Come sopravvivere alla fine dell’anno europeo della cultura

25 Luglio 2014

Continua con una nuova forma la collaborazione con Il Giornale delle Fondazioni - Giornale dell'Arte. Da oggi pubblicheremo un approfondimento sulle città italiane candidate a Capitale Europea della Cultura 2019. Oggi pubblichiamo un'intervista a Franco Bianchini, Professore di Politiche Culturali e Pianificazione alla Leeds Metropolitan University.

 

 

Il titolo di Capitale Europea della Cultura rappresenta una grande occasione, da saper cogliere, per sviluppare un approccio alla pianificazione strategica, che faccia della cultura uno strumento per lo sviluppo economico e sociale, una nuova forma di welfare. Quale evoluzione ha avuto il ruolo della progettazione culturale nella storia del programma ECoC (European Capital of Culture)?


Tutto iniziò da Glasgow, quando ancora il programma si chiamava città europea della cultura. Era il 1990 e la città  scozzese era simbolo del declino economico e della disoccupazione, ben lontana dalla solida reputazione internazionale che potevano vantare, dal punto di vista artistico-culturale, le città che l’avevano preceduta, ovvero Parigi, Berlino, Amsterdam, Firenze e Atene.


Ma è proprio Glasgow la prima città ad interpretare in modo nuovo e più ampio l’opportunità di essere Capitale Europea della Cultura, andando al di là delle tradizionali politiche culturali per collegare l’evento ad una più ampia strategia di rigenerazione urbana, sociale ed economica, che coinvolga la città intera e passi attraverso partnership che uniscono in una visione comune pubblico e privato. Glasgow propone, così, una nuova immagine della città alle prese con una profonda crisi economica e sociale, promuove il turismo culturale, e presenta per la prima volta nella storia delle ECoCs un programma di attività lungo un anno intero, pratica che poi divenne un mainstream.


Non tutte le città insignite del titolo seguirono dal 1990 in poi la strada aperta da Glasgow, ma certo è che, pur con grande varietà di obiettivi strategici e, conseguentemente, di interventi e pratiche, il rapporto tra cultura e rigenerazione urbana e lo sviluppo territoriale partecipato sono i temi su cui si gioca il successo del programma e la possibilità di produrre benefici nel lungo periodo, evitando di cadere in un riduttivo e poco utile esercizio di intervento cosmetico.

Quale è la relazione tra città e cultura e quali potenzialità di rigenerazione urbana ricerca il programma ECoC?


C’è la coscienza di un progetto urbanistico tra i policy makers, impegnati, all’interno del programma ECoC, a mettere in piedi un piano strategico complesso e completo di rigenerazione urbana, che tragga vantaggio dalla cultura, che riqualifichi quartieri degradati con effetti positivi equamente distribuiti tra i ceti sociali.
Il problema dei contenitori che sopravvivono inutilizzati, macroscopico in occasione di eventi flagship che hanno una durata inferiore e ben altri budget, come Olimpiadi o Expo, si presenta in maniera inferiore. In occasione del programma ECoC, infatti, si presta solitamente maggiore attenzione a non creare spazi fuori scala o non altrimenti utilizzabili una volta conclusosi l’anno europeo.


A Istanbul vi sono state forti controversie sull’uso del titolo per ridisegnare parti della città secondo il gusto e l’uso di multinazionali. E’ stato raso al suolo Sulukule, quartiere storico della minoranza Roma, per essere sostituito da edifici commerciali, cancellando così la forte connotazione identitaria di questa parte della città e riducendo la diversità culturale, la cui valorizzazione rappresenta, invece, uno degli obiettivi del programma.


A Marsiglia il titolo di Capitale Europea della Cultura è stato visto come opportunità per la cosiddetta «gentrification», ovvero per attuare cambiamenti socio-culturali di parti del centro storico e aumentarne il valore immobiliare, trasferendo comunità di origine nord-africane che lì avevano abitato per decenni, ma la cui presenza scoraggiava investimenti. A questo è corrisposta una perdita di vitalità culturale e una segregazione di gruppi e comunità, che avrebbero arricchito il patrimonio di diversità culturale dei luoghi. A Liverpool è stato chiuso, in occasione del 2008, un quartiere ex operaio, che ora versa in uno stato di abbandono ed è attraversato da strade fantasma.


Il problema diviene, dunque, non tanto la sostenibilità di tali interventi o il loro collegamento con un più ampio disegno di pianificazione urbanistica, ma una visione urbanistica plasmata più dai bisogni dell’industria immobiliare che dai bisogni sociali. In tal senso, l’ECoC può divenire un evento politicamente controverso e porre un problema di democrazia, ovvero in che modo e attraverso quali strumenti coinvolgere e informare i cittadini su come viene ridisegnata la città, senza che vengano rotti equilibri sociali, che si generino tensioni o che si mettano a repentaglio ambienti fragili, come ad esempio Matera, per un eccessivo flusso turistico.


Le città insignite di tale titolo devono certamente trarre vantaggio dalle attività culturali e dall’effetto di «branding» dato dalla cultura, ma le ricadute positive vanno ridistribuite socialmente per non rischiare di dar vita ad un modello di igiene urbana, che alla lunga può generare tensioni.

Quale è tra le precedenti ECoC, la città che presenta a suo parere il caso di maggior successo?


Ogni città si è distinta per un’eccellenza. Glasgow 1990 per il collegamento del programma culturale con il piano di rigenerazione urbana e per la portata innovativa dei rapporti attivati tra pubblico e privato. Anversa 1993 per il recupero della vocazione storica di città aperta agli scambi e per il coraggio di proporre un programma che trattava temi difficili come la guerra in Bosnia e la pulizia etnica. Graz 2003 per la strategia di comunicazione e marketing legata anche a progetti architettonici. Lille 2004 per la strategia di lungo periodo messa in atto da un team che ha continuato a lavorare su Lille 3000, organizzando festival di culture emergenti, collegati a strategie economiche di respiro internazionale, che hanno attirato investimenti da paesi stranieri.

 

Liverpool 2008 per il consolidamento dell’economia turistica e congressuale. Linz 2009 per un progetto innovativo dal punto di vista artistico, che ha portato a riflessioni su momenti storici che tendevano ad essere rimossi. Tallinn 2011 per i progetti di partecipazione culturale di vastissima scala. Umeå2014 per l’uso di tecnologie digitali di avanguardia atte a facilitare la partecipazione dei cittadini in una città lontana e isolata.


In Italia, Genova 2004 ha lavorato per il progetto di recupero del centro storico e di collegamento con il porto, che ha permesso non solo agli stranieri, ma agli italiani stessi di riscoprire la città. Firenze nel 1986 aveva realizzato un programma di mostre di alta qualità.
Il successo della Capitale Europea della Cultura, la sua “popolarità politica” e gli effetti positivi generati hanno fatto sì che questa stessa formula venisse ripresa in altre parti del mondo, latino-americano, africano, arabo, e che l’Unione Europea decidesse di estendere il programma dal 2020 al 2033.


In Italia la percezione è senz’altro positiva visto l’interesse a partecipare dimostrato da ben 21 città candidate, un vero e proprio record. Per questo è importante che i progetti migliori vengano attuati anche in quelle città che hanno partecipato alla fase di selezione, ma che non saranno insignite del titolo. Ben venga dunque la creazione di un fondo culturale urbano, come fece il governo Blair, dedicato ad attuare i progetti migliori delle 11 città che non vinsero titolo nel 2008, e l’avvio di un programma nazionale, come il «UK Cities of Culture programme».

Su quali elementi possono o devono puntare le città italiane candidate?


Uno degli obiettivi comuni alle città arrivate alla fase finale, tutte di dimensioni medio-piccole, credo debba essere quello di dare opportunità ai giovani, per contrastare l’emorragia di talenti. Questo è un tema affrontato da parecchie altre città delle stesse dimensioni, che hanno avuto il titolo negli ultimi anni, come Maribor, Guimarães, Košice.
Le sei città italiane selezionate, ma anche quelle che non hanno superato la fase di preselezione, hanno ben presente quanto sia fondamentale collegare le politiche culturali con un più ampio piano di progettazione strategica, che coinvolga dimensioni economiche e sociali. In particolare, la grande sfida riguarda il tema della partecipazione.


Un altro tema affrontato dalle candidate è quello del recupero di infrastrutture con obiettivi di rigenerazione di specifiche aree della città. Ravenna, ad esempio, ha un importante progetto che riguarda la darsena, Matera propone il recupero di Mulino Alvino, Perugia la creazione di nuovi spazi e così anche Cagliari. Lecce si concentra sulla ricostruzione morale del Sud Italia, appoggiandosi a certe tradizioni e all’utopica riscoperta di antichi borghi. Il tema dell’utopia, filo conduttore della candidatura di Lecce, è comune a molte delle città candidate, che rilanciano l’idea della visione utopistica come stimolo per una città costruita dai cittadini stessi, basata su un’economia della condivisione, il recupero di vecchi saperi con finalità ecologiche, il collegamento tra patrimonio e innovazione o ancora il rapporto cultura e natura.

Quali indicazioni dare alle prossime ECoC per generare un impatto di lungo periodo? E come misurare l’impatto?


C’è una forte coscienza sulla necessità di misurare l’impatto generato dal programma ECoC in tutti i dossier delle città italiane candidate e i metodi per misurare l’impatto sociale, educativo, economico, sull’immagine percepita e così via esistono. Inoltre, la Commissione Europea è molto esigente sul tema della valutazione.
Credo che il modello di Liverpool sia interessante, anche in virtù del coinvolgimento dell’Università (ndr centro di ricerca «Institute of cultural capital»).


In generale, è necessario preparare le città italiane candidate su questo tema, tenendo presente che esiste una difficoltà: non tutte le città hanno investito sulla raccolta dei dati negli anni precedenti all’evento ed è invece necessario fissare una baseline per comparare e tirare conclusioni sugli effetti. Questo richiede un investimento importante in termini di ricerca, raccolta ed elaborazione dati su base continuativa.

 


Franco Bianchini, Professore di Politiche Culturali e Pianificazione alla Leeds Metropolitan University, nel 2001 è stato nominato dal Presidente del Parlamento Europeo membro del panel di selezione, che ha designato Cork Capitale europea della Cultura nel 2005. Nel 2006 il Ministro della Cultura sloveno lo ha nominato membro del panel responsabile della selezione di Maribor come città scelta dalla Slovenia per il titolo di ECoC 2012. Ha collaborato dal 2003 al 2009 con la “Liverpool Culture Company” sullo sviluppo della dimensione europea della candidatura di Liverpool a ECoC 2008.

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