Domani a Mudima alle 17.30 (Bookcity Milano) / Instaturisti (non) per caso
Nel momento in cui scrivo (16 ottobre 2017) le ultime statistiche su Instagram indicano in ottocento milioni il numero di persone che, con cadenza variabile, spesso molte volte al giorno, usano l'applicazione di condivisione delle fotografie creata nel 2010 da Kevin Systrom e Mike Krieger e acquisita nel 2012 da Mark Zuckerberg. Ma è probabile che dalla fine di settembre, quando i dati sono stati resi pubblici, a oggi, la cifra sia cresciuta. E lo sarà di sicuro quando queste righe verranno stampate e – forse – lette.
Tra giugno 2016 e aprile 2017 gli utenti di Instagram sono aumentati di venti milioni al mese, con un’accelerazione continua e progressiva. Presto un umano su sei sarà in grado di mostrare nel giro di pochi secondi i suoi scatti e le sue “stories” a una platea che copre l’intero pianeta. Molto più di altri social media, Instagram ha una diffusione globale: l’80 per cento dei suoi utenti si trovano fuori dagli Stati Uniti e in paesi come l’Indonesia, l’Iran o il Mozambico superano in numero quelli di Facebook o di Twitter (World Map of Social Networks, gennaio 2017).
Quanto alle ragioni di questo successo, si riassumono rapidamente: l’ubiquità e la maneggevolezza dello smartphone, la semplicità d’uso della app, l’importanza delle immagini nella nostra (come in qualsiasi) società.
“Il Web 1.0 è stato inventato per consentire agli scienziati di condividere le loro ricerche, il Web 2.0 è stato creato per permettere alla gente di condividere immagini di gattini” (Ethan Zuckerman, direttore del MIT Center for Civic Media).
Non esistono, o non sono stati diffusi, dati attendibili sui soggetti preferiti dagli utenti di Instagram. Certo ci sono miliardi di gattini, di tatuaggi colorati, di unghie manicurate, di tazze di cappuccino con la schiuma a forma di cuore, di cibi esposti al presunto desiderio di chi guarderà (incarnazione e rovesciamento del foodporn, di cui ha scritto per prima Rosalind Coward in Female Desire: “Cucinare il cibo e presentarlo sontuosamente è un atto di servitù”). E con il cibo, spesso non distinguibili dal cibo, fotografie di viaggi, gite, scampagnate: torri Eiffel e torri di Pisa, ali d’aereo, specchietti retrovisori, rotaie di treno, spiagge e monti, albe e tramonti, orizzonti orizzonti orizzonti.
Le immagini delle vacanze si sono condivise anche prima di Instagram. È presente nella memoria di molti viventi il ricordo di lunghe serate nel corso delle quali, fuori dal cono di luce del proiettore di diapositive, si sonnecchiava discretamente, mentre sullo schermo illuminato scorrevano selfie (allora si chiamavano autoscatti), torri Eiffel e torri di Pisa, e ancora spiagge, monti, tramonti, orizzonti.
Il dato nuovo è la quantità – e con la quantità, la velocità. Due elementi che naturalmente hanno cambiato tutto.
Nel 2015 l’ente per il turismo di Wanaka, in Nuova Zelanda, ha invitato e ospitato alcuni influencers. (Si definisce influencer una persona che, grazie alla sua popolarità nei social media, è in grado di lanciare nuove tendenze e di esercitare appunto un’influenza sui suoi follower). In cambio, i forestieri avrebbero postato immagini e brevi testi sulla loro esperienza di viaggio. All’operazione ha partecipato Johan Lolos (alias @lebackpacker), giovane pr belga, fotografo autodidatta e itinerante, seguito su Instagram da 452.000 persone, più della popolazione di Bologna o di Firenze. I risultati hanno superato ogni aspettativa: nel 2016 i visitatori sulle rive del lago Wanaka sono aumentati del 14 per cento rispetto all’anno precedente, un record nella storia del turismo neozelandese e un ritorno economico notevolissimo rispetto all’investimento iniziale. “Immagino che seguire i fotografi su Instagram – ha commentato Lolos – possa fornire espressioni più genuine rispetto all’ispirazione data dalla brochure di un’agenzia di viaggi”.
Non sono sicura che l’autrice dell’articolo da cui ho attinto la notizia del caso Wanaka (Carrie Miller, How Instagram Is Changing Travel, “National Geographic”, gennaio 2017) userebbe il termine “genuinità”: il suo testo si apre con alcune fra le centinaia di foto che ritraggono solitari escursionisti seduti o in piedi sulla spettacolare roccia di Trolltunga, sospesa sul lago di Ringedalsvatnet, in Norvegia. Intorno solo il cielo e l’aspro paesaggio nordico, ma fuori quadro – avverte Miller – c’è una lunga coda di persone in attesa di prepararsi per lo scatto fatidico (qualcuno è anche morto). A Odda, la cittadina nel cui circondario si trova Trolltunga, i turisti sono passati dai 500 all’anno del 2009, era pre-Instagram, ai 40.000 del 2014. Oggi, si presume, sono molti di più.
Le fotografie di Instagram non sono genuine. E neppure, ammesso lo si consideri un pregio, spontanee.
Nella primavera 2017 lo scrittore – e adesso anche fotografo – nigeriano-statunitense Teju Cole ha ripostato nel suo account Instagram (@_tejucole, 32.400 follower) una serie di scatti realizzati nel Foro romano dai turisti: diversi gli autori, pressoché identiche le fotografie, tutte prese da un’unica postazione, punto obbligato, o così parrebbe, per chi voglia abbracciare con un unico sguardo il sito archeologico. “Questa – osserva Cole – è una delle prospettive ideali suggerite dal tracciato del sito e dall’infrastruttura turistica. Innumerevoli turisti fotografano il Foro da questa prospettiva, inconsapevoli degli innumerevoli altri che, reagendo automaticamente alla predisposizione del terreno, hanno appena fatto lo stesso”.
Su un punto non sono d’accordo con Cole, ed è l’idea che i turisti al Foro non sappiano di riprodurre sempre la stessa immagine. Lo sanno, invece. Sperano forse che la loro fotografia sia migliore delle altre per un capriccio del destino (condizioni di luce speciali, un gabbiano che vola sullo sfondo delle colonne…), ma non cercano di essere originali.
Da un lato la fotografia al Foro romano è un rito, e i riti si rispettano e si ripetono, dall’altro Instagram si presta alla mancanza di originalità, in qualche modo la impone. Il meccanismo stesso degli #hashtag su cui si fonda la possibile organizzazione e catalogazione dei contenuti della app consente di mettere subito a confronto i soggetti, le angolature, gli stili. E vedere decine di “copie” del proprio scatto non indebolisce, semmai rafforza la scelta compiuta. Per questo su Instagram miti e riti, turistici e non, si creano rapidamente e non hanno bisogno del peso storico e simbolico del Foro romano.
Il Choi Hung Estate è uno dei primi esempi di edilizia sovvenzionata realizzati a Hong Kong ai tempi in cui la città era ancora una colonia britannica. Quando è stato costruito, nel 1962-63, “nessuno avrebbe predetto la sua popolarità nell’era digitale”, hanno scritto nel loro account @travel_ingoodcompany Johanna e Piotr, una coppia polacca che gira il mondo pubblicando fotografie di arte, architettura e “di tutto quello che cattura l’occhio”. Cinque o sei anni fa, però, qualcuno si è accorto che i grandi edifici razionalisti, con le loro file di finestre affacciate sui campi da pallacanestro, erano ottimi sfondi fotografici. E da allora “non c’è instagrammer che si rispetti, in quel di Hong Kong, che non vada a farsi un selfie al Choi Hung Estate”. Cito di nuovo Johanna e Piotr, perché il loro account riflette e asseconda con avvedutezza i gusti dei turisti “instagrammisti”.
Più dell’importanza del monumento conta la sua fotogenia, la capacità di “catturare l’occhio”. È il caso dei murales e dei graffiti, che a Roma, Lisbona o Copenhagen, ricorrono nella galleria fotografica dei due viaggiatori polacchi e che si rivelano, al di là delle intenzioni degli street-artisti, oggetti esemplari di una città-fondale, dove tutto quello che non entra nell’inquadratura è automaticamente scoria.
(E chi, come @_tejucole o, in Italia, tra gli altri, Francesco Pecoraro (@fr_pecoraro), punta l’obiettivo su un ideale fuoricampo visivo, si ritrova invischiato in un comma22: nello stesso momento in cui scatta il clic, la scoria si fa set ed è pronta per diventare maniera).
Quello che, stanziali o viaggiatori, pensavamo di dover monēre, ricordare – il monumento – non serve in effetti più: vuoi perché lo conosciamo già, ed è replica prima ancora che il nostro sguardo ci si posi sopra, vuoi perché non lo conosciamo, e quindi non ci interessa. Ci vuole qualcosa di nuovo.
“A New York non c’è niente di nuovo da fare”: questo, nelle interviste, MaryEllis Bunn (anno di nascita 1992) ha detto di avere pensato, prima di ideare nel 2016 il Museum of Ice Cream, meraviglia contemporanea che si sposta di città in città e che con il museo in senso tradizionale non c’entra niente (“abbiamo scelto questa parola, perché è qualcosa che la gente capisce”, ancora Bunn). E pure il gelato è solo un McGuffin, per dirla con Hitchcock. A contare davvero è che ambiente, superfici, colori sono studiati per fare da sfondo ai selfie che i visitatori scatteranno e condivideranno su Internet: per questo, e non per altro, migliaia di persone sono disposte a pagare una trentina di dollari per il biglietto. Non solo per vedere, ma per esserci.
È quella che oggi si chiama “esperienza”. E il Museum of Ice Cream è solo uno dei molti “Instagram playgrounds” – la definizione è della giornalista Alyssa Bereznak (Can Real Life Compete With an Instagram Playground?, The Ringer, 9 agosto 2017) – che si propongono di fornirla. Intorno al design dell’esperienza, al marketing dell’esperienza, ruotano milioni e miliardi: ristoranti, alberghi, musei, mezzi di trasporto, perfino le nostre stesse case, ambiscono a diventare luoghi esperienziali.
Come se la vita non ci regalasse o infliggesse esperienza a piene mani, che noi la guardiamo o no.
Questo testo è estratto dal terzo volume dell'Almanacco di alfabeta2, edito da DeriveApprodi (361 pp. a colori, € 25). La pubblicazione verrà presentata a Milano sabato 18 alle 17.30, nell’ambito di Bookcity, da Mudima (Via Tadino 26), con la partecipazione di Marco d'Eramo, Marco Dotti, Manuela Gandini e Francesca Pasini (alle quali si deve il corredo iconografico), Marco Scotini e Lucia Tozzi; e a Roma venerdì 24 alle 21, al Cinema Palazzo di San Lorenzo (Piazza dei Sanniti 9A), nell’ambito del secondo Festival di DeriveApprodi, con la partecipazione di Maria Teresa Carbone e Andrea Cortellessa e di Antonella Sbrilli, che condurrà un gioco alfaturistico con la partecipazione del pubblico. Seguirà un reading poetico con le letture di Mariano Bàino, Nanni Balestrini, Elisa Davoglio, Sara Davidovics, Carmen Gallo, Jonida Prifti, Lidia Riviello, Sara Ventroni e Michele Zaffarano.