorare lo spazio vuoto che sta tra le cose e le parole.

 

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